sabato 26 maggio 2012

Il sacrificio maya


I signori del sacrificio
Un rituale sempre presente

Nei primi decenni del XX secolo gli archeologi erano talmente presi dalla decifrazione dei glifi maya e dalla lotta con la voracità e pervasività della foresta, al fine di riconquistare le antiche rovine e piramidi, sicchè non ritenevano importante cercare risposte ad altre domande, pur essenziali per sviscerare la mentalità di questa civiltà; anzi, sino al 1950, l’archeologia maya era rimasta meramente descrittiva, ed evitava di cimentarsi in argomentazioni interpretative. Qualunque ipotesi appena rischiosa o audace veniva tacciata di fantasticheria, e ritenuta improponibile all’interno del contesto accademico. Probabilmente, un atteggiamento così rigido era considerato necessario da studiosi come Thompson e Morley, soprattutto perché la cultura maya era così misteriosa e interessata da una tale teoria di interrogativi, da prestarsi alle speculazioni di una gran massa di ciarlatani bramosi soltanto di fama e denaro.1 E tuttavia, dagli anni ’50 in poi, la valanga di proposte interpretative fu incontrollabile: in tale scenario si inseriscono M. Coe, David Webster, Martin Brennan, Pierre bequelin, Henri Sterlin, e, tra gli italiani, Adriano Forgione, Pietro Bandini, ed alcuni altri.
Una delle conquiste realizzate dalla ricerca archeologica post-anni ’50 è l’avere capito che i Maya, considerati per molto tempo dediti soprattutto allo studio dell’universo, non poterono sottrarsi al feroce rituale del sacrificio umano in favore degli dèi. E’ stato dimostrato, infatti, che le culture più sviluppate lo praticavano in tutta la meso-america; anzi, è certamente possibile che esso ebbe origine presso gli Olmechi, e che da essi, insieme al rituale del gioco della pelota, si sia diffuso tra tutte le altre popolazioni mesoamericane.2
La scoperta delle pitture murali in un piccolo edificio di Bonampak, nel Chiapas, che rapresentano una serie di scene rituali, conferma l’interpreta-zione che ritiene i Maya dediti al sacrificio anche nel periodo classico.3 
Le pitture murali di questo sito, risalenti all’ VIII secolo d.c., vennero scoperte nel 1946, dentro le tre camere di un edificio sito sulla prima terrazza dell’acropoli.4

Le scene della prima camera ineriscono i rituali dei preparativi di una spedizione di guerra: tra esse, alcune mostrano un gruppo di dignitari, tra cui il re e un bambino identificato come suo figlio5.
Nella seconda camera si svolge una scena di combattimento che occupa tre pareti. I guerrieri di Bonampak, armati di lance e con acconciature molto elaborate, attaccano e catturano gli avversari, che sono rappresentati disarmati e senza ornamenti, indubbiamente per sottolineare la loro condizione di vinti. Nell’immagine il sovrano afferra un prigioniero per i capelli, segno, questo, che presto verrà sgozzato; altri prigionieri hanno, invece, le mani bucate e sanguinanti, e per terra poggia una testa tagliata.6
Nella terza camera, invece sono rappresentati due assistenti che reggono una vittima sopra la quale sta il sacrificatore. Le scene vicine mostrano, invece, la famiglia del sovrano, che compie gli importanti riti di salasso.
Le prove archeologiche dell’immolazione di vittime umane risalgono sino al periodo pre-classico, e l’esistenza di campi da gioco già nei siti olmechi non fa che confermare la tesi dell’origine arcaica di questa cerimonia, anche se è innegabile che i sacrifici, con l’arrivo dei Toltechi e di gente messicana, aumentarono quantitativamente.7
Nella città di Yaxchilan, su un architrave di indubbio periodo classico, è rappresentata una donna che fa passare una corda irta di spine attraverso la propria lingua.8
Nel centro di Tikal i dignitari sono mostrati ornati di orecchini, collane, una specie di mantellina e portano, inoltre, grandi pettorali dalla foggia di volto umano e divino, ma anche placche con raffigurazioni collegate e al sacrificio, come il coltello di selce e il teschio.
