venerdì 25 maggio 2012

Pensiero, miti e culti maya. Introduzione alla cultura maya


La storia dell’uomo di otto-diecimila anni fa è avvolta nel più fitto mistero. E noi, come ciechi che cercano di immaginarsi un paesaggio, non possiamo fare altro che ipotesi e congetture su chi ci abbia preceduto, sugli uomini che vissero la terra prima di noi. Abbiamo costruito la nostra idea del passato partendo da resti di ceramica, da frecce appuntite, asce, e con questi pochi reperti archeologici, abbiamo composto rompicapi sempre più complessi che si reggono finché non viene scoperta qualche nuova tessera, che modifica profondamente, quando non annulla senza pietà, tutto ciò che abbiamo immaginato, obbligandoci così a ricominciare tutto daccapo.
Questa premessa, se è vero che è valida per tutti i popoli dell’antichità, ancora di più lo è nel caso dei Maya. Si può, pertanto, partire da congetture. Una di esse è che, ragionevolmente, l’uomo giunse nel continente americano da un altro luogo, intorno a 25.000 anni.
1 Probabilmente questa gente oltrepassò lo stretto di Bering, che separa la Siberia dall’Alaska, ma che un tempo costituiva un ponte di ghiaccio che univa il continente asiatico a quello americano. L’emigrazione degli asiatici fu guidata, molto probabilmente, dall’istinto o dalla fame o dalla ricerca di un clima migliore, e avvenne seguendo tracce di animali da preda. Secolo dopo secolo, lentamente ma incessantemente, questi nomadi popolarono tutto il continente, spingendosi anche nella parte centrale dell’America.2
Qui nasce la cultura maya, la cui raffinatezza supera di gran lunga quella dei popoli vicini, tanto che gli studiosi la considerano il parallelo della Grecia. Il substrato culturale venne offerto dagli Olmechi, popolo che rappresenta la cultura madre di tutta la meso-america, la cui eredità venne ulteriormente raffinata e portata a compimento dai Maya. Questi non possono certo dirsi un popolo scomparso: sono ancora circa 6 Milioni.3 Gran parte di essi ha resistito con notevole tenacia all’ invasione spagnola e nordamericana, sebbene negli ultimi decenni l’una e l’altra abbiano assunto forme sempre più violente e repressive.
Popolo fiero e orgoglioso della propria storia, sebbene quasi del tutto cristianizzato, conserva ancora elementi del passato. Anzi, quasi incredibilmente, i Lacandoni, particolare popolazione maya, hanno mantenuto pressoché del tutto le loro antiche tradizioni sociali e culturali.4 Questi, agli occhi degli etnologi, appaiono come dei veri e propri fossili viventi: rimasti politeisti, vivono all’interno della foresta vergine, in condizioni arcaiche.5
La scoperta dell’antica civiltà Maya è avvenuta con un processo lento e graduale, e solo nell’ultimo secolo gli studiosi hanno iniziato seriamente a studiare questa cultura. In seguito alla conquista spagnola, il primo personaggio, che si pose interrogativi sull’età delle possenti rovine che giacevano sparse qua e là, senza ricavare tuttavia molto dagli indigeni, fu il monaco francescano Diego De Landa. A lui si deve una delle opere più importanti per la comprensione della civiltà Maya post-messicana: la Relazione sullo Yucatan. Tuttavia, sempre a lui si deve la perdita di quasi tutti i codici maya,6 che fece bruciare in un momento di eccessivo zelo religioso. Proprio a causa di ciò gli studiosi non riescono a mettere bene a fuoco alcuni punti che, rimasti oscuri, ci preludono una totale comprensione del popolo meso-americano.
Per molto tempo non si è fatto nulla ai fini di conservare le possenti rovine Maya, le quali, oltre ad essere state distrutte da una vorace foresta, hanno costituito delle riserve di pietra per le costruzioni spagnole, o vecchiume da abbattere per “piantare” trivelle, finalizzate all’avida ricerca di petrolio.
