La
storia dell’uomo di otto-diecimila anni fa è avvolta nel più
fitto mistero. E noi, come ciechi che cercano di immaginarsi un
paesaggio, non possiamo fare altro che ipotesi e congetture su chi ci
abbia preceduto, sugli uomini che vissero la terra prima di noi.
Abbiamo costruito la nostra idea del passato partendo da resti di
ceramica, da frecce appuntite, asce, e con questi pochi reperti
archeologici, abbiamo composto rompicapi sempre più complessi che si
reggono finché non viene scoperta qualche nuova tessera, che
modifica profondamente, quando non annulla senza pietà, tutto ciò
che abbiamo immaginato, obbligandoci così a ricominciare tutto
daccapo.
Questa
premessa, se è vero che è valida per tutti i popoli dell’antichità,
ancora di più lo è nel caso dei Maya. Si può, pertanto, partire da
congetture. Una di esse è che, ragionevolmente, l’uomo giunse nel
continente americano da un altro luogo, intorno a 25.000 anni.
1
Probabilmente questa gente oltrepassò lo stretto di
Bering, che separa la Siberia dall’Alaska, ma che un tempo
costituiva un ponte di ghiaccio che univa il continente asiatico a
quello americano. L’emigrazione degli asiatici fu guidata, molto
probabilmente, dall’istinto o dalla fame o dalla ricerca di un
clima migliore, e avvenne seguendo tracce di animali da preda. Secolo
dopo secolo, lentamente ma incessantemente, questi nomadi popolarono
tutto il continente, spingendosi anche nella parte centrale
dell’America.2
Qui
nasce la cultura maya, la cui raffinatezza supera di gran lunga
quella dei popoli vicini, tanto che gli studiosi la considerano il
parallelo della Grecia. Il substrato culturale venne offerto dagli
Olmechi, popolo che rappresenta la cultura madre di tutta la
meso-america, la cui eredità venne ulteriormente raffinata e portata
a compimento dai Maya. Questi non possono certo dirsi un popolo
scomparso: sono ancora circa 6 Milioni.3
Gran parte di essi ha resistito con notevole tenacia all’ invasione
spagnola e nordamericana, sebbene negli ultimi decenni l’una e
l’altra abbiano assunto forme sempre più violente e repressive.
Popolo
fiero e orgoglioso della propria storia, sebbene quasi del tutto
cristianizzato, conserva ancora elementi del passato. Anzi, quasi
incredibilmente, i Lacandoni, particolare popolazione maya, hanno
mantenuto pressoché del tutto le loro antiche tradizioni sociali e
culturali.4
Questi, agli occhi degli etnologi, appaiono come dei veri e propri
fossili viventi: rimasti politeisti, vivono all’interno della
foresta vergine, in condizioni arcaiche.5
La
scoperta dell’antica civiltà Maya è avvenuta con un processo
lento e graduale, e solo nell’ultimo secolo gli studiosi hanno
iniziato seriamente a studiare questa cultura. In seguito alla
conquista spagnola, il primo personaggio, che si pose interrogativi
sull’età delle possenti rovine che giacevano sparse qua e là,
senza ricavare tuttavia molto dagli indigeni, fu il monaco
francescano Diego De Landa. A lui si deve una delle opere più
importanti per la comprensione della civiltà Maya post-messicana: la
Relazione sullo Yucatan.
Tuttavia, sempre a lui si deve la perdita di quasi tutti i codici
maya,6
che fece bruciare in un momento di eccessivo zelo religioso. Proprio
a causa di ciò gli studiosi non riescono a mettere bene a fuoco
alcuni punti che, rimasti oscuri, ci preludono una totale
comprensione del popolo meso-americano.
Per
molto tempo non si è fatto nulla ai fini di conservare le possenti
rovine Maya, le quali, oltre ad essere state distrutte da una vorace
foresta, hanno costituito delle riserve di pietra per le costruzioni
spagnole, o vecchiume da abbattere per “piantare” trivelle,
finalizzate all’avida ricerca di petrolio.
