“per
lungo tempo gli studi tradizionali hanno insistito sul fatto che tra
Sud–Ovest e la Mesoamerica non vi fossero altro che rapporti
puramente occasionali, ma la trasmissione di un linguaggio dei segni
rappresenta un significativo scambio culturale che suggerisce invece
un contatto sistematico. Infatti altre informazioni scovate da
moderni studi scientifici e archeologici dimostrano che si fosse in
realtà sviluppato un formale sistema commerciale altamente
strutturato1[…]
Questi sviluppi aprirono una nuova via di accesso celata: se il
linguaggio dei segni degli indiani delle praterie, che è noto, ben
documentato e d’uso corrente, ha avuto origine in Messico, come
affermano le tradizioni indiane, allora potrebbe essere possibile
usare questo linguaggio per penetrare nel significato degli
sconosciuti segni manuali degli antichi Maya”. 2
Brennan
sostiene la provenienza della scrittura dalla gestualità manuale
precisando che “era la prima volta che si sfruttava la conoscenza
del linguaggio dei segni per risolvere problemi di archeologia e
d’epigrafia”.3
Bisogna
tenere presente che è proprio nella Mesoamerica che il culto della
mano si impone come simbolo dominante del rituale religioso.
In
queste culture la mano rappresenta l’equivalente della croce per il
cristianesimo o della stella di Davide per il giudaismo. E’ un
motivo importante negli oggetti di culto rituali, come ad esempio nel
bastone cerimoniale, visto nel dettaglio tratto dal codice di
Dresda4.
Per
i Maya lo scrivere stesso era un atto religioso, l’atto di
scrivere è considerato di per sé magico costituendo una preghiera.
La scrittura è quindi ricollegabile al valore spirituale attribuito dai mesoamericani alla mano, e, quindi, derivante dalle sue forme di gesticolazione. Si deve tenere presente anche che nell’arte maya le mani sono sempre messe in evidenza poiché ricoprono un ruolo essenziale nei riti; alcune volte vengono così valorizzate che appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo, venendo rappresentate anche in dimensioni doppie rispetto alla loro normale misura.
La scrittura è quindi ricollegabile al valore spirituale attribuito dai mesoamericani alla mano, e, quindi, derivante dalle sue forme di gesticolazione. Si deve tenere presente anche che nell’arte maya le mani sono sempre messe in evidenza poiché ricoprono un ruolo essenziale nei riti; alcune volte vengono così valorizzate che appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo, venendo rappresentate anche in dimensioni doppie rispetto alla loro normale misura.
La
stessa rappresentazione dei numeri mediante punti e linee riconduce
alla gestualità (e non potrebbe essere altrimenti, dato il valore
sacro attribuito anche alla matematica): “nei glifi numerici i
simboli del puntino sono astrazioni che si evolvono naturalmente
dalle punte delle dita usate per calcolare”.5
Il numero cinque, rappresentato con una linea, è, per esempio, da
ricondurre alla stilizzazione di un
pugno chiuso con il
pollice in fuori.
L’interpretazione
della scrittura maya, basata su complesse figure chiamate dagli
studiosi glifi, è
tutt’ora parziale e controversa.
Lo studio di Martin Brennan ha permesso di capire che alla base della scrittura maya ci sono i gesti manuali che le figure descrivono. In tal modo, egli ha potuto fornire una nuova chiave per comprendere lo spirito di questo antico popolo. Il clero aveva il compito di occuparsi di tutte le attività intellettuali, spirituali, culturali, sempre rivolte a una finalità religiosa: non scontentare gli dei e cercare di capire le loro intenzioni”. Essenzialmente d’accordo con Martin Brennan, lo studioso Pietro Bandini ipotizza che i segni usati nell’indicare i numeri non sono altro che “[…]le impronte delle punte delle dita e quelle della mano messa di taglio sulla sabbia o sulla polvere[…]”6 Lo studioso dell’arte Pierre Becquelin scrive che “si osserva nelle mani [nelle rappresentazioni artistiche] una grande varietà di gesti che deve essere dettata da un codice ben stabilito”.7 Il carattere sacrale della scrittura è dimostrato dal fatto che unici depositari ne erano i sacerdoti, in quanto solo essi potevano possedere la sapienza che per il mesoamericano era indiscutibilmente legata al sacro e sacra essa stessa.
