martedì 29 maggio 2012

Cultura e filosofia tra il II sec. a.C. e il III d.C.


Notevolissima importanza ebbero nella cultura di Roma lo stoicismo, anche se questo si era profondamente trasformato rispetto all’insegnamento di Panezio (stoicismo medio) e di Posidonio. Panezio, nato a Rodi nel 180 a.C. , divenne capo della stoà di Atene nel 129, alla morte di Scipione.
Panezio riprende alcune tesi dello stoicismo e del platonismo, secondo cui ogni cosa che esiste è la dove è bene e giusto che sia, nel rispetto, quindi, di un rodine e di un'armonia prestabilita, immutabile ed eterna. Tutto è, conseguentemente, organizzato secondo gradi razionali, i quali sono il riflesso della ragione, che stabilisce dove ciascuno deve essere e come razionalmente deve porsi. Panezio respinge la teoria stoica dell’eterno ritorno. Nell’etica non accetta il rigorismo della morale stoica e ricerca una morale più duttile, adatta sia al saggio che all’uomo comune, con una valorizzazione dei bisogni concreti della vita.
Discepolo di Panezio fu Posidonio, il quale accolse influenze platoniche e diede la più grande sintesi del tardo stoicismo.
Per Posidonio l’essere coincide con il cosmo, per cui essere e universo sono la stessa cosa. Pertanto, l’ontologia si risolve nella fisica. All'origine del cosmo è il fuoco, concepito come la platonica anima mundi; attraverso il fuoco il cosmo si genera e si distrugge secondo la teoria stoica della conflagrazione e dell’eterno ritorno; specchio e sintesi del cosmo è l’uomo (microcosmo) in cui coesistono due principi: l’anima e il corpo. L’etica insegna non la soppressione delle passioni (parte irrazionale dell’anima) ma la loro purificazione e il loro controllo mediante la parte razionale dell’anima: in tal modo l’anima una volta liberata dal corpo ascende nel mondo celeste attraverso dei stati progressivi di purificazione. Nella storia umana, per Posidonio, l’uomo si raffina nei modi di vita, ciò però porta ad una progressiva corruzione morale, da cui si può salvare mediante la guida dei filosofi.
Notevole influenza ebbero sulla cultura romana i rappresentanti dell’ultima Accademia: Filone di Larissa e Antioco di Ascalona. Filone accentua l’importanza dell’evidenza immediata del sensibile come criteri di verità. Il sensibile non attinge l’essenza della realtà, ma offre però un criterio valido per la condotta. Antioco di Ascalona cerca di sintetizzare in un sistema armonico le maggiori tradizioni filosofiche antiche (platonismo, aristotelismo, stoicismo); egli, infatti, ritiene che tra tutte le scuole filosofiche è possibile ritrovare un nucleo di dottrine comuni, le quali costituiscono, per Antioco, il criterio di verità.
Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a.C. e muore nel 43 a.C. Tra le opere di più impegno si hanno: De Repubblica, De Le gibus, Brutus, Orator, Paradoxa, Stoicorum, Hortensius, Accademici libri, De Finibus bonorum et malorum, De Officiis, Tusculanae disputaziones, De Natura Deorum, De Divinatione, De fato, De Senectute, De amicizia. Nei suoi scritti, mediante l'esame e la discussione delle dottrine delle varie scuole filosofiche, si ha la ricerca non del vero, ma del verosimile e del probabile. Da ciò deriva una piena libertà di giudizio, un atteggiamento non dogmatico che comporta la rinuncia a cercare la verità ultima delle cose. A tale rinuncia si sopperisce con un impegno reale nella quotidianità di vita. Il sapere deve avere, pertanto, un’utilità; deve, in altre parole, servire per migliorare la vita degli uomini in società. In tale prospettiva appare chiaro anche il significato della retorica, che per Cicerone è sì lo strumento della comunicazione umana, ma anche ciò senza il quale il sapere resta sterile ed inutile.