Stephens e Catherwood furono i primi, dopo il monaco De
Landa, a studiare seriamente i Maya e, con le loro esplorazioni, tra
il 1839 e il 1842, mossero l’interesse dell’archeologia. I due
diedero alla stampa il lavoro intitolato Incidents
of Travel in Yucatan, libro tutt’ora
ristampato.7
Vari studiosi cercarono di capire chi potesse avere costruito le
splendide piramidi facendo le supposizioni più svariate: si arrivò
ad affermare che i Maya fossero in verità, Egiziani che si
spostarono in America centrale e che qui fondarono un’altra
cultura, o che fossero ebrei dispersi dopo la diaspora. Altri
vedevano la prova del fatto che un tempo la mitica Atlantide fosse
realmente esistita e che gli atlantidei, in seguito alla scomparsa
del loro continente a causa di un cataclisma, avessero fondato una
nuova cultura nelle terre americane. A favore di queste supposizioni,
per gli studiosi, era il fatto che gli indios di quelle terre, al
tempo dell’arrivo iberico, non sapevano chi avesse costruito le
piramidi, le steli e non sapevano tradurre i centinaia di glifi
scolpiti sulle pareti di palazzi, di templi, di piramidi, di
scalinate e di steli.8
Con il ritrovamento della cosiddetta lastra di Pacal, taluni
sedicenti studiosi come Daniken, arrivarono a vedere nel fatto che i
Maya avessero potuto costruire quelle grandiosità, l’aiuto di
entità civilizzatrici extraterrestri.9
Daniken porta a prova di ciò argomentazioni che non fanno altro che
testimoniare una nuova forma di razzismo verso queste genti.
I
Maya, in verità, hanno creato una civiltà in larga parte autonoma,
con un’impronta specifica, nata nelle foreste tropicali e, da essa,
infine inghiottita.
Il
lavoro da essi svolto nella costruzione di immensi edifici risulta
poco comprensibile per persone che, come noi, sono state educate a
vivere nelle comodità, per cui questi sforzi ci appaiono ancora più
enormi se pensiamo che i meso-americani non possevano animali da
traino, non usavano la ruota e trasportavano tutto grazie solo alla
forza delle braccia. Il motivo di tutti questi loro sforzi si
chiarisce se, avvicinandoci a questa civiltà, tentiamo, con tutti i
connessi limiti, di comprenderne la cultura, le tradizioni, il modo
di vedere e vivere la realtà. I Maya furono un popolo dal grande
spirito religioso, e impiegarono molte delle proprie energie al fine
di permettere alle divinità di mantenere le necessarie forze per il
perpetuamento del cosmo. Le piramidi, con alla sommità un tempio,
sono agli occhi dei Maya, oltre che luoghi sacri delle vere e proprie
montagne artificiali ove, mediante riti particolari, la divinità
scende ed entra in comunicazione con il sacerdote, il quale, oltre a
sacrificare vittime e sangue per nutrirla, può avanzare richieste
inerenti, per esempio, all’auspicio di un buon raccolto, di
abbondanti piogge e di eventi favorevoli nel futuro.10
Tutta
la scienza e il pensiero maya (matematica, scrittura, calendario,
astronomia) va spiegata in senso mistico-religioso. L’astronomia,
per esempio, non nasceva al fine di conoscere le stelle e le loro
traiettorie, bensì nell’intento di potere conoscere e predire il
futuro; come, in varie forme, in tutte le civiltà antiche di tutto
il mondo. In altre parole l’astronomia maya nasceva per soli scopi
astrologici.11
Allo stesso modo, il calendario annotava le varie divinità che
presiedevano alle stagioni, sì che il popolo potesse assicurargli i
giusti riti per nutrirli. La matematica era solo un mezzo per
misurare il tempo, la cui sacralità verrà spiegata nella prima
parte di questo lavoro. Per ora ci limitiamo a dire che il loro
sistema computazionale era a base vigesimale, perché il venti
rappresentava la sintesi dell’uomo, in quanto tale numero era la
somma delle dita dei piedi e delle mani. Già in questo concetto si
esplica il ruolo fondamentale dell’uomo per la sopravvivenza del
cosmo. Era l’indios che, con i suoi molteplici riti, garantiva la
vita degli dei, la rinascita ciclica della natura, il sorgere del
sole ogni mattina, la reincarnazione dei defunti e che scongiurava la
fine della quarta era dell’umanità, ossia la presente. La
scrittura serviva a registrare la storia che, al contrario di noi
europei, non veniva vista come un qualcosa di scisso dal sacro. Per i
Maya la loro storia era sacra e la scrittura in ogni sua forma era
una preghiera agli dei. A prova della sacralità della scrittura
riportiamo le affermazioni di alcuni studiosi, la cui fama di alcuni
di essi è unanimamente riconosciuta.
La
scrittura nasce dalla gestualità delle mani ed è una sua
codificazione fissa e stilizzata. Molti glifi raffigurano una mano
aperta o chiusa e, nelle rappresentazioni architettoniche e
pittoriche, le mani sono sempre messe in evidenza mentre compiono
gesti particolari. Ogni gesto ha un significato ben preciso, che
Martin Brennan riesce a comprendere studiando il linguaggio dei gesti
degli indiani d’America, i quali, a loro volta, lo hanno ereditato
dai popoli situati nella parte centrale d’America. La mano, per i
Maya, possiede un forte senso mistico, è il punto in cui si
concentrano le energie spirituali dell’individuo ed ha un
significato religioso simile alla nostra croce cristiana o alla
stella di Davide per gli Ebrei.