Lo studio di Martin Brennan ha permesso di capire che alla base della scrittura maya ci sono i gesti manuali che le figure descrivono. In tal modo, egli ha potuto fornire una nuova chiave per comprendere lo spirito di questo antico popolo. Il clero aveva il compito di occuparsi di tutte le attività intellettuali, spirituali, culturali, sempre rivolte a una finalità religiosa: non scontentare gli dei e cercare di capire le loro intenzioni”. Essenzialmente d’accordo con Martin Brennan, lo studioso Pietro Bandini ipotizza che i segni usati nell’indicare i numeri non sono altro che “[…]le impronte delle punte delle dita e quelle della mano messa di taglio sulla sabbia o sulla polvere[…]”6 Lo studioso dell’arte Pierre Becquelin scrive che “si osserva nelle mani [nelle rappresentazioni artistiche] una grande varietà di gesti che deve essere dettata da un codice ben stabilito”.7 Il carattere sacrale della scrittura è dimostrato dal fatto che unici depositari ne erano i sacerdoti, in quanto solo essi potevano possedere la sapienza che per il mesoamericano era indiscutibilmente legata al sacro e sacra essa stessa.
Per
Fernando Anton, studioso dei Maya, soltanto questi ultimi furono in
grado di sviluppare una vera scrittura: su questo sono d’accordo,
per altro, quasi tutti i mayanisti. La finalità religiosa della scrittura maya è comprovata anche
dallo studioso
Paul
Arnold. Questi afferma che la scrittura maya verosimilmente è
servita, all’inizio, per i soli bisogni della vita religiosa.
Bisogna notare anche che il grande sacerdote è rimasto, fino alla
fine, il guardiano di quest’arte.8
I rari manoscritti che sono scampati all’opera distruttiva del
monaco Diego De Landa tramandono soprattutto dei pensieri religiosi e
delle ricette o tecniche rituali che dovrebbero riuscire a fare
conoscere il futuro e a permettere la lettura dei moti degli astri.9
Non mi sembra che tra i Maya ci sia stata un solo manoscritto di
carattere prettamente letterario. Tutti i loro sforzi erano rivolti
all’accrescimento del sapere scientifico-religioso. La complessità
del sistema di scrittura maya è tale da lasciare a volte sconcertato
il lettore moderno, e altrettanto doveva accadere agli antichi Maya
che non fossero esperti nel loro uso. Tale aspetto non fa che
confermare ancor più la valenza mistica dello scrivere. Linda Schele
e David freidel sostengono che
“dobbiamo
tenere presente che l’intento di questo sistema di scrittura non
era la comunicazione di massa, intesa nel senso moderno. Pochi degli
antichi Maya erano in grado di leggere e scrivere, e non esistevano
né riviste né libri tascabili. La scrittura era un’attività
sacra che aveva la capacità di catturare l’ordine del cosmo, di
plasmare la storia, di dare forma al rito e di trasformare il
materiale profano della vita quotidiana in una realtà
soprannaturale”.10
La
scrittura maya è, per tanti versi, un’eredità lasciata loro dagli
Olmechi, che avevano creato dei glifi embrionali e complessi, che
furono sviluppati in una scrittura vera e propria. Thompson precisa
che “I geroglifici maya erano scolpiti in rilievo o più di rado
incisi sulle stele, sugli altari, sui paletti di pietra di un campo
di gioco, sulla faccia dei gradini, su pannelli murali, in genere sui
muri di edifici, su architravi di pietra o di legno, sulle travi dei
soffitti. Venivano anche modellati in stucco, incisi su oggetti di
decorazione personale, di giada o altra materia, o dipinti sulle
terraglie, negli affreschi, in libri. Sono molto più numerosi e
complessi dei geroglifici aztechi”11.
