venerdì 25 maggio 2012

Società ed economia maya


Tutti i mayanisti concordano sul fatto che il quadro politico classico sia stato sempre frammentato dal punto di vista sociale, e che i regni fossero fondamentalmente centri indipendenti governati da una determinata stirpe di cosiddetti “signori–sacri”. Tali centri costituivano le unità politiche fondamentali del periodo classico, e vengono spesso chiamati dagli studiosi “città - stato”. Non si possono fare stime di quanto grandi e popolosi fossero stati questi governi (se non in maniera esclusivamente ipotetica) perché nessun governante maya documentò mai l’ampiezza dei suoi territori, il numero dei propri sudditi e la dislocazione dei confini del proprio regno. Eric Thompson sostiene che “Tutte le città maya hanno alcuni tratti comuni; e il tratto più importante è costituito dalla corte delle cerimonie compresa fra le terrazze, piattaforme, piramidi e templi, e spesso costellate di stele”.1 I Maya, come è noto, non avevano mezzi di trasporto dotati di ruote né bestie da soma, eppure alcune città erano collegate con ampie strade, larghe fino a 10 metri e rialzate fino a 2,5 metri, che non potevano quindi avere un fine economico: quasi certamente il loro utilizzo era cerimoniale, costruite per le lunghe processioni. Al vertice del governo delle città – Maya si avevano i sovrani, gli Ajaw, termine di solito tradotto come signore, ma che letteralmente significa “colui che proclama, o grida. Essi, considerati re sacri, venivano assunti a dèi quando morivano. Il regnante, personaggio immensamente autorevole, veniva chiamato anche Halac Uinic ‘vero uomo’, al suo fianco vi era un sommo sacerdote che prendeva il nome di Ah Kin Mai, capo religioso di tutta la provincia, sebbene anche il sovrano fosse capo religioso.2 Sotto l’HalachUinic si avevano i batab, amministratori locali, che, scelti da lui stesso, costituivano il consiglio. L’Halach uinic e i batab erano mantenuti dalle tasse pagate dai loro sudditi e dai prodotti che la terra forniva nella loro amministrazione. Molte dinastie facevano risalire le proprie origini a sovrani mitici vissuti migliaia di anni prima, o a divinità che in qualche modo erano loro progenitori. Quando salivano al trono aggiungevano all’appellativo Ajaw il termine K’ uhul (“sacro signore”), le donne di sangue reale invece si fregiavano dell’ appellativo di K’ uhul ixik (“donna sacra”). Ritenuti dal popolo in stretta relazione con il sole e con tutti gli altri dei, li si riteneva responsabili del destino e del benessere del proprio regno, che dovevano salvaguardare mediante il loro comportamento e l’attività cultuale e rituale (in special modo sacrifici). Il governo era quindi fortemente teocratico, in mano ad un solo uomo: il re, concepito come essere etereo, floreale, profumato, in grado di potere influenzare in maniera forte gli eventi tramite la sua essenza morale e il suo contegno personale. La successione del potere avveniva preferibilmente di padre in figlio, senza però alcuna primogenitura. Come chiarisce David Webster “pare che i governanti di Piedras Negras avessero inizialmente tramandato la carica di padre in figlio e poi, per ragioni ignote, fossero passati negli ultimi regni alla successione fraterna”.3 I sovrani miravano a realizzare matrimoni con spose prestigiose, con donne di sangue regale, e non mancarono gli intrecci matrimoniali che rispondevano al desiderio di allearsi con altre famiglie reali e di sedare vecchi odi e antagonismi. Oltre ai sovrani si avevano anche altri individui illustri a loro strettamente legati. I nobili, oltre ad accompagnare i governanti in battaglia, avevano un ruolo fondamentale nell’esito delle guerre. Abbigliati con magnifici costumi e con bizzarri copricapi compaiono nei reperti archeologici nelle sale del palazzo, dove sono impegnati in cerimonie e feste, in offerte di tributi e accettazione di doni. Come i sovrani partecipavano ai riti, praticavano i sacrifici e nelle danze impersonificavano le divinità, alcuni di loro giocavano a palla, ed è anche possibile che avessero propri campi. I nobili più importanti vivevano in sontuose case ed edifici che spesso avevano facciate decorate con raffinate sculture. Anch’essi si fregiavano del titolo di Ajaw ma senza gli altri appellativi, e pare che, solo i parenti diretti di sesso maschile e femminile dei governanti venissero chiamati Ajaw. I nobili ricoprivano il mestiere di scriba, anche perché gli agricoltori rimanevano analfabeti, e forse di scultori (lavoro questo di non poca importanza visto il valore sacro delle stele, ma, come afferma Thompson, anche di notevole rischio: un errore nell’esecuzione del prodotto poteva infatti comportare la morte mediante sacrificio dell’artista4). L’aristocrazia, quindi, era vicina politicamente al sovrano, oltre che officiante di riti, partecipava alla vita di corte ed era protagonista nelle attività belliche.