Vi è un nucleo di dottrine che, però, Cicerone ritiene valide, perché sono fondate dal consenso universale, l'unico criterio di verità ritenuto valido. Il consenso universale ci induce a credere all’esistenza di Dio, al suo governo provvidente del mondo (secondo i temi stoici), alla natura immortale e divina dell’anima. Sul logos, sulla ragione si fonda la legge naturale, che ci offre un principio universale etico e che fonda la virtù. Quest'ultima può esser raggiunta solo se si seguono i dettami della ragione. La quale ci insegna che l'azione morale non ha un tornaconto, ma acquisisce significato in se stessa, perché si inserisce nell'armonia del logos e nell'ordine di esso. La virtù, pertanto, basta a se stessa: “non c’è per la virtù teatro più grande della coscienza”. Da ciò il concetto ciceroniano di onesto come ciò che va lodato per se stesso. Legato all’onesto è il conveniente, ovvero ciò che suscita l’approvazione degli altri. In tutto ciò consiste la felicità. Non dimentichiamo, inoltre, che il logos è sia divino che umano, dato il rapporto di parentela che secondo l’insegnamento stoico li unisce. Seneca riassume in sé l’atteggiamento proprio degli stoici romani del I sec d.C. Egli nasce a Cordova nel 4 a.C. Le opere pervenuteci sono: Consolatio ad Marciam, De Ira, Consolatio ad Helviam, Consolatio ad Polybium, Epigrammi, De Brevitate vitae, De Clementia, De Costantia Sapientis, De Vita Beata, De Otio, De tranquillitate Animi, De Providentia, De Beneficiis, Naturales Questiones, Epistulae morales ad Lucilium, Ludus De Morte Plaudii, detto Apocolocyntosis, cioè l’inzuccamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca. Venne condannato a morte nel 64 d.C. da Nerone.
Lo stoicismo di Seneca fu una scelta filosofica operata perché sembrava capace di proporre una meditazione ed equilibrio della perenne tensione delle passioni. Seneca ritrova nello stoicismo un ideale di vita, che lo porta, vivendo secondo ragione, a collocarlo nella sua armonia con il cosmo. In Seneca è fondamentale la convinzione che la ragione è il principio e il fondamento dell'armonia cosmica, la quale si riflette nell'uomo stesso, il quale deve seguirla per raggiungere un equilibrio, che è una conquista graduale, di cui egli stesso è il responsabile. La saggezza, per Seneca, più che nell’essere saggio consiste nel rendersi conto di non esserlo, e soprattutto nell’umiltà di saperlo confessare, in un atteggiamento di colui che mai deve essere e professarsi professore e maestro. Da un lato Seneca sa che la natura è quella che è, e che ciascuno è limitato; dall’altro lato, però, ha la consapevolezza che fino a che si resta frantumati e presi dalle proprie passioni si è schiavi, dominati, prepotenti, egoisti, non umani. Tutti possono essere servi e tutti padroni, poiché tutti, in quanto costituiti da ragione, possono tendere ed auspicare ad un ordine e ad una misura. I quest'ultima consiste la libertà, che coincide con il rispetto degli altri. Tale rispetto costituisce la societas. Seneca da un lato descrive con amarezza e pietà l’uomo triste e infelice, pieno di paura e combattuto; dall’altro delinea l’uomo come dovrebbe essere: vincitore di sé in quanto conflitto di passioni, coordinatore di queste in un equilibrio che è razionalità. Seneca giunge a prospettare le due città, la città degli uomini quali sono e la città degli uomini quali dovrebbero essere.
Filostrato nasce a Tiana, nella Cappadocia, allora provincia romana e visse nel I sec. d.C. Sua è l'opera dal titolo Vita di Apollonio di Tiana, in cui concepisce la filosofia come riflessione morale, come conoscenza di sé, del proprio animo, per riportarlo alla propria dignità, alla propria libertà e alla propria razionalità (cioè al divino); in opposizione alla corruzione dilagante, alle sfrenate passioni, al vivere irrazionalmente. Questa voglia di vivere in maniera dissoluta, propria dei suoi tempi e dei politici a lui contemporanei, spiega la paura dell’imperatore e di tutti quegli uomini che vivono di passioni di fronte alla filosofia.
Musonio Rufo nato nel 30 d.C. e morto non più tardi del 102 d.C. , sviluppa una filosofia secondo i canoni dello stoicismo e predica la formazione di un uomo virtuoso.
Epitteto nasce nel 50 circa a Ierapoli, nella Frigia. Da giovane fu condotto a Roma, ove venne liberato dalla schiavitù da Epafrodito, discepolo di Musonio. Dopo che tutti i filosofi vennero espulsi da Roma si recò a Nicopoli, ove morì tra il 125-130 d.C.
Epitteto non pretese mai di dare una esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina, ma, con un atteggiamento socratico e prendendo spunto dalle domande dei discepoli o da quesiti posti da chi si recava da lui per avere consigli, si intratteneva in discussioni brevi e serrate. Le conversazioni di Epitteto sono state raccolte dal generale romano Arriano di Nicomedia e pubblicate con il titolo di Diatribe.
Epitteto rifacendosi alla logica cinica e stoica sottolinea che la ragione è un “sistema di rappresentazioni diverse”, cioè il vero ed il falso non stanno nelle cose e neppure nelle rappresentazioni delle cose, ma nel saperle correttamente connettere, mediante i modi o condizioni del comune pensare (prenozioni). Irrazionale e passionale è chi viene preso di volta in volta da questa o quella rappresentazione, dando più peso a questo o a quella. Libero è chi sa ragionare, chi attua bene ciò che gli compete, sapendo recitare come si deve la sua parte nel dramma. Essere zoppo o diritto, maschio o femmina, ricco o povero non sono cose che dipendono da noi. Ciò che dipende da noi è sapere pensare, è sapere scegliere, essere liberi dall’errore, e quindi dalle opinioni, dagli interessi esclusivi.