A Toninà, invece, vi sono molteplici raffigurazioni del giaguaro che, patrono del sacrificio e della guerra, sembra sia stato la principale divinità della città. In questo sito i pannelli con scene di cattura o di prigionieri decoravano i muri esterni degli edifici. In uno di questi, vi è rappresentato un prigioniero legato, semidisteso, con le gambe piegate e appoggiandosi su un gomito, che guarda dietro di sé. La sua gonna è lacerata e la sua capigliatura è tagliata. Tali segni indicano che questi, probabilmente un sovrano di Palenque, presto verrà immolato.9
Il giaguaro, quando veniva connesso al sacrificio, era rappresentato, oltre che con le macchie nere, con la mascella inferiore scarnificata; sulla superiore, invece, si trova a ogni lato una spirale, mentre le fauci spalancate mostrano la lingua: stilizzazione del coltello di selce.10
Anche nella città di Pietras Negras esistono prove archeologiche della pratica, nel periodo classico, del sacrificio. Nella stele, contrassegnata dal numero 12, risalente al 700 d.c., il sovrano giudica un gruppo di prigionieri. Uno di questi, di rango elevato, ancora ornato di gioielli, è presentato mentre compie il gesto di sottomissione posando il braccio sinistro sulla spalla destra; gli altri prigionieri, invece, sono nudi e legati con corde.11
Anche a Copan vi sono architetture, risalenti al primo classico, con raffigurazioni a bassorilievo di sacrifici compiuti per la fine di un secolo maya di 52 anni.12
Nella città di Palenque si mostra, nel pannello detto del palazzo, l’avvento al trono di Kan Xul, figlio di Pacal. Qui, la madre del nuovo re offre su un piatto due oggetti rituali avvolti da un panno: uno scudo fatto con la pelle di un volto umano e una testa di creatura fantastica dal cranio di pietra tagliato irregolarmente. Questi oggetti, associati al sacrificio, sia di altri che della propria persona, si ritrovano sul Pannello degli schiavi, nel quale sono raffigurati due giovani prostrati, che formano il sedile del giovane sovrano. Non si tratta di schiavi, ma di prigionieri la cui condizione è indicata dalla posa e dai legami che li stringono nonchè da attributi simbolici come i capelli a coda di cavallo e i nastri alle orecchie.13
Come molti altri re, anche questo sovrano si afferma prima di tutto come capo militare, capace quindi di procacciare le vittime per il sacrificio, di cui si nutriranno gli dèi.
La presenza di altari con iconografie di carattere completamente sacrificale non fa che confermare la presenza del rituale, oltre che sottolinearne il
grande significato ricoperto nella cultura maya.
Interessante è il caso di un altare di Copan, che comprendeva un blocco centrale completato da quattro blocchi scolpiti e attaccati a metà di ogni lato. Sulle grandi superfici della scultura si identifica la maschera del giaguaro che, in quanto patrono del sacrificio, manca della mascella inferiore14, mentre la lingua-coltello sporge dalle fauci. Sui lati corti erano rappresentati due giaguari, oggi scomparsi.15
Sono stati rinvenuti anche vasi, fischietti e altri utensili con raffigurazioni di sacrifici o con simboli che si connettono ad esso.
