Platone,
il
cui vero nome era quello di Aristocle, deve il soprannome con cui è
conosciuto alla sua stazza, ed infatti “platus” è aggettivo che
significa “ampio”. Probabilmente ad indicare la larghezza delle
sue spalle. Egli nacque ad Atene nel 428 – 427 a.C. e muore nel 348
– 347. Suo maestro fu Socrate, che conobbe all'età di vent'anni e
che frequentò per circa otto. Morto Socrate, compì molti viaggi. I
più importanti sono quelli in Sicilia. Qui si recò una prima volta
nel 388, una seconda nel 367 e una terza nel 361.
Questi
viaggi furono di notevole importanza perché lo misero in contatto
con i cosiddetti “secondi pitagorici”, che avranno notevole
influsso sulla sua filosofia, soprattutto in quella più matura.
Inoltre, in Sicilia cercò di attuare la sua utopia politica per ben
due volte tramite l'amico Dione, parente di Dioniso il Vecchio,
tiranno di Siracusa. Entrambi i tentativi, però, fallirono.
Nel
387 compra ad Atene un parco dedicato all'eroe Academo, e vi fonda
una scuola dal nome Accademia.
Di
Platone ci sono giunti una serie di dialoghi, 13 lettere e alcuni
epigrammi e frammenti. Si pensa, inoltre, che non abbia messo per
iscritto una sua lezione, ritenuta, tra l'altro, dal filosofo come la
più importante. Ciò ci viene tramandato dal filosofo Aristosseno,
vissuto tra il IV-III sec., che ci dice anche, che Platone avrebbe
voluto, per gelosia, far bruciare tutte le opere di Democrito. Venne
distolto da ciò dai pitagorici Amicla e Clinia, i quali lo fecero
riflettere sull'inutilità del gesto, dato che, ormai, le opere di
Democrito erano diffusissime.
Tale
lezione, dal titolo “Sul Bene”, deluse i discepoli che l'ebbero
ascoltata. Ci si aspettava, infatti, di sentire argomentazioni che
vertevano sull'etica, mentre, invece, si discusse esclusivamente di
matematica e geometria. In pratica, come ci afferma lo stesso
Aristotele, Platone espose la teoria secondo cui la più importante
idea è quella dell'unità, da cui deriverebbe la contrapposizione
tra maggiore e minore, e da questa contrapposizione deriverebbe la
serie di numeri.
In
queste testimonianze possiamo cogliere un influsso delle dottrine
pitagoriche in Platone. Influsso confermato, anche, dall'accettazione
della teoria della metempsicosi. Cioè della reincarnazione degli
uomini in altri corpi, anche di animali, secondo una sorta di ciclo
karmico, sottostante ad una legge di ricompensa della vita attuale.
Tale teoria era affermata dai pitagorici, la quale la acquisirono dal
movimento misterico orfico. Inoltre, il fatto di non aver messo per
iscritto proprio quella lezione che spiegava l'origine del mondo
secondo rapporti matematici - geometrici conferma un atteggiamento
proprio dei pitagorici, che non spiegavano al di fuori degli iniziati
quelle concezioni ritenute solo per pochi.
In
Platone si ha una presenza forte, nella spiegazione di alcune
dottrine, del mito. Ciò potrebbe far pensare che con lui la
filosofia faccia un passo indietro, e si vada ad innestare con il
religioso, o, ancora peggio, con il superstizioso. In realtà non è
così. È, semmai, vero il contrario: con Platone la filosofia
diviene ricerca aperta verso ogni argomento e rivolta a tutti; ed
infatti il mito, con il suo “mostrare” le cose in maniera
semplice ed intuitiva, permetteva di essere capita dai più, e di
uscire dalla cerchia degli iniziati. A confermare questa voglia di
rendere facile l'accesso alla filosofia ricorre anche il dialogo, che
rende vive le idee e il discorso ragionativo.
Queste
sono le opere di Platone nell'ordine cronologico accettato dalla
maggioranza degli studiosi:
Parmenide,
Teeteto, Sofista, Politico, Flebo, Crizia, Timeo, Leggi. Apologia,
Critone, Eutifrone, Ione, Ippia minore, La chete, Liside, Carmide,
Alcibiade I, Alcibiade II, Protagora, Ippia maggiore. Gorgia, Menone,
Clitofonte, Eutidemo, Menesseno, Fedone, Convito, Repubblica, Fedro,
Cratilo e infine tredici lettere.
Platone
fu il primo studioso ad aver dato una definizione di filosofia, e
forse, il primo ad utilizzarne il termine, anche se sembra che la
coniazione della parola sia da attribuire al Pitagora.
Platone
sottolinea che essere desideroso di sapere ed essere filosofo sono la
stessa cosa.