La
società maya, come tutte le culture non industriali, basava il suo
sostentamento sull’agricoltura. Se le piogge erano troppo
abbondanti o, viceversa, troppo magre, il raccolto andava distrutto
e, alla stessa maniera, se il sole riscaldava più del necessario il
raccolto si bruciava o, viceversa, non maturava. La pianta nutritiva
per eccellenza era il mais, il quale ancora oggi è per i Maya un
alimento essenziale nella loro dieta quotidiana. Essi ne mangiavano a
colazione, a pranzo e a cena: se il raccolto andava perduto, era
carestia. L’importanza delle divinità connesse alla fertilità
della terra è testimoniata dal fatto che tutt’ora i Maya, sebbene
cristianizzati, adorano i Chaci, le divinità della pioggia, mentre
si è persa la memoria di altri esseri supremi come Itzamna, il cui
culto era di rilevante importanza nel periodo classico.12
Gli sforzi affrontati da questa civiltà meso-americana furono
veramente enormi e le fatiche incommensurabili. Ciò ha fatto sì che
gli indios non lasciassero nulla al caso: tutto doveva essere
predetto, le divinità abbisognavano di nutrimento e l’uomo non
doveva mancare ai propri doveri verso il cosmo. La costruzione di
enormi piramidi, realizzate con una tecnologia pari a quella del
neolitico, rifletteva la speranza di ricevere la benevolenza degli
dei, ai quali vennero consacrate immense strade, il cui solo fine era
quello cerimoniale,13
dato che non potevano servire come vie di comunicazione per la
mancanza di animali da soma.
La
terra, vista come un essere vivente, doveva essere rispettata e nulla
bisognava sottrarle oltre il necessario. L’uccisione di un animale
richiedeva particolari sacrifici per ridare le energie tolte al
cosmo, tra cui l’offerta del proprio sangue. Il sangue
rappresentava il mezzo reale di sostentamento dell’universo, e i
salassi erano delle dolorose pene che gli uomini e le donne si
infliggevano per scongiurare la sterilità della terra. Il Maya non
solo non prendeva più del necessario, ma sentendosi in dovere di
ridare forza al cosmo, rivestiva un ruolo centrale per il suo
nutrimento.
Le
divinità impiegavano parte delle loro energie per nutrire gli
uomini, sicchè essi dovevano risarcirli. La vita si basava su questo
delicato equilibrio: da una parte gli esseri supremi che sacrificano
se stessi per assicurare il raccolto, le piogge, le stagioni e lo
scorrere del tempo, dall’altra gli umani che si salassavano per
rivitalizzare la terra, il cielo e le potenze divine. Il piano di
esistenza terreno si trovava pertanto in comunicazione con quello
celeste e con gli inferi. Ponte di congiunzione era la sacra ceiba,
che, attraversante i tre regni, veniva metaforizzata dalla piramide,
sotto la quale, tra le fondamenta, si trovava la tomba del re, e
quindi gli inferi, mentre gli scaloni simboleggiavano la terra e il
tempio il cielo. Per gli indios innalzare una piramide significava
innalzare una sacra ceiba, un luogo ove si convogliavano le energie
spirituali e si congiungevano i tre piani di esistenza. Alle
costruzioni venivano associate una particolare simbologia che
annoverava la stilizzazione del serpente, della tartaruga, del
quetzal e del giaguaro. I quattro animali ricoprono una vastità di
significati che non possono essere sintetizzati brevemente qui, ma
che verranno chiariti nel corpo della presenta tesi. Per ora diciamo
solo che essi rappresentano alcune realtà dell’universo e sono
associati alla fertilità della terra e del cielo.
Il
sacrificio, nella sua forma di salasso o di immolazione di vittime,
rappresenta l’estremo dono dell’uomo alle divinità. Il sangue,
colore della terra, ridona forza al sole, permettendo il suo
quotidiano sorgere, e a tutte le potenti divinità, associate agli
astri e ai loro movimenti. I defunti godevano di un particolare
culto: sembra che il Codice di Parigi indichi
i riti necessari affinché si abbia la reincarnazione. La quale è
fortemente connessa con la germinazione delle piante, tanto che nel
testo i due aspetti si interrelato inestricabilmente.14
In poche parole, possiamo affermare che tutta la scienza maya nasce
in funzione del sacro e della divinazione: conoscere le stagioni, gli
astri e le loro evoluzioni significava per i Maya potere dedicare i
necessari culti alle divinità che li presiedevano.