Anche un vaso ritrovato nella tomba numero 10 di Tikal è associato solitamente dagli studiosi al sacrificio. Vi è effigiata una arcaica divinità, chiamata dagli esperti “vecchio dio”. Questo è raffigurato su un sedile composto di femori umani incrociati. La parte superiore, o coperchio, comprende la testa, le spalle e le braccia. La testa è cava e comunica con il corpo, la bocca sdentata è aperta; il vecchio, come una delle raffigurazioni del giaguaro notturno, è cieco. Piccole maschere, da cui pendono sonagli, ornano le braccia e le gambe. La divinità porta agganciata alla cintura una testa di serpente, priva della mascella inferiore; da quella superiore pende una lingua coltello, fiancheggiata da due spirali.16
Le prove archeologiche delle pratiche sacrificali maya ci appaiono sufficienti per capire che il contrasto tra “classici” pacifici e “postclassici” guerrieri e sanguinari non è più sostenibile: i Maya classici erano senza alcun dubbio altrettanto bellicosi, e praticavano il sacrificio umano quanto i loro successori. E se c’è stato un aumento quantitativo di esso, (e molto probabilmente c’è stato), ciò è da collegare alla decadenza politica ed economica, che provocò la paura di una fine del cosmo tra il popolo del mais, e quindi maggiore bisogno di sangue per saziare gli dèi. La discesa di Toltechi e Messicani comportò inoltre un inasprimento del rituale sino ad arrivare a dei veri e propri bagni di sangue.17
I soldati spagnoli, tuttavia esageravano, nei loro racconti, il numero di persone sacrificate agli dei. Andrei De Tapia, soldato di H. Cortes, racconta che, arrivato a Tenochtitlan18, trovò un altare di crani, presso il quale questi erano sospesi tramite pali che attraversavano le loro tempie. Il soldato aggiunge inoltre di avere contato i teschi così esposti, e afferma che il loro numero era di 136.000. Ciò è improbabile per almeno due motivi:
1) se collocassimo tutti i pali che sostenevano i crani uno di seguito all’altro in modo da far toccare gli estremi, otterremmo una lunghezza superiore ai 130 Km;
2) il fetore delle loro teste avrebbe dovuto risultare insopportabile nella città.19
Bisogna inoltre dire che anche a Tlatelolco20 è stato trovato un altare di crani con “soli” 170 teschi.
Le fonti spagnole dicono che per l’inaugurazione del Tempio Maggiore a Tenochtitlan nel 1487 il numero di vittime fu tra le 20.000 e le 80.400.
Le fonti precisano che le vittime vennero immolate in quattro giorni e in quattro templi differenti. Tenendo presente quest’ultimo dato, e supponendo l’esecuzione di un prigioniero al minuto, sarebbero stati necessari almeno 14 giorni per il primo caso e 50 per il secondo. Vi sono, inoltre, altri due fattori che rendono la fonte non attendibile e cioè:
  1. la seria possibilità che questo gran numero di persone potessero ribellarsi, dato che è difficile immaginare che tutti questi prigionieri fossero ansiosi di essere sacrificati;
  2. il problema di come disfarsi di questo gran numero di persone.
Il sacrificio fu, quindi, un rituale che interessò tutta quanta la storia maya, fin dalla sua origine e, a volte, raggiunse toni drammatici, senza mai però giungere alle assurde cifre di vittime riportate dai conquistadores. Questo rituale era così presente nella mentalità maya da resistere anche alla conquista spagnola. A tal proposito, abbiamo infatti prova che nello Yucatan, nel 1562, si officiavano vittime e ancora nel 1896, nella valle dell’Usumacinta, venne addirittura crocifisso un fanciullo21. Non è azzardato ipotizzare che il rituale tardò a morire perché gli indios lo inserirono nella nuova religione, il cristianesimo, portata dagli occidentali: il sacrificio di Cristo si prestava bene a tale rielaborazione.
