martedì 29 maggio 2012

Platone


Platone, il cui vero nome era quello di Aristocle, deve il soprannome con cui è conosciuto alla sua stazza, ed infatti “platus” è aggettivo che significa “ampio”. Probabilmente ad indicare la larghezza delle sue spalle. Egli nacque ad Atene nel 428 – 427 a.C. e muore nel 348 – 347. Suo maestro fu Socrate, che conobbe all'età di vent'anni e che frequentò per circa otto. Morto Socrate, compì molti viaggi. I più importanti sono quelli in Sicilia. Qui si recò una prima volta nel 388, una seconda nel 367 e una terza nel 361.
Questi viaggi furono di notevole importanza perché lo misero in contatto con i cosiddetti “secondi pitagorici”, che avranno notevole influsso sulla sua filosofia, soprattutto in quella più matura. Inoltre, in Sicilia cercò di attuare la sua utopia politica per ben due volte tramite l'amico Dione, parente di Dioniso il Vecchio, tiranno di Siracusa. Entrambi i tentativi, però, fallirono.
Nel 387 compra ad Atene un parco dedicato all'eroe Academo, e vi fonda una scuola dal nome Accademia.
Di Platone ci sono giunti una serie di dialoghi, 13 lettere e alcuni epigrammi e frammenti. Si pensa, inoltre, che non abbia messo per iscritto una sua lezione, ritenuta, tra l'altro, dal filosofo come la più importante. Ciò ci viene tramandato dal filosofo Aristosseno, vissuto tra il IV-III sec., che ci dice anche, che Platone avrebbe voluto, per gelosia, far bruciare tutte le opere di Democrito. Venne distolto da ciò dai pitagorici Amicla e Clinia, i quali lo fecero riflettere sull'inutilità del gesto, dato che, ormai, le opere di Democrito erano diffusissime.
Tale lezione, dal titolo “Sul Bene”, deluse i discepoli che l'ebbero ascoltata. Ci si aspettava, infatti, di sentire argomentazioni che vertevano sull'etica, mentre, invece, si discusse esclusivamente di matematica e geometria. In pratica, come ci afferma lo stesso Aristotele, Platone espose la teoria secondo cui la più importante idea è quella dell'unità, da cui deriverebbe la contrapposizione tra maggiore e minore, e da questa contrapposizione deriverebbe la serie di numeri.
In queste testimonianze possiamo cogliere un influsso delle dottrine pitagoriche in Platone. Influsso confermato, anche, dall'accettazione della teoria della metempsicosi. Cioè della reincarnazione degli uomini in altri corpi, anche di animali, secondo una sorta di ciclo karmico, sottostante ad una legge di ricompensa della vita attuale. Tale teoria era affermata dai pitagorici, la quale la acquisirono dal movimento misterico orfico. Inoltre, il fatto di non aver messo per iscritto proprio quella lezione che spiegava l'origine del mondo secondo rapporti matematici - geometrici conferma un atteggiamento proprio dei pitagorici, che non spiegavano al di fuori degli iniziati quelle concezioni ritenute solo per pochi.
In Platone si ha una presenza forte, nella spiegazione di alcune dottrine, del mito. Ciò potrebbe far pensare che con lui la filosofia faccia un passo indietro, e si vada ad innestare con il religioso, o, ancora peggio, con il superstizioso. In realtà non è così. È, semmai, vero il contrario: con Platone la filosofia diviene ricerca aperta verso ogni argomento e rivolta a tutti; ed infatti il mito, con il suo “mostrare” le cose in maniera semplice ed intuitiva, permetteva di essere capita dai più, e di uscire dalla cerchia degli iniziati. A confermare questa voglia di rendere facile l'accesso alla filosofia ricorre anche il dialogo, che rende vive le idee e il discorso ragionativo.
Queste sono le opere di Platone nell'ordine cronologico accettato dalla maggioranza degli studiosi:
Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Flebo, Crizia, Timeo, Leggi. Apologia, Critone, Eutifrone, Ione, Ippia minore, La chete, Liside, Carmide, Alcibiade I, Alcibiade II, Protagora, Ippia maggiore. Gorgia, Menone, Clitofonte, Eutidemo, Menesseno, Fedone, Convito, Repubblica, Fedro, Cratilo e infine tredici lettere.
Platone fu il primo studioso ad aver dato una definizione di filosofia, e forse, il primo ad utilizzarne il termine, anche se sembra che la coniazione della parola sia da attribuire al Pitagora.
Platone sottolinea che essere desideroso di sapere ed essere filosofo sono la stessa cosa.
Ciò lo si evince in maniera chiara nel Simposio, dove afferma che:
Chi sono allora[...] quelli che filosofano, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti?" "E' chiaro anche ad un bambino ormai - disse - che sono quelli a metà tra questi due e che di essi fa parte anche Amore. La sapienza, infatti, fa parte delle cose più belle e Amore è amore del bello, sicché è necessario che Amore sia filosofo e, in quanto filosofo, sia in mezzo tra il sapiente e l'ignorante". (Platone, "Simposio")
Quindi, sono filosofi coloro che sono né troppo sapienti, perché se così fossero non avrebbero bisogno di ricercare, né troppo ignoranti, perché se così fossero non avrebbero gli strumenti per ricercare. Sono, pertanto, filosofi coloro che stanno in mezzo alla sapienza e all'ignoranza. Cioè coloro che non tutto sanno e che non tutto sconoscono; coloro che riescono a provare meraviglia. Ed infatti “si addice particolarmente al filosofo questa […] sensazione: il meravigliarsi. Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo”.