Stephens e Catherwood furono i primi, dopo il monaco De Landa, a studiare seriamente i Maya e, con le loro esplorazioni, tra il 1839 e il 1842, mossero l’interesse dell’archeologia. I due diedero alla stampa il lavoro intitolato Incidents of Travel in Yucatan, libro tutt’ora ristampato.7 Vari studiosi cercarono di capire chi potesse avere costruito le splendide piramidi facendo le supposizioni più svariate: si arrivò ad affermare che i Maya fossero in verità, Egiziani che si spostarono in America centrale e che qui fondarono un’altra cultura, o che fossero ebrei dispersi dopo la diaspora. Altri vedevano la prova del fatto che un tempo la mitica Atlantide fosse realmente esistita e che gli atlantidei, in seguito alla scomparsa del loro continente a causa di un cataclisma, avessero fondato una nuova cultura nelle terre americane. A favore di queste supposizioni, per gli studiosi, era il fatto che gli indios di quelle terre, al tempo dell’arrivo iberico, non sapevano chi avesse costruito le piramidi, le steli e non sapevano tradurre i centinaia di glifi scolpiti sulle pareti di palazzi, di templi, di piramidi, di scalinate e di steli.8 Con il ritrovamento della cosiddetta lastra di Pacal, taluni sedicenti studiosi come Daniken, arrivarono a vedere nel fatto che i Maya avessero potuto costruire quelle grandiosità, l’aiuto di entità civilizzatrici extraterrestri.9 Daniken porta a prova di ciò argomentazioni che non fanno altro che testimoniare una nuova forma di razzismo verso queste genti.
I Maya, in verità, hanno creato una civiltà in larga parte autonoma, con un’impronta specifica, nata nelle foreste tropicali e, da essa, infine inghiottita.
Il lavoro da essi svolto nella costruzione di immensi edifici risulta poco comprensibile per persone che, come noi, sono state educate a vivere nelle comodità, per cui questi sforzi ci appaiono ancora più enormi se pensiamo che i meso-americani non possevano animali da traino, non usavano la ruota e trasportavano tutto grazie solo alla forza delle braccia. Il motivo di tutti questi loro sforzi si chiarisce se, avvicinandoci a questa civiltà, tentiamo, con tutti i connessi limiti, di comprenderne la cultura, le tradizioni, il modo di vedere e vivere la realtà. I Maya furono un popolo dal grande spirito religioso, e impiegarono molte delle proprie energie al fine di permettere alle divinità di mantenere le necessarie forze per il perpetuamento del cosmo. Le piramidi, con alla sommità un tempio, sono agli occhi dei Maya, oltre che luoghi sacri delle vere e proprie montagne artificiali ove, mediante riti particolari, la divinità scende ed entra in comunicazione con il sacerdote, il quale, oltre a sacrificare vittime e sangue per nutrirla, può avanzare richieste inerenti, per esempio, all’auspicio di un buon raccolto, di abbondanti piogge e di eventi favorevoli nel futuro.10
Tutta la scienza e il pensiero maya (matematica, scrittura, calendario, astronomia) va spiegata in senso mistico-religioso. L’astronomia, per esempio, non nasceva al fine di conoscere le stelle e le loro traiettorie, bensì nell’intento di potere conoscere e predire il futuro; come, in varie forme, in tutte le civiltà antiche di tutto il mondo. In altre parole l’astronomia maya nasceva per soli scopi astrologici.11 Allo stesso modo, il calendario annotava le varie divinità che presiedevano alle stagioni, sì che il popolo potesse assicurargli i giusti riti per nutrirli. La matematica era solo un mezzo per misurare il tempo, la cui sacralità verrà spiegata nella prima parte di questo lavoro. Per ora ci limitiamo a dire che il loro sistema computazionale era a base vigesimale, perché il venti rappresentava la sintesi dell’uomo, in quanto tale numero era la somma delle dita dei piedi e delle mani. Già in questo concetto si esplica il ruolo fondamentale dell’uomo per la sopravvivenza del cosmo. Era l’indios che, con i suoi molteplici riti, garantiva la vita degli dei, la rinascita ciclica della natura, il sorgere del sole ogni mattina, la reincarnazione dei defunti e che scongiurava la fine della quarta era dell’umanità, ossia la presente. La scrittura serviva a registrare la storia che, al contrario di noi europei, non veniva vista come un qualcosa di scisso dal sacro. Per i Maya la loro storia era sacra e la scrittura in ogni sua forma era una preghiera agli dei. A prova della sacralità della scrittura riportiamo le affermazioni di alcuni studiosi, la cui fama di alcuni di essi è unanimamente riconosciuta.
La scrittura nasce dalla gestualità delle mani ed è una sua codificazione fissa e stilizzata. Molti glifi raffigurano una mano aperta o chiusa e, nelle rappresentazioni architettoniche e pittoriche, le mani sono sempre messe in evidenza mentre compiono gesti particolari. Ogni gesto ha un significato ben preciso, che Martin Brennan riesce a comprendere studiando il linguaggio dei gesti degli indiani d’America, i quali, a loro volta, lo hanno ereditato dai popoli situati nella parte centrale d’America. La mano, per i Maya, possiede un forte senso mistico, è il punto in cui si concentrano le energie spirituali dell’individuo ed ha un significato religioso simile alla nostra croce cristiana o alla stella di Davide per gli Ebrei.