L’omicidio sacro
Il valore del sacrificio: l’uomo e i suoi doveri verso l’universo


Come si vede nel racconto della creazione narrata dal Popol Vuh, allo stesso modo degli esseri umani, anche gli dei dovevano essere nutriti, infatti essi erano imperfetti, ed erano caratterizzati da molti dei difetti umani. Se, per esempio non pioveva, o se scoppiava un’epidemia, ciò accadeva per la loro stizza verso gli uomini, dovuta al fatto che si era trascurato di propiziarseli nel modo dovuto.22 Le loro preferenze andavano soprattutto al sangue umano, e più ancora, nel periodo post-classico, ai cuori palpitanti degli uomini. Il colore rosso ricopriva un significato mistico molto forte, in quanto, nella religione maya, esso rappresentava, essendo il colore del sangue, il colore della vita, tanto che anche le pareti delle tombe e perfino i defunti venivano tinti di questo colore, al fine di propiziare la vita ultraterrena.23
Il sacrificio aveva il fondamentale ruolo di risarcire gli dèi delle energie impiegate per il mantenimento dell’ordine cosmico. La terra, concepita come un essere vivente, utilizzava parte delle proprie forze per il sostentamento dell’uomo: conseguentemente, l’uccisione di un animale senza un motivo significativo era considerato il reato socialmente più grave. Per questo il cacciatore soleva appendere certe parti dell’animale ucciso, pungersi la lingua o il pene e spargere qualche goccia di sangue su di esse. Ammazzare un animale senza ragione era considerato un delitto poiché venivano sprecate parte di quelle energie che la terra impiegava per permettere la continuazione della vita dell’uomo stesso. L’indio, pertanto, quando cacciava, uccideva solo quegli animali di cui aveva realmente bisogno per il proprio sostentamento. Poi, ringraziata la divinità della caccia, compiva autosacrifici per rivitalizzare la madre terra. In poche parole, possiamo dire che sussisteva un patto assai rigido tra gli dei e gli uomini, che quest’ultimi non dovevano assolutamente disattendere. Gli dei erano generosi, ma per fare la loro parte dovevano mantenersi in forze, e solo il sangue, preferibilmente umano, li poteva sostenere.24
Il sacrificio nasceva dalla visione del mondo propria dell’indio, che fu sempre profondamente religiosa, tragica, pessimistica e fatalistica: la morte minacciava ogni cosa, perfino gli astri. Le costellazioni e i pianeti erano anch’essi delle divinità (il Popol Vuh ne narra la nascita) e, pertanto i sacerdoti officiavano sacrifici in loro favore.25 Afferma lo studioso Anthony Aveni che i mesoamericani credevano che gli dei erano gli antenati della famiglia reale, e che erano questi antenati a salvare il mondo dalla distruzione, attraverso il dono di sangue. Lo studioso conclude ritenendo che, oltre ad un motivo religioso, ci fosse anche un presupposto di natura pratica: mantenere un ordine sociale che potesse dare luogo ad una crescita materiale.26 E, in verità, a noi sembra che sia proprio quest’ultima funzione, non separabile da quella religiosa, il motivo principale delle immolazioni.
La selezione delle vittime avveniva sia con la forza, tra la popolazione che doveva il tributo, sia attraverso l’autosacrificio di una persona nobile. In nessun caso la vittima poteva rinunciare, poiché il valore del rito era sociale e collettivo, giacchè permetteva il mantenimento del cosmo e dell’intera comunità.27
Così, pur senza ritenersi il centro dell’universo, l’uomo maya aveva l’impressione di detenere una piccola parte di responsabilità e si rendeva conto che era necessario evitare che il mondo perisse a causa della propria negligenza. Egli si riteneva colui che ristabiliva il necessario equilibrio tra la vita e la morte. Tutta la religione si basava sul principio che si “produceva” la vita con la morte e che persino gli astri erano grandi divoratori di cuori umani. Senza alcun dubbio, il sacrificio umano rappresentava l’offerta suprema. In tal senso, ci si conformava al dogma che affermava che non si poteva mantenere la vita del tutto se non donandola, cioè immolando.28 Si potevano sacrificare anche animali come uccelli, tacchini, daini ma, contemporaneamente, era di gran lunga più preferibile sacrificare un umano, e non aveva importanza se si trattava di un adulto o di un bambino, di un maschio o di una femmina.29
L’uomo maya del periodo classico riteneva che le forze del disordine fossero fondamentalmente atemporali e onnipresenti e, quindi, che addirittura neanche gli dèi, che avevano i propri limiti, potevano controllarle. In un cosmo simile, una società ordinata non poteva esistere né essere mantenuta se non tramite opere e impegni particolari, e con la dovuta attenzione a divinità e antenati. Il mondo o la comunità, dotati del giusto ordine, erano paragonati al campo di mais di forma quadrata. Tra l’altro nella mentalità mesoamericana vigeva un forte contrasto tra quegli aspetti dell’ambiente che erano “addomesticati” o “coltivati” dall’uomo e le foreste circostanti, che potevano essere caotiche, imprevedibili e persino sinistre. Il dono di sangue ricopriva il ben preciso ruolo di scongiurare il ritorno dell’ “addomesticato” al caotico e imprevedibile30.