Ciò
lo si evince in maniera chiara nel Simposio, dove afferma che:
“Chi
sono allora[...] quelli che filosofano, se non lo sono né i sapienti
né gli ignoranti?"
"E'
chiaro anche ad un bambino ormai - disse - che sono quelli a metà
tra questi due e che di essi fa parte anche Amore. La sapienza,
infatti, fa parte delle cose più belle e Amore è amore del bello,
sicché è necessario che Amore sia filosofo e, in quanto filosofo,
sia in mezzo tra il sapiente e l'ignorante".
(Platone, "Simposio")
Quindi,
sono filosofi coloro che sono né troppo sapienti, perché se così
fossero non avrebbero bisogno di ricercare, né troppo ignoranti,
perché se così fossero non avrebbero gli strumenti per ricercare.
Sono, pertanto, filosofi coloro che stanno in mezzo alla sapienza e
all'ignoranza. Cioè coloro che non tutto sanno e che non tutto
sconoscono; coloro che riescono a provare meraviglia. Ed infatti “si
addice particolarmente al filosofo questa […] sensazione: il
meravigliarsi. Non vi è altro inizio della filosofia, se non
questo”.
Ciò
viene affermato nel Teeteto, e viene ripreso dal discepolo
Aristotele, che nella Metafisica scrive:
“Infatti
gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa
della meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di
fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo poco a
poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i
problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli
astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’universo
intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce
di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è,
in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un
insieme di cose che destano meraviglia”.
La
meraviglia avvia la ricerca, il sapere. Essa nasce dallo stupore,
dal dubbio, ed esige la ricerca di risposte che diano delle certezze
stabili.
E
proprio da questa ricerca di sapere stabile si avvia il lavoro di
Platone. Ma per giungere a conoscenze scientifiche ed oggettive è
necessario sapere come correttamente si pensa, cioè sapere quali
sono i modi di un corretto giudicare, di un corretto discorrere
(Eutifrone). Bisogna, quindi, raggiungere la verità. Lo strumento
che può permetterci di farlo è la dialettica, da cui scaturiscono i
concetti generali (le idee). Queste definiscono i termini del
discorso, che devono essere connessi in predicati e giudizi.
Il
problema platonico è l'elaborazione di un sapere corretto che passi
attraverso la definizione.
La
definizione, infatti, ci permette di conoscere l'idea, e la
predicazione porta al necessario discorso tra le idee – termini.
Quindi, l’atto intellettivo (etimologicamente legare insieme)
consiste nell’individuazione dei giusti nessi tra le idee così
definite.
Platone
cerca di raggiungere un sapere al di sopra dell’opinione,
polemizza, pertanto, contro i Sofisti, assertori di una persuasione
fondata sull’opinione, e cioè la retorica, che è arte del
discorso persuasivo.
Ad
essa Platone contrappone la dialettica come capacità di sapere
ragionare. La retorica produce credenza, la dialettica invece produce
una persuasione fondata sulla scienza.
Gli
uomini, scrive nella Repubblica, si distinguono in due tipi: quelli
che ammettono solo l’opinione e quelli che riconoscono anche una
scienza e che si rendono conto che c’è un bello, un giusto, ecc.
Ciò che permette la definizione di una cosa è l’essere stesso
della cosa, è ciò senza di cui la cosa non sarebbe, ed è perciò
l’essenza e causa della cosa, la sua forma, l’idea (eidos), che
trascende le cose esistenti.
Le
idee sono gli archetipi (modelli) delle molte cose. Tale idee hanno
esistenza nel mondo dell’iperuranio, e le cose del mondo
partecipano (imitano) questa o quella idea. Le idee non possono
essere colte dalla sensibilità, sempre mutevole, bensì devono
essere colte nella nostra anima, grazie alla reminiscenza (anamnesi),
per cui conoscere è, a rigor di logica, ricordare. È quindi
necessario che l’anima abbia vissuto antecedentemente
nell’iperuranio, ove ha potuto osservare le idee. Questa tesi,
sviluppata nel Menone, presenta uno schiavo, ignorante di geometria,
che con domande ben orchestrate viene portato a dimostrare da sé un
teorema di geometria di cui non aveva conoscenza.
Nel
Fedone si affronta il problema dell’immortalità con quattro
argomentazioni principali: 1 – contrari; 2 – reminiscenza; 3 –
somiglianza; 4 – anima come vitalità.
Le
quattro tesi le possiamo sintetizzare in tal modo:
- ogni contrario genera il suo contrario, per cui dalla morte si genera la vita;
- le idee, come il concetto di uguaglianza, non derivano dai dati sensibili, quindi le abbiamo viste in una vita precedente;
- l’anima, non visibile, è simile alle idee e quindi immortale;
- l’anima dato che è soffio di vita partecipa sempre a tale idea.