“I libri”, continua lo studioso, “[erano]composti di un’unica
striscia di carta alta una ventina di centimetri e lunga diversi
metri. Il lungo foglio veniva piegato a soffietto, in tante pagine
larghe una quindicina di centimetri, scritte sulle due facce. Dato il
sistema di piegatura, il libro era scritto prima su tutta una faccia
del foglio poi sull’altra. Il testo veniva suddiviso in quelli che
noi potremmo chiamare capitoli, ciascuno di un numero variabile di
pagine. Per fare la carta si impiegava un tipo di fibra ottenuta da
una varietà selvatica di fico. La fibra veniva battuta fino a
ridurla allo spessore di una tela, e poi spalmata di uno strato
sottile di calce”.12
Tre
codici soltanto sono sopravvissuti, e solo per puro caso, al periodo
coloniale. Essi si trovano a Dresda, a Madrid e a Parigi. Tutti e tre
vengono chiamati con il nome della città in cui sono conservati. Il
codice di Dresda è una copia fatta attorno al 1200 d.c. di un testo
del periodo classico. Tratta di astronomia, contenendo le tavole
delle eclissi e del Ciclo di Venere, e di arte divinatoria. Il Codice
di Madrid, di fattura meno raffinata, risalente al quindicesimo
secolo d.c. parla di divinazione, dei riti connessi con le varie
arti, di altri riti importanti come quelli dell’inizio dell’anno.
Infine, il Codice di Parigi, anch’esso di epoca tarda, di fattura
mediocre, (è il più rozzo fra i tre), parla di cerimonie, di
profezie connesse alla fine di una serie di tun
e di katun,
e di materie divinatorie.13
I
glifi più antichi, probabilmente, corrispondono alla lingua parlata
dai Maya degli altipiani: per esempio il giorno detto giaguaro
si chiama Ix o Hix.
Tale parola non ha senso nello yucateco, ma significa giaguaro nella
lingua Kekchi, parlata nell’altopiano. Lo storico Albero Guaraldo
racconta che “La chiave della scrittura Maya era stata scoperta già
negli anni ’50 da un giovane epigrafista sovietico, Yuri Knorozov,
che si era fatto le ossa sui testi egizi e che eseguiva analisi
posizionali con il calcolatore, partendo dall’ipotesi che il
sistema maya fosse logografico misto – come erano giunte ad essere
le scrittura egizia, sumera, ittita e cinese, e che quindi combinasse
ideogrammi, simboli fonetici e radicali, disponendo di un sillabario
abbastanza complesso”.14
Per
Thompson, “nei loro testi si trova l’uso di una grafia fonetica
elementare che può essere considerata anche come una forma più
evoluta di scrittura per rebus: poichè l’immagine si è
convenzionalizzata e irrigidita al punto di non essere più
riconoscibile”.15
I Maya facevano un grande uso di glifi
ideografici: ad esempio, la testa del pesce xoc
(difficile da rappresentare, poiché poteva sembrare la testa di un
altro pesce o anche di un animale terrestre), veniva spesso
sostituito con il segno ideografico dell’acqua, sicuramente perché
l’acqua è l’elemento dove vivono i pesci. Simbolo dell’acqua
era una sfera di giada,
in quanto entrambi
verdi e preziosi.
in quanto entrambi
verdi e preziosi.
Un
esempio di ideogramma è l’unione del glifo del seme con il glifo
della terra per formare il segno della milpa, campo di granoturco.
I
Maya impiegavano nella scrittura due forme distinte di glifi che
potevano essere utilizzate indifferentemente. Per esempio: il giorno
Cimi ‘morte’
poteva essere indicato o con la testa del dio della morte o con un
simbolo simile al nostro %,
che i Maya scolpivano o dipingevano spesso sul corpo della divinità.
Molti glifi maya sono ancora da decifrare: la loro
complessità di comprensione è dato dal fatto che non venivano
utilizzati segni alfabetici, conseguentemente il progresso nella loro
decodifica oltre che lento, è anche difficile. I Maya non avevano
verbi veri e propri, ma si può parlare piuttosto di nomi verbali;
esistevano invece il suffisso e il prefisso. Gli affissi finora
riconosciuti consistono in aggettivi, avverbi, preposizioni o
congiunzioni. Spesso due glifi venivano fusi combinandone gli
elementi principali con il risultato di un segno nuovo. “Se è fuor
di dubbio”, scrive “Herber Whilelmy, che la scrittura maya con i
suoi 800 segni non è una scrittura fonetica- altrimenti ne
basterebbero, come nel nostro alfabeto, 24 e qualcuno in più per i
suoni a noi inconsueti, essa d’altra parte non costituisce nemmeno
un completo sistema di ideogrammi o logogrammi come la scrittura
cinese. Perché di nuovo 800 segni sarebbero di gran lunga
insufficienti. Un cinese colto, per esempio, deve dominarne almeno
5000-7000”.16
Lo scolpire i glifi del “computo lungo” era per gli
artisti maya una sorta di culto al tempo. La serie dei periodi ha una
cadenza che in se stessa è una preghiera, un’offerta elevata agli
dei e alle potenze superiori. Il testo del computo
lungo o serie
iniziale veniva
trascritto con pazienza e reverenza, poiché si trattava del tempo,
argomento sacro (tanto da divenire ossessivo) per i Maya.