Il sacrificio comportava spesso l’estrazione del cuore, organo dai Maya considerato il centro della vita dell’essere umano: là dove trae origine la coscienza illuminata. Per questo motivo nella lingua simbolica e pittorica cuore e penitenza erano continuamente associate: le figure mostrano spesso cuori trafitti oppure gocciolanti sangue, a indicare le penitenze necessarie a purificare la coscienza.
Un saggio indigeno di Tlaxcola riassume chiaramente la funzione sociale del sacrificio, dicendo: “non possiamo concepire l’idea di un vero sacrificio, se qualcuno di noi non muore per la salvezza degli altri.”
Su questa motivazione del rituale presso i Mesoamericani sono fondamentalmente d’accordo i massimi studiosi di questi popoli.
Secondo Thompson, la vita del sole era assicurata dall’immolazione di vittime umane e con questo era pure assicurata la vita dell’intero universo.31 I Maya, scrive lo studioso, pensavano che gli dei di anno in anno invecchiassero e si indebolissero, insieme alla natura, e perciò con sacrifici si cercava di farli ringiovanire.
Gli esseri umani votati al sacrificio” afferma W. Krickeberg, “non erano il nutrimento degli dei, ma erano considerati essi stessi dei che dovevano essere uccisi per potersi destare a nuova vita con rinnovata operosità”.32
In tale visione si inquadrano i sacrifici compiuti alla fine del secolo maya, quando cioè le date dei due calendari (Tzolkin e Haab) venivano a combaciare e a sovrapporsi. In tale ricorrenza, veniva celebrata una cerimonia, chiamata “legatura degli anni”,33 durante la quale si accendeva il “Fuoco nuovo” e, i sacerdoti, credendo che il mondo potesse annichilirsi e ritornare al caos, salivano su un colle per osservare il firmamento, in cerca di un segnale che indicasse che il loro mondo avrebbe continuato a vivere per un altro secolo. Se dopo la mezzanotte non accadeva nulla di anomalo si procedeva all’esecuzione di sacrifici, per offrire il cuore al sole, e si accendeva un fuoco sul petto della vittima.34
Anche i sacrifici compiuti alla fine dell’anno, durante i cinque giorni considerati nefasti, senza nome e divinità che li presiedessero, si inseriscono nella concezione che riteneva il tempo dell’uomo “aperto” al sacro, cioè favorevole al contatto con l’assoluto e il sovrumano.35
Come abbiamo avuto già modo di accennare diffusamente in questa tesi, il sacrificio, sebbene cruento, non era mai crudele, non era cioè la conseguenza di una perversione o di una cattiveria, ma era l’unica maniera che, trascendendo il reale, permetteva l’incontro spirituale con la divinità: il mezzo reale per il mantenimento del patto avvenuto durante la quarta e ultima creazione.36
L’uomo assume la funzione di inizio e fine del cosmo. Il Maya, infatti, rappresenta il gradino più alto della creazione, colui che inizia il processo di mantenimento del ciclo della vita con il dono del proprio sangue, nonchè colui che mette fine agli sforzi degli dei nella ricerca della costruzione di un essere che si occupi e preoccupi del loro sostentamento.37
Vi sono, tra gli studiosi, due correnti di pensiero circa il sacrificio, una detta umanista e l’altra detta materialista. La prima si inserisce fondamentalmente nel discorso da noi portato avanti, la seconda vede invece il sacrificio come risultato di un’esigenza nutritiva, dettata dal fatto che i Maya erano divenuti cannibali al fine di supplire alla mancanza di carne nella loro dieta.
Il sacrificio, quindi, per i materialisti non era dettato da un’esigenza spirituale ma bensì da un bisogno pratico.38 Vedremo di chiarire le linee fondamentali di questa teoria nel prossimo paragrafo.
Uno degli elementi più importanti ed evidenti in questi riti è l’unione dei due opposti di vita e morte. Il concetto dialettico secondo il quale l’esistenza avverrebbe attraverso la lotta e la simbiosi dei contrari venne teorizzato dagli indios già da molto tempo.