I nobili costituivano anche la classe sacerdotale. Il più importante era l’Ah Kin Mai o AHau Kan Mai, che aveva compiti amministrativi, come per esempio esaminare i preti e assegnarli alle località che ne bisognavano. Inoltre insegnavano la scrittura geroglifica, le genealogie, i riti per curare le malattie, l’uso del calendario, l’astronomia, la divinazione e il cerimoniale. Officiavano solo nei riti più importanti, ove partecipava tutta la comunità, davano consigli al sovrano informandolo sui giorni favorevoli per le campagne belliche.5 Secondo De Landa la carica di sacerdote succedeva di padre in figlio.6 I Chilam erano invece i profeti e gli indovini. Questi venivano rappresentati sempre con una bocca smisurata, sbadigliante, dalla forma quasi quadrata, poiché si tratta della bocca degli dei di cui riferisce le parole. Il Chilam operava fuori dalla vista dei fedeli, all’interno delle mura del tempietto, in cima alla piramide, ove in estasi e sdraiato per terra, dava gli oracoli. Nel Codice di Dresda, afferma lo studioso Paul arnold, al Chilam viene data la prerogativa di chiaroveggenza. Egli è, in altri termini, colui che entra in rapporto mentale con i defunti. Il Chilam poteva trasmettere direttamente il suo pensiero alla psiche del defunto, e riceverne il messaggio. Il suo ruolo è la comunicazione con le anime di Xibalba, dell’infraregno. Nella cultura maya è colui che riesce ad instaurare un contatto personale diretto con una mente determinata. A volte, nei codici pre-ispanici, il Chilam viene rappresentato con un orecchio sproporzionato o rovesciato. In tal modo lo scriba ha sottolineato il suo dono della preveggenza o della facoltà di udire le voci celesti. Il Chilam diveniva, pertanto, un costante tramite tra questo e l’altro regno. Non sappiamo come il Chilam acquisisse tali funzioni. Esse non erano comunque ereditarie. Dipendevano da un dono naturale che ne facevano di lui un prediletto agli occhi di tutto quanto il popolo. Il Chilam veniva incensato come un dio.7 Ciò viene scritto anche dal monaco De Landa nella sua Relacion.8 Paul Arnold afferma che il loro comportamento si distingueva per esemplarità ascetica, per devozione alle divinità e per saggezza.
Strappare il cuore della vittima sacrificale era invece compito di un gruppo speciale di preti detti Nacom. Questi, secondo il monaco De Landa, “potevano svolgere due compiti. Di cui uno era a vita, poco onorevole, e consisteva nell’aprire il petto alle persone sacrificate. Nel secondo caso si trattava della scelta di un condottiero per la guerra e per altre occasioni; questi rimaneva in carica per tre anni ed era ritenuto un compito molto onorevole”.9 De Landa sostiene la disistima verso il primo tipo di nacom, ciò potrebbe dimostrare che i sacrifici umani importati dai toltechi non raccoglievano l’approvazione di tutto il popolo maya.
Il secondo tipo di nacom era invece un generale militare ben visto dal popolo. Penso perché la guerra era ritenuta dai mesoamericani un momento di grande sacralità, in quanto permetteva di potere catturare le vittime da sacrificare agli dei, al fine di nutrirli.
A sostenere tutta la vita economica erano gli agricoltori, che vivevano in capanne al di fuori delle città. Si pensa che questi costituissero il grosso del popolo, forse una percentuale del 70–80% circa. Essi coltivavano terreni di non grande fertilità, talchè dopo due/tre anni, per il forte impoverimento di sostanze nutritive dell’humus, erano costretti a lasciare l’appezzamento di terra sfruttato.
Le loro tecnologie erano molto semplici: non conoscevano l’aratro, che, del resto, sarebbe risultato assai scarsamente proficuo, visto il troppo poco spesso strato di humus, infine, i Maya non avevano animali da soma. Appena vestiti con un perizoma, i contadini zappavano la terra con la coa, un utensile simile ad un bastone adatto a scavare, oppure armati delle loro asce di pietra o di legno. In questi campi, oltre al mais (che costituiva il 90% della loro dieta quotidiana, così importante da essere stato deificato e da assumere un forte significato sacro e religioso tanto che ancora oggi i Maya prima di coltivarlo fanno un periodo di digiuno e astinenza e di preghiera) i contadini coltivavano anche tuberi commestibili, manioca, patate, amaranta, zucche, fagioli, peperoni, pomodoro, caucciù, cotone e una grande quantità di erbe medicinali.
Moneta di scambio era il cacao, ed è certo che un tempo il commercio doveva essere molto fiorente. Si commerciavano le ceramiche come idoli, bruciatori di incenso, bracieri, tubi di fognature, tamburi, flauti, fischietti, tappi da orecchi, perle, sigilli, stampi, tegami, pentole e vasi di ogni tipo ma non erano rari nemmeno i tessuti di cotone, pregiate penne di quetzal utilizzate nei copricapi, manti di pelle, zucche laccate, oggetti di cuoio e di vimini, seggiole, vari oggetti del corredo domestico e personale oltre che giada proveniente soprattutto dalle miniere dell’altopiano (ma spesso lavorata in pianura). Al di sotto del popolo c’era una casta di schiavi, i pentacoop, ingrossata da prigionieri militari e da prigionieri comuni. Si sa comunque molto poco di questa classe sociale.
1 Eric Thompson, op. cit., pag. 75.
2 Cfr. David Webster, op. cit., pagg. 130-134.
3 David Webster, op. cit., pag. 126.
4 Cfr. Eric Thompson, op. cit., pagg, 307, 308.
5 Cfr. David Webster, op. cit., pagg. 130-134.
6 Cfr. Diego De Landa, op. cit., pag. 50.
7 Cfr. Paul Arnold, Il Libro Dei Morti Maya, Edizioni Mediterranee, Roma 1980, passim. Titolo originale: Le Livre Des Morts Maya.
8 Cfr. Diego De Landa, op. cit., passim.
9 Ibidem, pag. 130.

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