Nella
Repubblica con il
mito della caverna
si delineano i quattro gradi del conoscere. Per la sua meritata fama
e importanza lo riporto per intero:
“In
seguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda
educazione e mancanza
di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora
sotterranea a forma di caverna,
con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza
della caverna, pensa di vedere
degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe
e collo, sì da dover restare
fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della
catena, di volgere attorno
il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco
e tra il fuoco e i prigionieri corra
rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un
muricciolo, come quegli schermi
che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di
sopra di essi i burattini. – Vedo,
rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il
muricciolo oggetti di ogni sorta
sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno,
in qualunque modo lavorate;
e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. –
Strana immagine è la tua, disse,
e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi
che tali persone possano vedere,
anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal
fuoco sulla parete della caverna
che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono
costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? – E per gli
oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri
potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare
oggetti reali le
loro
visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco
dalla parete di fronte? Ogni volta che uno
dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la
giudicherebbero diversa da quella dell’ombra
che passa? – Io no, per Zeus!, rispose. – Per tali persone
insomma, feci io, la verità non
può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per
forza, ammise. – Esamina ora, ripresi,
come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza.
Ammetti che capitasse loro
naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto
improvvisamente ad alzarsi, a
girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e
che così facendo provasse dolore
e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui
prima vedeva le ombre.
Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva
vacuità prive di senso, ma
che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso
oggetti aventi più essere, può vedere
meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano,
gli si domandasse e lo si
costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe
dubbioso e giudicherebbe più vere
le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? –
Certo, rispose. – E
se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male
agli occhi e non fuggirebbe
volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li
giudicherebbe realmente
più chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È così,
rispose. – Se poi, continuai, lo si trascinasse
via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si
lasciasse prima di averlo tratto alla
luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere
trascinato? E, giunto alla luce,
essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una
delle cose che ora sono dette
vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso. –
Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole
vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le
ombre e poi le immagini degli
esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e
infine gli oggetti stessi; da questi
poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà
contemplare di notte i
corpi
celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il
sole e la luce del sole. – Come no?
– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è
veramente il sole, non le sue immagini nelle
acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione
che gli è propria. – Per forza, disse.
– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è
esso a produrre le stagioni e gli
anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere
causa, in certo modo, di tutto quello
che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con
simili esperienze concluderà
così. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che
aveva colà e di quei suoi
compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del
mutamento e proverebbe pietà per loro?
– Certo. – Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si
scambiavano allora, e ai primi riservati
a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e
più rammentasse quanti ne
solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il
successivo, credi che li ambirebbe
e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e
potenza? o che si troverebbe
nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario
servir da contadino, uomo
sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere
quelle opinioni e vivere in quel modo?
– Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto
piuttosto che vivere in quel
modo.
– Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro
uomo ridiscendesse e si rimettesse
a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra,
venendo all’improvviso
dal sole? – Sì, certo, rispose. – E se dovesse discernere
nuovamente quelle ombre e contendere
con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha
la vista offuscata, prima
che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui
rifà l’abitudine fosse
piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si
direbbe di lui che dalla sua ascesa
torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di
tentare di andar su? E chi prendesse
a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non
l’ucciderebbero, se potessero averlo
tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose [...]”.
Platone
immagina, quindi, una caverna sotterranea ove vi sono degli uomini
incatenati, fin dall’infanzia, e costretti a guardare solo la
parete di fondo. Alle loro spalle brilla un fuoco, e, tra il fuoco e
i prigionieri, passano uomini che trasportano merci. I prigionieri
vedono le ombre e le scambiano per la realtà, se però uno schiavo
viene liberato, può finalmente vedere che quelle erano solo ombre, e
se esce dalla caverna può vedere le immagini delle cose reali
riflesse nell’acqua dei fiumi, e infine, gradualmente, può
giungere a contemplare direttamente il sole e la luna.
Questo
mito viene utilizzato da Platone per spiegare come si svolge la
conoscenza, la quale viene distinta in opinione (doxa) e scienza
(episteme).
Il
primo livello conoscitivo è l’immaginazione, ove le immagini
vengono prese per cose reali, liberatosi dei lacci si ha però la
credenza dell’esistenza di cose accanto a cose, e cioè la
conoscenza sensibile. Chi esce dalla caverna entra però, nel mondo
della scienza, e questo è il momento del discorso intellettivo, ove
si capisce che il ragionamento non è legato alla materialità;
l’ultimo gradino è la conoscenza libera da ogni riferimento ed
immagine sensibile.
Nella
Repubblica si afferma anche che le idee sono sottoposte al Bene, che
non è da intendersi come un'idea tra le idee, bensì come l’idea
delle idee.
