venerdì 25 maggio 2012

Il valore spirituale della scrittura maya


Martin Brennan, una vera autorità nell’interpretazione della scrittura maya, afferma:

“per lungo tempo gli studi tradizionali hanno insistito sul fatto che tra Sud–Ovest e la Mesoamerica non vi fossero altro che rapporti puramente occasionali, ma la trasmissione di un linguaggio dei segni rappresenta un significativo scambio culturale che suggerisce invece un contatto sistematico. Infatti altre informazioni scovate da moderni studi scientifici e archeologici dimostrano che si fosse in realtà sviluppato un formale sistema commerciale altamente strutturato1[…] Questi sviluppi aprirono una nuova via di accesso celata: se il linguaggio dei segni degli indiani delle praterie, che è noto, ben documentato e d’uso corrente, ha avuto origine in Messico, come affermano le tradizioni indiane, allora potrebbe essere possibile usare questo linguaggio per penetrare nel significato degli sconosciuti segni manuali degli antichi Maya”. 2

Brennan sostiene la provenienza della scrittura dalla gestualità manuale precisando che “era la prima volta che si sfruttava la conoscenza del linguaggio dei segni per risolvere problemi di archeologia e d’epigrafia”.3
Bisogna tenere presente che è proprio nella Mesoamerica che il culto della mano si impone come simbolo dominante del rituale religioso.
In queste culture la mano rappresenta l’equivalente della croce per il cristianesimo o della stella di Davide per il giudaismo. E’ un motivo importante negli oggetti di culto rituali, come ad esempio nel bastone cerimoniale, visto nel dettaglio tratto dal codice di Dresda4.
Per i Maya lo scrivere stesso era un atto religioso, l’atto di scrivere è considerato di per sé magico costituendo una preghiera.
La scrittura è quindi ricollegabile al valore spirituale attribuito dai mesoamericani alla mano, e, quindi, derivante dalle sue forme di gesticolazione. Si deve tenere presente anche che nell’arte maya le mani sono sempre messe in evidenza poiché ricoprono un ruolo essenziale nei riti; alcune volte vengono così valorizzate che appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo, venendo rappresentate anche in dimensioni doppie rispetto alla loro normale misura.
La stessa rappresentazione dei numeri mediante punti e linee riconduce alla gestualità (e non potrebbe essere altrimenti, dato il valore sacro attribuito anche alla matematica): “nei glifi numerici i simboli del puntino sono astrazioni che si evolvono naturalmente dalle punte delle dita usate per calcolare”.5 Il numero cinque, rappresentato con una linea, è, per esempio, da ricondurre alla stilizzazione di un pugno chiuso con il pollice in fuori.
L’interpretazione della scrittura maya, basata su complesse figure chiamate dagli studiosi glifi, è tutt’ora parziale e controversa.
Lo studio di
Martin Brennan ha permesso di capire che alla base della scrittura maya ci sono i gesti manuali che le figure descrivono. In tal modo, egli ha potuto fornire una nuova chiave per comprendere lo spirito di questo antico popolo. Il clero aveva il compito di occuparsi di tutte le attività intellettuali, spirituali, culturali, sempre rivolte a una finalità religiosa: non scontentare gli dei e cercare di capire le loro intenzioni”. Essenzialmente d’accordo con Martin Brennan, lo studioso Pietro Bandini ipotizza che i segni usati nell’indicare i numeri non sono altro che “[…]le impronte delle punte delle dita e quelle della mano messa di taglio sulla sabbia o sulla polvere[…]”6 Lo studioso dell’arte Pierre Becquelin scrive che “si osserva nelle mani [nelle rappresentazioni artistiche] una grande varietà di gesti che deve essere dettata da un codice ben stabilito”.7 Il carattere sacrale della scrittura è dimostrato dal fatto che unici depositari ne erano i sacerdoti, in quanto solo essi potevano possedere la sapienza che per il mesoamericano era indiscutibilmente legata al sacro e sacra essa stessa.
Per Fernando Anton, studioso dei Maya, soltanto questi ultimi furono in grado di sviluppare una vera scrittura: su questo sono d’accordo, per altro, quasi tutti i mayanisti. La finalità religiosa della scrittura maya è comprovata anche dallo studioso
Paul Arnold. Questi afferma che la scrittura maya verosimilmente è servita, all’inizio, per i soli bisogni della vita religiosa. Bisogna notare anche che il grande sacerdote è rimasto, fino alla fine, il guardiano di quest’arte.8 I rari manoscritti che sono scampati all’opera distruttiva del monaco Diego De Landa tramandono soprattutto dei pensieri religiosi e delle ricette o tecniche rituali che dovrebbero riuscire a fare conoscere il futuro e a permettere la lettura dei moti degli astri.9 Non mi sembra che tra i Maya ci sia stata un solo manoscritto di carattere prettamente letterario. Tutti i loro sforzi erano rivolti all’accrescimento del sapere scientifico-religioso. La complessità del sistema di scrittura maya è tale da lasciare a volte sconcertato il lettore moderno, e altrettanto doveva accadere agli antichi Maya che non fossero esperti nel loro uso. Tale aspetto non fa che confermare ancor più la valenza mistica dello scrivere. Linda Schele e David freidel sostengono che