La società maya, come tutte le culture non industriali, basava il suo sostentamento sull’agricoltura. Se le piogge erano troppo abbondanti o, viceversa, troppo magre, il raccolto andava distrutto e, alla stessa maniera, se il sole riscaldava più del necessario il raccolto si bruciava o, viceversa, non maturava. La pianta nutritiva per eccellenza era il mais, il quale ancora oggi è per i Maya un alimento essenziale nella loro dieta quotidiana. Essi ne mangiavano a colazione, a pranzo e a cena: se il raccolto andava perduto, era carestia. L’importanza delle divinità connesse alla fertilità della terra è testimoniata dal fatto che tutt’ora i Maya, sebbene cristianizzati, adorano i Chaci, le divinità della pioggia, mentre si è persa la memoria di altri esseri supremi come Itzamna, il cui culto era di rilevante importanza nel periodo classico.12 Gli sforzi affrontati da questa civiltà meso-americana furono veramente enormi e le fatiche incommensurabili. Ciò ha fatto sì che gli indios non lasciassero nulla al caso: tutto doveva essere predetto, le divinità abbisognavano di nutrimento e l’uomo non doveva mancare ai propri doveri verso il cosmo. La costruzione di enormi piramidi, realizzate con una tecnologia pari a quella del neolitico, rifletteva la speranza di ricevere la benevolenza degli dei, ai quali vennero consacrate immense strade, il cui solo fine era quello cerimoniale,13 dato che non potevano servire come vie di comunicazione per la mancanza di animali da soma.
La terra, vista come un essere vivente, doveva essere rispettata e nulla bisognava sottrarle oltre il necessario. L’uccisione di un animale richiedeva particolari sacrifici per ridare le energie tolte al cosmo, tra cui l’offerta del proprio sangue. Il sangue rappresentava il mezzo reale di sostentamento dell’universo, e i salassi erano delle dolorose pene che gli uomini e le donne si infliggevano per scongiurare la sterilità della terra. Il Maya non solo non prendeva più del necessario, ma sentendosi in dovere di ridare forza al cosmo, rivestiva un ruolo centrale per il suo nutrimento.
Le divinità impiegavano parte delle loro energie per nutrire gli uomini, sicchè essi dovevano risarcirli. La vita si basava su questo delicato equilibrio: da una parte gli esseri supremi che sacrificano se stessi per assicurare il raccolto, le piogge, le stagioni e lo scorrere del tempo, dall’altra gli umani che si salassavano per rivitalizzare la terra, il cielo e le potenze divine. Il piano di esistenza terreno si trovava pertanto in comunicazione con quello celeste e con gli inferi. Ponte di congiunzione era la sacra ceiba, che, attraversante i tre regni, veniva metaforizzata dalla piramide, sotto la quale, tra le fondamenta, si trovava la tomba del re, e quindi gli inferi, mentre gli scaloni simboleggiavano la terra e il tempio il cielo. Per gli indios innalzare una piramide significava innalzare una sacra ceiba, un luogo ove si convogliavano le energie spirituali e si congiungevano i tre piani di esistenza. Alle costruzioni venivano associate una particolare simbologia che annoverava la stilizzazione del serpente, della tartaruga, del quetzal e del giaguaro. I quattro animali ricoprono una vastità di significati che non possono essere sintetizzati brevemente qui, ma che verranno chiariti nel corpo della presenta tesi. Per ora diciamo solo che essi rappresentano alcune realtà dell’universo e sono associati alla fertilità della terra e del cielo.
Il sacrificio, nella sua forma di salasso o di immolazione di vittime, rappresenta l’estremo dono dell’uomo alle divinità. Il sangue, colore della terra, ridona forza al sole, permettendo il suo quotidiano sorgere, e a tutte le potenti divinità, associate agli astri e ai loro movimenti. I defunti godevano di un particolare culto: sembra che il Codice di Parigi indichi i riti necessari affinché si abbia la reincarnazione. La quale è fortemente connessa con la germinazione delle piante, tanto che nel testo i due aspetti si interrelato inestricabilmente.14 In poche parole, possiamo affermare che tutta la scienza maya nasce in funzione del sacro e della divinazione: conoscere le stagioni, gli astri e le loro evoluzioni significava per i Maya potere dedicare i necessari culti alle divinità che li presiedevano.