Inoltre,
Platone asserisce la non esistenza del non-essere, nel senso che non
lo si deve contrapporre in modo assoluto all’essere, bensì si deve
intenderlo nel senso logico di diverso. Tutte le idee sono pertanto
legate da un nesso di identità e di diversità. A questi tre generi
sommi
delle idee: essere,
identico, diverso,
si aggiungono la
quiete e il moto.
La quiete per indicare la natura stabile ed immobile delle idee, il
moto per spiegare quella sorta di azione, e quindi di movimento, che
le idee subiscono in quanto oggetti di conoscenza.
Per
Platone, come già chiarito, non fa Filosofia chi è sapiente, e
neppure chi è del tutto ignorante, bensì colui che si sente in
stato di bisogno, di povertà, riguardo al sapere. Tale condizione di
sapienza e ignoranza è l’amore, come aspirazione e tensione alla
bellezza, in quanto ordine e armonia. Qui si ha la distinzione tra
amore terreno e amore celeste. Il primo è passionale, sensibile,
volto alle cose corporee; il secondo, invece, tende alla bellezza
compiuta, che mai non nasce e che mai non muore, né aumenta né
diminuisce. Tra i due amori esiste una gerarchia, per cui muovendo
dall’amore per le bellezze corporee ci si può, a poco a poco,
innalzare alla bellezza eterna.
Il
rapporto tra le diversi parte dell’anima è esposto nel Fedro.
L’anima viene rappresentata come un’auriga trasportata da due
cavalli, uno bianco e uno nero. L’auriga è l’anima razionale,
cui spetta la guida delle altre parti dell’anima, il cavallo bianco
è l’anima irascibile, ovvero l’anima da cui derivano gli impulsi
belli e nobili, il cavallo nero è l’anima concuscibile, ossia la
parte da cui derivano gli impulsi bassi e ciechi. Nella Repubblica
Platone afferma che la giustizia si distingue da altre virtù quali
sapienza, coraggio e temperanza. Compito della giustizia è infatti,
armonizzare queste virtù, in modo che non siano giusti solo i
cittadini, ma anche lo stato e viceversa. Si tratta quindi di
realizzare l’armonia di funzioni tra le classi dei cittadini che
corrispondono alle tre parti dell’anima:
- la classe dei reggitori o filosofi, corrispondente all’anima razionale;
- la classe dei guerrieri, corrispondente all’anima irascibile;
- la classe degli artigiani, corrispondente all’anima concuscibile.
Platone
afferma che gli uomini si distinguono tra loro per doti congenite, a
seconda che la loro anima sia d’oro, d’argento o di bronzo, e
predica la comunanza dei beni e delle donne, affinché la rivalità e
la cupidigia non incrinino la saldezza di queste classi. Inoltre, lo
stato non deve essere eccessivamente esteso né troppo popolato, per
evitare tendenze espansionistiche, fonte di guerre. Discute anche
delle cinque forme di stato effettivamente esistenti: aristocrazia,
timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide. Per ordine
decrescente: aristocrazia, governo di pochi, ovvero dei sapienti.
Questa può degenerare in timocrazia, ovvero quando si impongono i
capi bellicosi. Ciò porta alla ribellione dei poveri e quindi alla
democrazia, ovvero il governo non in base ai meriti, ma in base al
sorteggio. Tale aspirazione alla libertà porta ad un rifiuto ad ogni
forma di coordinazione. Si ha la tirannide, ove il governo passa alle
mani dei capi che vogliono mantenere il potere con la forza e la
paura.
Lo
stato deve occuparsi dell’educazione per garantire la giustizia,
ossia deve scegliere i governanti e li deve formare in maniera
adeguata, in base alle loro disposizioni naturali.
Platone
condanna l’arte in quanto mimesi di mimesi, nel senso che gli
oggetti terreni sono copie degli archetipi (idee) che abbiamo visto
nell'iperuranio. Di conseguenza l'arte è imitazione di imitazione.
Nel
Timeo si cerca di spiegare la genesi del mondo con il contrasto tra
due elementi astratti, ossia l'intelligenza
e la necessità.
L'intelligenza viene simboleggiato da un demiurgo (il costruttore),
che costruisce il mondo nello spazio vuoto (chora) componendolo di un
corpo
e di un'anima.
Il corpo è costituito dai quattro elementi empedoclei: aria, fuoco,
acqua, aria. L'anima, invece, è costituito dalle idee, preesistenti
al demiurgo. Il demiurgo ordina i quattro elementi secondo rapporti
aritmetici – geometrici, sulla base e ad imitazione delle idee, tra
le quali le più importanti sono l'essere, l'identico e il diverso.
Il primo corpo da cui derivano tutti gli altri è il triangolo, in
quanto chiude lo spazio entro tre rette.
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