“dobbiamo tenere presente che l’intento di questo sistema di scrittura non era la comunicazione di massa, intesa nel senso moderno. Pochi degli antichi Maya erano in grado di leggere e scrivere, e non esistevano né riviste né libri tascabili. La scrittura era un’attività sacra che aveva la capacità di catturare l’ordine del cosmo, di plasmare la storia, di dare forma al rito e di trasformare il materiale profano della vita quotidiana in una realtà soprannaturale”.10

La scrittura maya è, per tanti versi, un’eredità lasciata loro dagli Olmechi, che avevano creato dei glifi embrionali e complessi, che furono sviluppati in una scrittura vera e propria. Thompson precisa che “I geroglifici maya erano scolpiti in rilievo o più di rado incisi sulle stele, sugli altari, sui paletti di pietra di un campo di gioco, sulla faccia dei gradini, su pannelli murali, in genere sui muri di edifici, su architravi di pietra o di legno, sulle travi dei soffitti. Venivano anche modellati in stucco, incisi su oggetti di decorazione personale, di giada o altra materia, o dipinti sulle terraglie, negli affreschi, in libri. Sono molto più numerosi e complessi dei geroglifici aztechi”11. “I libri”, continua lo studioso, “[erano]composti di un’unica striscia di carta alta una ventina di centimetri e lunga diversi metri. Il lungo foglio veniva piegato a soffietto, in tante pagine larghe una quindicina di centimetri, scritte sulle due facce. Dato il sistema di piegatura, il libro era scritto prima su tutta una faccia del foglio poi sull’altra. Il testo veniva suddiviso in quelli che noi potremmo chiamare capitoli, ciascuno di un numero variabile di pagine. Per fare la carta si impiegava un tipo di fibra ottenuta da una varietà selvatica di fico. La fibra veniva battuta fino a ridurla allo spessore di una tela, e poi spalmata di uno strato sottile di calce”.12
Tre codici soltanto sono sopravvissuti, e solo per puro caso, al periodo coloniale. Essi si trovano a Dresda, a Madrid e a Parigi. Tutti e tre vengono chiamati con il nome della città in cui sono conservati. Il codice di Dresda è una copia fatta attorno al 1200 d.c. di un testo del periodo classico. Tratta di astronomia, contenendo le tavole delle eclissi e del Ciclo di Venere, e di arte divinatoria. Il Codice di Madrid, di fattura meno raffinata, risalente al quindicesimo secolo d.c. parla di divinazione, dei riti connessi con le varie arti, di altri riti importanti come quelli dell’inizio dell’anno. Infine, il Codice di Parigi, anch’esso di epoca tarda, di fattura mediocre, (è il più rozzo fra i tre), parla di cerimonie, di profezie connesse alla fine di una serie di tun e di katun, e di materie divinatorie.13
I glifi più antichi, probabilmente, corrispondono alla lingua parlata dai Maya degli altipiani: per esempio il giorno detto giaguaro si chiama Ix o Hix. Tale parola non ha senso nello yucateco, ma significa giaguaro nella lingua Kekchi, parlata nell’altopiano. Lo storico Albero Guaraldo racconta che “La chiave della scrittura Maya era stata scoperta già negli anni ’50 da un giovane epigrafista sovietico, Yuri Knorozov, che si era fatto le ossa sui testi egizi e che eseguiva analisi posizionali con il calcolatore, partendo dall’ipotesi che il sistema maya fosse logografico misto – come erano giunte ad essere le scrittura egizia, sumera, ittita e cinese, e che quindi combinasse ideogrammi, simboli fonetici e radicali, disponendo di un sillabario abbastanza complesso”.14