Gli animali associati al sacrificio sono i serpenti, i coccodrilli, i rospi, le tartarughe, le chiocciole, i molluschi, i giaguari e alcune piante, come le ninfee.39 Questi animali si connettono al rituale perché, nella mentalità maya, lo rappresentano metaforicamente. Il sacrificio svolgeva l’importante funzione della trasformazione, che viene vissuta sia dal serpente, che con il passaggio di una stagione all’altra cambia la propria pelle, sia dalla farfalla
che da larva si trasforma in un essere in grado di volare e di elevarsi in cielo. Questo insetto, con la sua morte-rinascita, riassume in sé il significato mistico del sacrificio, che nasce anche dall’osservazione che i due punti apparentemente opposti (vita e morte) sono in verità così interrelati che non possono esserci l’uno senza l’altro. Il rospo, la tartaruga e il coccodrillo sono esseri duali, che uniscono gli opposti, infatti sono animali che vivono come sulla terra così nell’acqua. Non è difficile stabilire il nesso nemmeno con il giaguaro, dato che questo, secondo M. Coe, vive lungo i corsi d’acqua: esso è un eccellente nuotatore e l’acqua fa parte del suo habitat naturale. Inoltre il giaguaro rappresenta la terra e le sue fauci l’ingresso dell’interregno, Xibalba, luogo degli antenati defunti che, trovandosi più vicini agli dei, rivestono l’importante ruolo di mediatori e di sostenitori del cosmo.40
La ninfea è un fiore i cui steli affondano le radici nella terra, mentre la corolla si pone a pelo d’acqua: si tratta, quindi, di un essere duale, che unisce gli opposti, come la tartaruga , il rospo, la farfalla e il coccodrillo.
Stessi ragionamenti sono proponibili per i molluschi che, pur essendo acquatici, non nuotano e si spostano sul fondale marino.
Inoltre, tornando alle ninfee, va precisato che i loro rizomi sono allucinogeni. Tale peculiarità, poco conosciuta, ci conduce ad un altro motivo della sua connessione con il sacrificio: l’impiego di alteratori della coscienza per accedere a una realtà differente.41
Durante il periodo tolteco-messicano diviene preponderante il culto di Kukulcan, il serpente piumato archetipale, dall’aspetto duale, che unisce gli opposti giacchè congiunge le energie terrestri (serpente) con quelli celesti (l’uccello di quetzal)42.
Il principio morte-rinascita non è fondato solo sul sacrificio degli altri ma anche, e soprattutto, di se stessi, e ciò perché, tra i Maya, il sacrificio del fedele era indispensabile affinché la divinità rinascesse nell’uomo attraverso la morte mistica dell’uomo stesso. Nei miti maya si ritiene che gli dei creatori avessero generato gli esseri umani dal bianco mais e dal proprio sangue sacrificale; inoltre, nel Chilam Balam l’universo nasce dalla Pietra Preziosa ( la giada) che, come già detto, rappresenta, con il suo verde il mais non ancora maturo. L’insistenza sul mais era finalizzata a rafforzare il concetto di sacrificio di se stessi, poiché se il seme non muore, non porta frutto, ossia non si rigenera.43
Come il sacrificio del dio, per i maya, genera l’uomo, parimenti, il sacrificio dell’uomo porta alla rinascita del dio.

La teoria materialista

Il cannibalismo pur non essendo un rituale molto diffuso nel periodo maya classico, divenne presente nel periodo tolteco-messicano. La vittima, a cui veniva strappato il cuore, veniva divisa tra i sacerdoti e il popolo in un cruento pasto dal carattere religioso.
Il quotidiano “La Stampa”44 del 25 novembre del 1998 riporta un articolo scritto dal professore Aldo Rullini. Questi affermava che i Maya erano stati cannibali per necessità, in quanto in Messico e dintorni mancavano le proteine, dal momento che c’erano pochi animali domestici e commestibili.
