Tutti
i mayanisti concordano sul fatto che il quadro politico classico sia
stato sempre frammentato dal punto di vista sociale, e che i regni
fossero fondamentalmente centri indipendenti governati da una
determinata stirpe di cosiddetti “signori–sacri”.
Tali centri costituivano le unità politiche fondamentali del periodo
classico, e vengono spesso chiamati dagli studiosi “città
- stato”. Non si possono fare stime di
quanto grandi e popolosi fossero stati questi governi (se non in
maniera esclusivamente ipotetica) perché nessun governante maya
documentò mai l’ampiezza dei suoi territori, il numero dei propri
sudditi e la dislocazione dei confini del proprio regno. Eric
Thompson sostiene che “Tutte le città maya hanno alcuni tratti
comuni; e il tratto più importante è costituito dalla corte delle
cerimonie compresa fra le terrazze, piattaforme, piramidi e templi, e
spesso costellate di stele”.1
I Maya, come è noto, non avevano mezzi di trasporto dotati di ruote
né bestie da soma, eppure alcune città erano collegate con ampie
strade, larghe fino a 10 metri e rialzate fino a 2,5 metri, che non
potevano quindi avere un fine economico: quasi certamente il loro
utilizzo era cerimoniale, costruite per le lunghe processioni. Al
vertice del governo delle città – Maya
si avevano i sovrani, gli Ajaw,
termine di solito tradotto come signore,
ma che letteralmente significa “colui che
proclama, o grida”.
Essi, considerati re sacri, venivano assunti a dèi quando morivano.
Il regnante, personaggio immensamente autorevole, veniva chiamato
anche Halac Uinic
‘vero uomo’,
al suo fianco vi era un sommo sacerdote che prendeva il nome di Ah
Kin Mai, capo
religioso di tutta la provincia, sebbene anche il sovrano fosse capo
religioso.2
Sotto l’HalachUinic
si avevano i batab,
amministratori locali, che, scelti da lui stesso, costituivano il
consiglio. L’Halach uinic
e i batab erano
mantenuti dalle tasse pagate dai loro sudditi e dai prodotti che la
terra forniva nella loro amministrazione. Molte dinastie facevano
risalire le proprie origini a sovrani mitici vissuti migliaia di anni
prima, o a divinità che in qualche modo erano loro progenitori.
Quando salivano al trono aggiungevano all’appellativo Ajaw
il termine K’ uhul
(“sacro signore”),
le donne di sangue reale invece si fregiavano dell’ appellativo di
K’ uhul ixik
(“donna sacra”).
Ritenuti dal popolo in stretta relazione con il sole e con tutti gli
altri dei, li si riteneva responsabili del destino e del benessere
del proprio regno, che dovevano salvaguardare mediante il loro
comportamento e l’attività cultuale e rituale (in
special modo sacrifici). Il governo era quindi fortemente teocratico,
in mano ad un solo uomo: il re, concepito come essere etereo,
floreale, profumato, in grado di potere influenzare in maniera forte
gli eventi tramite la sua essenza morale e il suo contegno personale.
La successione del potere avveniva preferibilmente di padre in
figlio, senza però alcuna primogenitura. Come chiarisce David
Webster “pare che i governanti di Piedras
Negras avessero inizialmente tramandato la
carica di padre in figlio e poi, per ragioni ignote, fossero passati
negli ultimi regni alla successione fraterna”.3
I sovrani miravano a realizzare matrimoni con spose prestigiose, con
donne di sangue regale, e non mancarono gli intrecci matrimoniali che
rispondevano al desiderio di allearsi con altre famiglie reali e di
sedare vecchi odi e antagonismi. Oltre ai sovrani si avevano anche
altri individui illustri a loro strettamente legati. I nobili, oltre
ad accompagnare i governanti in battaglia, avevano un ruolo
fondamentale nell’esito delle guerre. Abbigliati con magnifici
costumi e con bizzarri copricapi compaiono nei reperti archeologici
nelle sale del palazzo, dove sono impegnati in cerimonie e feste, in
offerte di tributi e accettazione di doni. Come i sovrani
partecipavano ai riti, praticavano i sacrifici e nelle danze
impersonificavano le divinità, alcuni di loro giocavano a palla, ed
è anche possibile che avessero propri campi. I nobili più
importanti vivevano in sontuose case ed edifici che spesso avevano
facciate decorate con raffinate sculture. Anch’essi si fregiavano
del titolo di Ajaw ma
senza gli altri appellativi, e pare che, solo i parenti diretti di
sesso maschile e femminile dei governanti venissero chiamati Ajaw.
I nobili ricoprivano il mestiere di scriba, anche perché gli
agricoltori rimanevano analfabeti, e forse di scultori (lavoro
questo di non poca importanza visto il valore sacro delle stele, ma,
come afferma Thompson, anche di notevole rischio: un errore
nell’esecuzione del prodotto poteva infatti comportare la morte
mediante sacrificio dell’artista4).
L’aristocrazia, quindi, era vicina politicamente al sovrano, oltre
che officiante di riti, partecipava alla vita di corte ed era
protagonista nelle attività belliche.