Per Thompson, “nei loro testi si trova l’uso di una grafia fonetica elementare che può essere considerata anche come una forma più evoluta di scrittura per rebus: poichè l’immagine si è convenzionalizzata e irrigidita al punto di non essere più riconoscibile”.15
I Maya facevano un grande uso di glifi ideografici: ad esempio, la testa del pesce xoc (difficile da rappresentare, poiché poteva sembrare la testa di un altro pesce o anche di un animale terrestre), veniva spesso sostituito con il segno ideografico dell’acqua, sicuramente perché l’acqua è l’elemento dove vivono i pesci. Simbolo dell’acqua era una sfera di giada,
in quanto entrambi
verdi e preziosi.
Un esempio di ideogramma è l’unione del glifo del seme con il glifo della terra per formare il segno della milpa, campo di granoturco.
I Maya impiegavano nella scrittura due forme distinte di glifi che potevano essere utilizzate indifferentemente. Per esempio: il giorno Cimi ‘morte’ poteva essere indicato o con la testa del dio della morte o con un simbolo simile al nostro %, che i Maya scolpivano o dipingevano spesso sul corpo della divinità.
Molti glifi maya sono ancora da decifrare: la loro complessità di comprensione è dato dal fatto che non venivano utilizzati segni alfabetici, conseguentemente il progresso nella loro decodifica oltre che lento, è anche difficile. I Maya non avevano verbi veri e propri, ma si può parlare piuttosto di nomi verbali; esistevano invece il suffisso e il prefisso. Gli affissi finora riconosciuti consistono in aggettivi, avverbi, preposizioni o congiunzioni. Spesso due glifi venivano fusi combinandone gli elementi principali con il risultato di un segno nuovo. “Se è fuor di dubbio”, scrive “Herber Whilelmy, che la scrittura maya con i suoi 800 segni non è una scrittura fonetica- altrimenti ne basterebbero, come nel nostro alfabeto, 24 e qualcuno in più per i suoni a noi inconsueti, essa d’altra parte non costituisce nemmeno un completo sistema di ideogrammi o logogrammi come la scrittura cinese. Perché di nuovo 800 segni sarebbero di gran lunga insufficienti. Un cinese colto, per esempio, deve dominarne almeno 5000-7000”.16
Lo scolpire i glifi del “computo lungo” era per gli artisti maya una sorta di culto al tempo. La serie dei periodi ha una cadenza che in se stessa è una preghiera, un’offerta elevata agli dei e alle potenze superiori. Il testo del computo lungo o serie iniziale veniva trascritto con pazienza e reverenza, poiché si trattava del tempo, argomento sacro (tanto da divenire ossessivo) per i Maya.