Marco Aurelio, imperatore dell'impero romano, nasce a Roma nel 121 d.C. e muore, combattendo contro i Marcomanni e i Quadi, nel 180 d.C., presso Vindobona, l'odierna Vienna.
Marco Aurelio è profondamente convinto che tutto è secondo un ordine, cioè che tutto è come deve essere, inesorabilmente. Nello stesso tempo era consapevole del fatto che uomini e cose (sub specie aeternitatis) non valgono niente, e che l’unico senso sta nel sapere vivere bene, secondo ragione, realizzando la propria parte, secondo i dettami del ragionamento di Epitteto. Solo “scavando dentro se stessi” si può trovare, ogni volta, la giusta misura. Marco Aurelio, vicinissimo ad Epitteto, trasformò il suo atteggiamento di disprezzo per le cose in un atteggiamento opposto; in un amore per tutte le cose, in un rispetto per ogni uomo. L’opera di Marco Aurelio prende il titolo di A se stesso o Ricordi.
Filone (vissuto tra il 25 a.C. e il 41 d.C) prende il nome di Filone di Alessandria o Filone l’Ebreo. A questi si deve il primo tentativo di svolgere secondo le categorie filosofiche greche i grandi temi contenuti nel Vecchio Testamento. Importanza centrale nella sua opera assume la dottrina del logos, il Verbo di Dio-Uno, generatosi da se stesso nell’atto di conoscersi. Il logos è il luogo delle idee e degli archetipi platonici, da cui poi discende, mediante una serie di intermediari, secondo una gerarchia discendente, il molteplice e il mondo. Per Filone “è impossibile all’uomo percepire da se stesso l’Essere Assoluto, bisogna che l’Essere Assoluto si manifesti e si dimostri”. Dio si coglie con un attimo di visione, con l’occhio dell’anima. A Filone si deve l’applicazione sistematica al Vecchio Testamento di un metodo interpretativo che contrappone ad una interpretazione alla lettera, una interpretazione del senso allegorico o senso spirituale.
La più importante testimonianza della religiosità ellenistica di ambiente egizio è il Corpus Ermeticum, composto in un arco di tempo che va dal II a.C. al II-III d.C. . Del Corpus Ermeticum i due scritti più importanti sono il Pimandro e l’Asclepio. Gli scritti sarebbero stesi sotto dettatura del dio Hermes, il tre volte grande (tris magistros). La tradizione identifica il dio Hermes greco (dio della parola, interprete e messaggero di Zeus) con Thot egiziano (dio della parola e della scrittura). Queste sono le argomentazioni affrontate nel Corpus Ermeticumi: Dio è una realtà inconoscibile, a cui non si può accedere per via razionale, ma secondo un cammino di purificazione. Vertice della conoscenza è la gnosi, ovvero una conoscenza che trascende ogni discorso logico mediante una forma di intuizione che ci mette in contatto con la divinità. Conseguentemente, la conoscenza o gnosi è un dono di Dio. In tale prospettiva la filosofia coincide con la religione. L’uomo capace di gnosi è salvato dal ciclo fatale degli avvenimenti, dalle passioni, dal peccato e “diviene dio”. L’uomo però, mediante pratiche magiche e teurgiche può penetrare nel complesso delle forze che reggono il tutto per piegarle ai propri fini e a prorpio favore.
Numenio di Apamea visse nel II secolo d.C. e appartiene alla filosofia neoplatonica. Egli tenta una costruzione teologica che innesta concezioni platoniche e pitagoriche. L’Essere, Dio, è incorporeo, e si identifica con l’Uno e con il Bene. La sua natura rimane inconoscibile. Egli è il padre del secondo dio, il Demiurgo, che guardando il Padre genera in sé le idee e forma il mondo sensibile; quest’ultimo è il terzo dio che esprime in modo sensibile la bellezza del Padre. L’uomo, solo liberandosi da ogni molteplicità, può ritornare all’Uno e in tal modo unirsi al bene.
Plutarco di Cheronea, 46 d.C. e 125, scrisse Vite parallele e Opere morali, e oppone, secondo una concezione dualistica, al Bene il male che è la materia. Questi due principi contrari si combattono anche nell’uomo, perché contro l’anima razionale sta l’anima irrazionale, malvagia. Apuleio di Madaura, autore dell'Asino d’Oro, insieme ad Albino adotta il metodo aristotelico per spiegare e giustificare le istanze platoniche.

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