I Maya erano ossessionati dalla possibilità che il mondo potesse annichilirsi, improvvisamente da un ,momento all’altro. Al fine di scongiurare tale evenienza, impiegarono la loro scienza e i dovuti sacrifici. Essi giunsero ad una visione pessimista che vedeva l’uomo non solo carico di responsabilità, ma costretto ad adempirle. La loro era una religione fortemente sociale, nella quale tutti erano chiamati a compiere i propri doveri, a meno che non si volesse fare perire tutta l’umanità.
Il lavoro si divide in tre parti:
  1. nella prima vengono date alcune informazioni storiche dei Maya. Si riportano le principali teorie spieganti il loro crollo. Vi sono due brevi paragrafi riguardanti la loro vita quotidiana e il loro sistema politico. Quindi si parla del pensiero maya e cioè due calendari meso-americani, della scrittura, della matematica, della connessione tra il computo degli anni e le piramidi e del tempio come spazio sacro. Viene prposto il caso dei Maya lacandoni. Ultimo popolo maya ad essere rimasto politeista. Infine, si danno alcuni cenni del pensiero e della generale condizione attuale degli indios.
  2. La seconda parte descrive la religione maya. Se ne narrano i miti, se ne enucleano le divinità più importanti, si descrive la loro idea cosmogonica e si affrontano i motivi che hanno indotto i meso-americani a considerare sacri alcuni animali quali il serpente, il quetzal, il giaguaro, il coccodrillo e la tartaruga. In evidenza sono messi anche i due testi sacri maya, cioè il Chilam Balam e il Popol Vuh. Quest’ultimo testo viene definito da alcuni studiosi come la “bibbia-maya”. Per l’importanza che riveste abbiamo riportato i brani più significativi e abbiamo provatoa prporre un’esegesi che riesca a chiarire le metafore e le simbologie ad esse connessi. Infine, verrà trattato il culto dei morti, la reincarnazione, e la visione dell’Oltremondo.
  3. L’ultima parte tratta del sacrifico in tutte le sue forme e il motivo che induceva gli indios a provocarsi laceranti dolori mediante salassi e sacrifici umani. Il sangue veniva ritenuto linfa vitale per gli dei e per tutto il cosmo. I Maya si sentivano in dovere di offrire questi sacrifici per nutrire gli dei, che a loro volta offrivano le proprie energie affinché la fertilità terrena e celeste non venisse meno.
Infine abbiamo inserito un piccolo dizionario dei termini più significativi incontrati durante la consultazione dei testi riportati in bibliografia.
11 Cfr. F. Jemenez del Olso, Il dio Jaguaro, Hobby e Work Italiana Editrice, Milano 1995, pag. 9.

2 Ibidem.
3 Cfr. Michael D. Coe, I Maya, Newton e Compton editori, Ariccia (Roma), Luglio 2004, 4.a. ed., (1.a.ed. 1998), pag 11.
4 Cfr. Herbert Wilhelmi, La civiltà dei Maya, edizione speciale per il Corriere della Sera pubblicata su licenza della Gius. Laterza e Figli Spa, Roma-Bari, settembre 2004, pagg. 605, 606. Titolo dell’opera originale: Welt und Umvelt der Maya.
5 Cfr. pag. 109, Guy Annequin, La civiltà dei Maya, Libritalia, 1996. Titolo dell’opera originale: La civilisation des Mayas,.
6 Se ne sono salvati solo tre e in pessime condizioni.
7 Cfr. Michael D. Coe, I Maya, op. cit., pag. 25.
8 Cfr. pagg. 25, 26, David Webster, La misteriosa fine dell’impero maya, Newnton e Compton editori, Ariccia (Roma), Maggio 2004. Titolo dell’opera originale: The Fall of the Ancient Maya.
9 Herbert Wilhelmy, La civiltà dei Maya, op. cit., pagg. 522-527.
10 Cfr. Linda Schele- David Freidel, Una Foresta di Re, Editrice Corbaccio, Gennaio 2000, pag. 73. Titolo Originale: A forest of Kings.
11 Cfr. J. Eric - S. Thompson, La civiltà dei maya, Einaudi tascabili. 1.a. ed. “ Saggi ” 1970, pag. 203.
12 Cfr. Eric Thompson, La civiltà dei Maya,, op. cit., pag. 281.
13 Ibidem, pag. 80.
14 Cfr. Paul Arnold, Il Libro Dei Morti Maya, Edizioni Mediterranee, Roma 1980, passim. Titolo dell’opera originale: Le Livre Des Morts Maya.

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