I
Maya erano ossessionati dalla possibilità che il mondo potesse
annichilirsi, improvvisamente da un ,momento all’altro. Al fine di
scongiurare tale evenienza, impiegarono la loro scienza e i dovuti
sacrifici. Essi giunsero ad una visione pessimista che vedeva l’uomo
non solo carico di responsabilità, ma costretto ad adempirle. La
loro era una religione fortemente sociale, nella quale tutti erano
chiamati a compiere i propri doveri, a meno che non si volesse fare
perire tutta l’umanità.
Il
lavoro si divide in tre parti:
- nella prima vengono date alcune informazioni storiche dei Maya. Si riportano le principali teorie spieganti il loro crollo. Vi sono due brevi paragrafi riguardanti la loro vita quotidiana e il loro sistema politico. Quindi si parla del pensiero maya e cioè due calendari meso-americani, della scrittura, della matematica, della connessione tra il computo degli anni e le piramidi e del tempio come spazio sacro. Viene prposto il caso dei Maya lacandoni. Ultimo popolo maya ad essere rimasto politeista. Infine, si danno alcuni cenni del pensiero e della generale condizione attuale degli indios.
- La seconda parte descrive la religione maya. Se ne narrano i miti, se ne enucleano le divinità più importanti, si descrive la loro idea cosmogonica e si affrontano i motivi che hanno indotto i meso-americani a considerare sacri alcuni animali quali il serpente, il quetzal, il giaguaro, il coccodrillo e la tartaruga. In evidenza sono messi anche i due testi sacri maya, cioè il Chilam Balam e il Popol Vuh. Quest’ultimo testo viene definito da alcuni studiosi come la “bibbia-maya”. Per l’importanza che riveste abbiamo riportato i brani più significativi e abbiamo provatoa prporre un’esegesi che riesca a chiarire le metafore e le simbologie ad esse connessi. Infine, verrà trattato il culto dei morti, la reincarnazione, e la visione dell’Oltremondo.
- L’ultima parte tratta del sacrifico in tutte le sue forme e il motivo che induceva gli indios a provocarsi laceranti dolori mediante salassi e sacrifici umani. Il sangue veniva ritenuto linfa vitale per gli dei e per tutto il cosmo. I Maya si sentivano in dovere di offrire questi sacrifici per nutrire gli dei, che a loro volta offrivano le proprie energie affinché la fertilità terrena e celeste non venisse meno.
Infine
abbiamo inserito un piccolo dizionario dei termini più significativi
incontrati durante la consultazione dei testi riportati in
bibliografia.
2
Ibidem.
3
Cfr. Michael D. Coe, I Maya,
Newton e Compton editori, Ariccia (Roma), Luglio 2004, 4.a. ed.,
(1.a.ed. 1998), pag 11.
4
Cfr. Herbert Wilhelmi, La civiltà dei Maya,
edizione speciale per il Corriere della Sera pubblicata su licenza
della Gius. Laterza e Figli Spa, Roma-Bari, settembre 2004, pagg.
605, 606. Titolo dell’opera originale: Welt
und Umvelt der Maya.
5
Cfr. pag. 109, Guy Annequin, La civiltà dei
Maya, Libritalia, 1996. Titolo dell’opera
originale: La civilisation des Mayas,.
6
Se ne sono salvati solo tre e in pessime condizioni.
7
Cfr. Michael D. Coe, I Maya, op. cit., pag. 25.
8
Cfr. pagg. 25, 26, David Webster, La
misteriosa fine dell’impero maya, Newnton
e Compton editori, Ariccia (Roma), Maggio 2004. Titolo
dell’opera originale: The
Fall of the Ancient Maya.
9
Herbert Wilhelmy, La civiltà dei Maya, op. cit., pagg.
522-527.
10
Cfr. Linda Schele- David Freidel, Una Foresta
di Re, Editrice Corbaccio, Gennaio 2000,
pag. 73. Titolo Originale: A forest of Kings.
11
Cfr. J. Eric - S. Thompson, La civiltà dei
maya, Einaudi tascabili. 1.a. ed. “ Saggi
” 1970, pag. 203.
12
Cfr. Eric Thompson, La civiltà dei Maya,, op. cit.,
pag. 281.
13
Ibidem, pag. 80.
14
Cfr. Paul
Arnold, Il Libro Dei Morti Maya,
Edizioni Mediterranee, Roma 1980, passim.
Titolo dell’opera originale: Le Livre Des
Morts Maya.
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