Ciò viene affermato nel Teeteto, e viene ripreso dal discepolo Aristotele, che nella Metafisica scrive:
Infatti gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’universo intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia”.
La meraviglia avvia la ricerca, il sapere. Essa nasce dallo stupore, dal dubbio, ed esige la ricerca di risposte che diano delle certezze stabili.
E proprio da questa ricerca di sapere stabile si avvia il lavoro di Platone. Ma per giungere a conoscenze scientifiche ed oggettive è necessario sapere come correttamente si pensa, cioè sapere quali sono i modi di un corretto giudicare, di un corretto discorrere (Eutifrone). Bisogna, quindi, raggiungere la verità. Lo strumento che può permetterci di farlo è la dialettica, da cui scaturiscono i concetti generali (le idee). Queste definiscono i termini del discorso, che devono essere connessi in predicati e giudizi.
Il problema platonico è l'elaborazione di un sapere corretto che passi attraverso la definizione.
La definizione, infatti, ci permette di conoscere l'idea, e la predicazione porta al necessario discorso tra le idee – termini. Quindi, l’atto intellettivo (etimologicamente legare insieme) consiste nell’individuazione dei giusti nessi tra le idee così definite.
Platone cerca di raggiungere un sapere al di sopra dell’opinione, polemizza, pertanto, contro i Sofisti, assertori di una persuasione fondata sull’opinione, e cioè la retorica, che è arte del discorso persuasivo.
Ad essa Platone contrappone la dialettica come capacità di sapere ragionare. La retorica produce credenza, la dialettica invece produce una persuasione fondata sulla scienza.
Gli uomini, scrive nella Repubblica, si distinguono in due tipi: quelli che ammettono solo l’opinione e quelli che riconoscono anche una scienza e che si rendono conto che c’è un bello, un giusto, ecc. Ciò che permette la definizione di una cosa è l’essere stesso della cosa, è ciò senza di cui la cosa non sarebbe, ed è perciò l’essenza e causa della cosa, la sua forma, l’idea (eidos), che trascende le cose esistenti.
Le idee sono gli archetipi (modelli) delle molte cose. Tale idee hanno esistenza nel mondo dell’iperuranio, e le cose del mondo partecipano (imitano) questa o quella idea. Le idee non possono essere colte dalla sensibilità, sempre mutevole, bensì devono essere colte nella nostra anima, grazie alla reminiscenza (anamnesi), per cui conoscere è, a rigor di logica, ricordare. È quindi necessario che l’anima abbia vissuto antecedentemente nell’iperuranio, ove ha potuto osservare le idee. Questa tesi, sviluppata nel Menone, presenta uno schiavo, ignorante di geometria, che con domande ben orchestrate viene portato a dimostrare da sé un teorema di geometria di cui non aveva conoscenza.
Nel Fedone si affronta il problema dell’immortalità con quattro argomentazioni principali: 1 – contrari; 2 – reminiscenza; 3 – somiglianza; 4 – anima come vitalità.
Le quattro tesi le possiamo sintetizzare in tal modo:
  1. ogni contrario genera il suo contrario, per cui dalla morte si genera la vita;
  2. le idee, come il concetto di uguaglianza, non derivano dai dati sensibili, quindi le abbiamo viste in una vita precedente;
  3. l’anima, non visibile, è simile alle idee e quindi immortale;
  4. l’anima dato che è soffio di vita partecipa sempre a tale idea.
Nella Repubblica con il mito della caverna si delineano i quattro gradi del conoscere. Per la sua meritata fama e importanza lo riporto per intero:
In seguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le
loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!, rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per forza, ammise. – Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo, rispose.E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È così, rispose. – Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso. – Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i
corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. – Come no? – Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. – Per forza, disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? – Certo. – Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo? – Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel
modo. – Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? – Sì, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose [...]”.

Platone immagina, quindi, una caverna sotterranea ove vi sono degli uomini incatenati, fin dall’infanzia, e costretti a guardare solo la parete di fondo. Alle loro spalle brilla un fuoco, e, tra il fuoco e i prigionieri, passano uomini che trasportano merci. I prigionieri vedono le ombre e le scambiano per la realtà, se però uno schiavo viene liberato, può finalmente vedere che quelle erano solo ombre, e se esce dalla caverna può vedere le immagini delle cose reali riflesse nell’acqua dei fiumi, e infine, gradualmente, può giungere a contemplare direttamente il sole e la luna.
Questo mito viene utilizzato da Platone per spiegare come si svolge la conoscenza, la quale viene distinta in opinione (doxa) e scienza (episteme).