I
nobili costituivano anche la classe sacerdotale. Il più importante
era l’Ah
Kin Mai o
AHau Kan Mai,
che aveva compiti amministrativi, come per esempio esaminare i preti
e assegnarli alle località che ne bisognavano. Inoltre insegnavano
la scrittura geroglifica, le genealogie, i riti per curare le
malattie, l’uso del calendario, l’astronomia, la divinazione e il
cerimoniale. Officiavano solo nei riti più importanti, ove
partecipava tutta la comunità, davano consigli al sovrano
informandolo sui giorni favorevoli per le campagne belliche.5
Secondo De Landa la carica di sacerdote succedeva di padre in
figlio.6
I Chilam erano invece
i profeti e gli indovini. Questi venivano rappresentati sempre con
una bocca smisurata, sbadigliante, dalla forma quasi quadrata, poiché
si tratta della bocca degli dei di cui riferisce le parole. Il Chilam
operava fuori dalla vista dei fedeli, all’interno delle mura del
tempietto, in cima alla piramide, ove in estasi e sdraiato per terra,
dava gli oracoli. Nel Codice di Dresda, afferma lo studioso Paul
arnold, al Chilam viene data la prerogativa di chiaroveggenza. Egli
è, in altri termini, colui che entra in rapporto mentale con i
defunti. Il Chilam poteva trasmettere direttamente il suo pensiero
alla psiche del defunto, e riceverne il messaggio. Il suo ruolo è la
comunicazione con le anime di Xibalba, dell’infraregno. Nella
cultura maya è colui che riesce ad instaurare un contatto personale
diretto con una mente determinata. A volte, nei codici pre-ispanici,
il Chilam viene rappresentato con un orecchio sproporzionato o
rovesciato. In tal modo lo scriba ha sottolineato il suo dono della
preveggenza o della facoltà di udire le voci celesti. Il Chilam
diveniva, pertanto, un costante tramite tra questo e l’altro regno.
Non sappiamo come il Chilam acquisisse tali funzioni. Esse non erano
comunque ereditarie. Dipendevano da un dono naturale che ne facevano
di lui un prediletto agli occhi di tutto quanto il popolo. Il Chilam
veniva incensato come un dio.7
Ciò viene scritto anche dal monaco De Landa nella sua Relacion.8
Paul Arnold afferma che il loro comportamento si distingueva per
esemplarità ascetica, per devozione alle divinità e per saggezza.
Strappare
il cuore della vittima sacrificale era invece compito di un gruppo
speciale di preti detti Nacom.
Questi, secondo il monaco De Landa, “potevano svolgere due compiti.
Di cui uno era a vita, poco onorevole, e consisteva nell’aprire il
petto alle persone sacrificate. Nel secondo caso si trattava della
scelta di un condottiero per la guerra e per altre occasioni; questi
rimaneva in carica per tre anni ed era ritenuto un compito molto
onorevole”.9
De Landa sostiene la disistima verso il primo tipo di nacom, ciò
potrebbe dimostrare che i sacrifici umani importati dai toltechi non
raccoglievano l’approvazione di tutto il popolo maya.
Il
secondo tipo di nacom era invece un generale militare ben visto dal
popolo. Penso perché la guerra era ritenuta dai mesoamericani un
momento di grande sacralità, in quanto permetteva di potere
catturare le vittime da sacrificare agli dei, al fine di nutrirli.
A
sostenere tutta la vita economica erano gli agricoltori, che vivevano
in capanne al di fuori delle città. Si pensa che questi
costituissero il grosso del popolo, forse una percentuale del 70–80%
circa. Essi coltivavano terreni di non grande fertilità, talchè
dopo due/tre anni, per il forte impoverimento di sostanze nutritive
dell’humus, erano
costretti a lasciare l’appezzamento di terra sfruttato.
Le
loro tecnologie erano molto semplici: non conoscevano l’aratro,
che, del resto, sarebbe risultato assai scarsamente proficuo, visto
il troppo poco spesso strato di humus,
infine, i Maya non avevano animali da soma. Appena vestiti con un
perizoma, i contadini zappavano la terra con la coa,
un utensile simile ad un bastone adatto a scavare, oppure armati
delle loro asce di pietra o di legno. In questi campi, oltre al mais
(che costituiva il 90% della loro dieta quotidiana, così importante
da essere stato deificato e da assumere un forte significato sacro e
religioso tanto che ancora oggi i Maya prima di coltivarlo fanno un
periodo di digiuno e astinenza e di preghiera) i contadini
coltivavano anche tuberi commestibili, manioca, patate, amaranta,
zucche, fagioli, peperoni, pomodoro, caucciù, cotone e una grande
quantità di erbe medicinali.
Moneta
di scambio era il cacao, ed è certo che un tempo il commercio doveva
essere molto fiorente. Si commerciavano le ceramiche come idoli,
bruciatori di incenso, bracieri, tubi di fognature, tamburi, flauti,
fischietti, tappi da orecchi, perle, sigilli, stampi, tegami, pentole
e vasi di ogni tipo ma non erano rari nemmeno i tessuti di cotone,
pregiate penne di quetzal utilizzate nei copricapi, manti di pelle,
zucche laccate, oggetti di cuoio e di vimini, seggiole, vari oggetti
del corredo domestico e personale oltre che giada proveniente
soprattutto dalle miniere dell’altopiano (ma spesso lavorata in
pianura). Al di sotto del popolo c’era una casta di schiavi, i
pentacoop, ingrossata
da prigionieri militari e da prigionieri comuni. Si sa comunque molto
poco di questa classe sociale.
6
Cfr. Diego De Landa, op. cit., pag. 50.
7
Cfr. Paul Arnold, Il Libro Dei Morti Maya, Edizioni
Mediterranee, Roma 1980, passim. Titolo originale: Le
Livre Des Morts Maya.
8
Cfr. Diego De Landa, op. cit., passim.
9
Ibidem, pag. 130.
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