1
Martin Brennan, op.
cit., pag.
298. E’ ormai documentata l’
esistenza di un esteso commercio tra la Mesoamerica e le varie
regioni che conosciamo ora con il nome di Stati Uniti. Nel Chaco
Canyon del Nuovo Messico, sono state trovate prove di ingenti
importazioni provenienti dalla Mesoamerica di prodotti di valore
quali i macao e le campane di rame. E’ estremamente interessante e
rilevatote un petroglifo nell’ Indian Petroglyps State Park nel
Nuovo Messico. Esso mostra chiaramente due macao. Questi uccelli non
migrano e quindi devono essere stati appositamente trasportati dalla
Mesoameriva. Uno dei Macao è ritratto in una gabbia con tanto di
maniglia, il che ci dice in quale modo furono trasportati.
L’evidenza più incontrovertibile del contatto sistematico
esistente tra le due regioni ci è fornita da un articolo scritto
nel 1992 da Germani Harbottle, un chimico dirigente del Brookaven
National Laboratori, e dall’ antropologo Phil Weigan, intitolato:
Il turchese nell’America precolombiana. Gli autori spiegano come
praticamente tutte le miniere di turchese del continente
nordamericano si estendano in un grande arco della California al
Colorado. Impiegando una tecnica chiamata analisi di attivazione
neutronica, essi fecero risalire il turchese scoperto nel Messico a
specifiche miniere situate nel Nuovo Messico, nell’ Arizona e nel
Nevada, cioè a più di 1000 miglia di distanza. Così non solo
provarono l’ esistenza di un sistematico commercio, ma riuscirono
a stabilire quanto esteso e ben organizzato era diventato, nonché a
ripercorrere le rotte commerciali che probabilmente venivano usate.
Il primissimo uso conosciuto del turchese fu scoperto a Mezzala, nel
Guerrero, e risale al 600 a.c. Casi isolati dell’ uso di questa
gemma si trovano nel Messico centrale e occidentale nel 200 a.c.; e
nel 50 a.c. il suo uso si diffuse in Oaxaca. Nel 1000 d.c. il
turchese era popolare in tutta la Mesoamerica, superando il consumo
della giada, sua concorrente. Prove del suo uso esteso tra i Maya
risalgono al 1050 d.c. Solo piccole quantità venivano utilizzate
dai popoli del Sud – ovest americano e la gemma veniva estratta
dalle miniere principalmente per esportarla nella Mesoamerica.
Harbottle e Weigand scoprirono tracce di una rotta commerciale del
periodo Postclassico iniziale, che partiva dal Chaco Canyon nel
Nuovo Messico settentrionale e si stendeva al sud del Messico fino a
Tula. Da lì si spingeva ad oriente spaziando attraverso la penisola
yucateca e giungendo infine alla grande metropoli maya di Chichèn
Itzà. Il trasporto della gemma attraverso distanze così vaste
deve avere coinvolto molti intermediari. Allo scopo di mantenere un
sistema di commercio intertribale e internazionale, era
indispensabile per gli indiani sviluppare un linguaggio commerciale
generico, indipendentemente dalle numerose lingue e dialetti
parlati. Non c’ è dubbio che la lingua franca usata fosse il
linguaggio dei segni.
5
Cfr. Ibidem, pag. 128.
6
Pietro Bandini, op. cit., pag. 21.
7
ClaudeFrancois Baudez - Pierre Becquelin, L’America
precolombiana,I Maya, Rizzoli Editore,
Milano 1998. (1.a ed. italiana nella collana “ Il mondo della
figura ”), pag. 105.
9
Ibidem,, passim.
10
Linda Schele- David Freidel, Una Foresta di
Re, Editrice Corbaccio Gennaio 2000 pagg.
49-50. Titolo Originale: A forest of Kings.
11
Eric Thompson, op. cit., pag. 204.
12
Ibidem, pag. 212.
13
Ibidem.
14
Ibidem, prologo di Alberto Guaraldo, pag. XII.
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