1 Martin Brennan, op. cit., pag. 298. E’ ormai documentata l’ esistenza di un esteso commercio tra la Mesoamerica e le varie regioni che conosciamo ora con il nome di Stati Uniti. Nel Chaco Canyon del Nuovo Messico, sono state trovate prove di ingenti importazioni provenienti dalla Mesoamerica di prodotti di valore quali i macao e le campane di rame. E’ estremamente interessante e rilevatote un petroglifo nell’ Indian Petroglyps State Park nel Nuovo Messico. Esso mostra chiaramente due macao. Questi uccelli non migrano e quindi devono essere stati appositamente trasportati dalla Mesoameriva. Uno dei Macao è ritratto in una gabbia con tanto di maniglia, il che ci dice in quale modo furono trasportati. L’evidenza più incontrovertibile del contatto sistematico esistente tra le due regioni ci è fornita da un articolo scritto nel 1992 da Germani Harbottle, un chimico dirigente del Brookaven National Laboratori, e dall’ antropologo Phil Weigan, intitolato: Il turchese nell’America precolombiana. Gli autori spiegano come praticamente tutte le miniere di turchese del continente nordamericano si estendano in un grande arco della California al Colorado. Impiegando una tecnica chiamata analisi di attivazione neutronica, essi fecero risalire il turchese scoperto nel Messico a specifiche miniere situate nel Nuovo Messico, nell’ Arizona e nel Nevada, cioè a più di 1000 miglia di distanza. Così non solo provarono l’ esistenza di un sistematico commercio, ma riuscirono a stabilire quanto esteso e ben organizzato era diventato, nonché a ripercorrere le rotte commerciali che probabilmente venivano usate. Il primissimo uso conosciuto del turchese fu scoperto a Mezzala, nel Guerrero, e risale al 600 a.c. Casi isolati dell’ uso di questa gemma si trovano nel Messico centrale e occidentale nel 200 a.c.; e nel 50 a.c. il suo uso si diffuse in Oaxaca. Nel 1000 d.c. il turchese era popolare in tutta la Mesoamerica, superando il consumo della giada, sua concorrente. Prove del suo uso esteso tra i Maya risalgono al 1050 d.c. Solo piccole quantità venivano utilizzate dai popoli del Sud – ovest americano e la gemma veniva estratta dalle miniere principalmente per esportarla nella Mesoamerica. Harbottle e Weigand scoprirono tracce di una rotta commerciale del periodo Postclassico iniziale, che partiva dal Chaco Canyon nel Nuovo Messico settentrionale e si stendeva al sud del Messico fino a Tula. Da lì si spingeva ad oriente spaziando attraverso la penisola yucateca e giungendo infine alla grande metropoli maya di Chichèn Itzà. Il trasporto della gemma attraverso distanze così vaste deve avere coinvolto molti intermediari. Allo scopo di mantenere un sistema di commercio intertribale e internazionale, era indispensabile per gli indiani sviluppare un linguaggio commerciale generico, indipendentemente dalle numerose lingue e dialetti parlati. Non c’ è dubbio che la lingua franca usata fosse il linguaggio dei segni.
2 Ibidem, pag. 17.
3 Ibidem, pag. 24
4 Cfr. Ibidem, pagg. 59-60.
5 Cfr. Ibidem, pag. 128.
6 Pietro Bandini, op. cit., pag. 21.
7 ClaudeFrancois Baudez - Pierre Becquelin, L’America precolombiana,I Maya, Rizzoli Editore, Milano 1998. (1.a ed. italiana nella collana “ Il mondo della figura ”), pag. 105.
8 Paul Arnold, op. cit., pag. 22.
9 Ibidem,, passim.
10 Linda Schele- David Freidel, Una Foresta di Re, Editrice Corbaccio Gennaio 2000 pagg. 49-50. Titolo Originale: A forest of Kings.
11 Eric Thompson, op. cit., pag. 204.
12 Ibidem, pag. 212.
13 Ibidem.
14 Ibidem, prologo di Alberto Guaraldo, pag. XII.
15 Ibidem, pag. 211.
16 Herbert Wilhelmi, op. cit, pag. 39.

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