Il primo livello conoscitivo è l’immaginazione, ove le immagini vengono prese per cose reali, liberatosi dei lacci si ha però la credenza dell’esistenza di cose accanto a cose, e cioè la conoscenza sensibile. Chi esce dalla caverna entra però, nel mondo della scienza, e questo è il momento del discorso intellettivo, ove si capisce che il ragionamento non è legato alla materialità; l’ultimo gradino è la conoscenza libera da ogni riferimento ed immagine sensibile.
Nella Repubblica si afferma anche che le idee sono sottoposte al Bene, che non è da intendersi come un'idea tra le idee, bensì come l’idea delle idee.
Inoltre, Platone asserisce la non esistenza del non-essere, nel senso che non lo si deve contrapporre in modo assoluto all’essere, bensì si deve intenderlo nel senso logico di diverso. Tutte le idee sono pertanto legate da un nesso di identità e di diversità. A questi tre generi sommi delle idee: essere, identico, diverso, si aggiungono la quiete e il moto. La quiete per indicare la natura stabile ed immobile delle idee, il moto per spiegare quella sorta di azione, e quindi di movimento, che le idee subiscono in quanto oggetti di conoscenza.
Per Platone, come già chiarito, non fa Filosofia chi è sapiente, e neppure chi è del tutto ignorante, bensì colui che si sente in stato di bisogno, di povertà, riguardo al sapere. Tale condizione di sapienza e ignoranza è l’amore, come aspirazione e tensione alla bellezza, in quanto ordine e armonia. Qui si ha la distinzione tra amore terreno e amore celeste. Il primo è passionale, sensibile, volto alle cose corporee; il secondo, invece, tende alla bellezza compiuta, che mai non nasce e che mai non muore, né aumenta né diminuisce. Tra i due amori esiste una gerarchia, per cui muovendo dall’amore per le bellezze corporee ci si può, a poco a poco, innalzare alla bellezza eterna.
Il rapporto tra le diversi parte dell’anima è esposto nel Fedro. L’anima viene rappresentata come un’auriga trasportata da due cavalli, uno bianco e uno nero. L’auriga è l’anima razionale, cui spetta la guida delle altre parti dell’anima, il cavallo bianco è l’anima irascibile, ovvero l’anima da cui derivano gli impulsi belli e nobili, il cavallo nero è l’anima concuscibile, ossia la parte da cui derivano gli impulsi bassi e ciechi. Nella Repubblica Platone afferma che la giustizia si distingue da altre virtù quali sapienza, coraggio e temperanza. Compito della giustizia è infatti, armonizzare queste virtù, in modo che non siano giusti solo i cittadini, ma anche lo stato e viceversa. Si tratta quindi di realizzare l’armonia di funzioni tra le classi dei cittadini che corrispondono alle tre parti dell’anima:
  1. la classe dei reggitori o filosofi, corrispondente all’anima razionale;
  2. la classe dei guerrieri, corrispondente all’anima irascibile;
  3. la classe degli artigiani, corrispondente all’anima concuscibile.
Platone afferma che gli uomini si distinguono tra loro per doti congenite, a seconda che la loro anima sia d’oro, d’argento o di bronzo, e predica la comunanza dei beni e delle donne, affinché la rivalità e la cupidigia non incrinino la saldezza di queste classi. Inoltre, lo stato non deve essere eccessivamente esteso né troppo popolato, per evitare tendenze espansionistiche, fonte di guerre. Discute anche delle cinque forme di stato effettivamente esistenti: aristocrazia, timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide. Per ordine decrescente: aristocrazia, governo di pochi, ovvero dei sapienti. Questa può degenerare in timocrazia, ovvero quando si impongono i capi bellicosi. Ciò porta alla ribellione dei poveri e quindi alla democrazia, ovvero il governo non in base ai meriti, ma in base al sorteggio. Tale aspirazione alla libertà porta ad un rifiuto ad ogni forma di coordinazione. Si ha la tirannide, ove il governo passa alle mani dei capi che vogliono mantenere il potere con la forza e la paura.
Lo stato deve occuparsi dell’educazione per garantire la giustizia, ossia deve scegliere i governanti e li deve formare in maniera adeguata, in base alle loro disposizioni naturali.
Platone condanna l’arte in quanto mimesi di mimesi, nel senso che gli oggetti terreni sono copie degli archetipi (idee) che abbiamo visto nell'iperuranio. Di conseguenza l'arte è imitazione di imitazione.
Nel Timeo si cerca di spiegare la genesi del mondo con il contrasto tra due elementi astratti, ossia l'intelligenza e la necessità. L'intelligenza viene simboleggiato da un demiurgo (il costruttore), che costruisce il mondo nello spazio vuoto (chora) componendolo di un corpo e di un'anima. Il corpo è costituito dai quattro elementi empedoclei: aria, fuoco, acqua, aria. L'anima, invece, è costituito dalle idee, preesistenti al demiurgo. Il demiurgo ordina i quattro elementi secondo rapporti aritmetici – geometrici, sulla base e ad imitazione delle idee, tra le quali le più importanti sono l'essere, l'identico e il diverso. Il primo corpo da cui derivano tutti gli altri è il triangolo, in quanto chiude lo spazio entro tre rette.

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