I Maya e gli Aztechi si trovarono, pertanto, costretti ad immolare vittime per soddisfare il loro bisogno fisiologico. I mesoamericani, quindi, organizzavano incursioni belliche per catturare moltissimi prigionieri, i quali venivano in seguito smembrati per essere distribuiti al popolo e mangiati. I sacrificati non potevano comunque soddisfare il fabbisogno proteico di tutto il popolo. Contava però che la classe dirigente, i sacerdoti e i militari, potessero usufruire di queste proteine.
La teoria materialista nasce nel 1977 ad opera di Michael Harner.45 Questo studioso affermò che i mesoamericani avrebbero praticato il cannibalismo per ottenere le proteine animali essenziali al fabbisogno umano.
La teoria trovò degli oppositori come il dottore R.Ortiz de Mantellano, il quale obiettò che i Maya avrebbero potuto trovare gli aminoacidi necessari da alcuni vegetali. Il loro rituale era pertanto da spiegare come ringraziamento alle divinità per la fertilità del suolo.46 A dare ragione all’ipotesi di Mantellano si avevano due fatti:

  1. il cannibalismo, avvenendo in concomitanza con il raccolto di mais, poteva essere, plausibilmente, spiegato come un modo per ringraziare gli dei per la loro benevolenza.
  2. Si è capito, tramite osservazioni di carattere scientifico, che i problemi alimentari più importanti, causati da un continuo uso di mais, come la deficienza di niacina, (la vitamina che previene la pellagra), e la deficienza degli aminoacidi lisina e triptofano, erano stati, dai mesoamericani, del tutto risolti. Infatti la niacina si conservava nei chicchi di mais grazie ad una particolare cottura di questa pianta, consistente nel cuocere i chicchi in acqua di calce ed essiccarli prima della macinatura. Mentre altri vegetali, come il fagiolo, potevano fornire la sufficiente quantità di lisina e triptofano. In tal modo si ottenevano le sufficienti quantità di aminoacidi per la sintesi proteica dell’individuo.47

Il professore Michele Ernandez (e altri) riferisce però nel suo studio “Aztec Cannibalism and Maize Consumpition”, che altri ricercatori, alcuni anni prima, avevano dimostrato che il consumo di mais può provocare un’altra deficienza più complessa di una semplice mancanza di aminoacidi: quella della serotonina (un importante neurotrasmettitore celebrale).
La carenza di serotonina, afferma Ernandez, provoca il comportamento trasgressivo e il fanatismo ideologico/religioso48.
Lo studio del professore Ernandez non verte solo su una interpretazione materialista ma, coniuga tutte quelle istanze che fino a qualche tempo prima venivano considerate in contrasto ed esclusive l’una con l’altra.
Infatti il sacrificio mesoamericano va studiato da tutti i punti di vista; religioso, sociale, economico ed ecologico. Questi vari livelli di ricerca, divenendo complementari, danno una più completa spiegazione del perché gli Aztechi e i Maya sacrificavano.
A ragione di ciò il professore Ernandez afferma:

“pensiamo, in verità, che i fenomeni religiosi, mostrando numerosi aspetti, possono essere studiati a vari livelli: un primo livello di ricerca può riguardare le fasi biologiche, neurologiche o etologiche del pensiero religioso[…]; un secondo livello, fenomenologico-strutturale, la relazione di subordinazione degli esseri umani rispetto agli esseri divini, o l’idea che il sacrificio sia il mezzo principale per comunicare con loro[…];un terzo livello, le relazioni tra strutture sociali e particolari forme di credenze e rituali[…]; un quarto livello, quello economico-ecologico, i beni materiali usati per i rituali religiosi […]: i beni per i sacrifici sono di certo diretti alle divinità, ma sono poi generalmente consumati dagli esseri umani. Questi quattro livelli coesistono ed interagiscono[…] ”.49

La teoria di Ernandez parte dal punto di vista del materialismo culturale e della neurobiologia per divenire anche un fertile punto di partenza di tutti gli altri livelli sopra accennati.
La deficienza di serotonina può essere causata da un’alimentazione basata sul mais. In pratica, tale dieta può modificare l’attività funzionale di un gruppo di neuroni celebrali. Il mais, come abbiamo abbondantemente scritto, è stato un alimento basilare nella alimentazione quotidiana dei maya, e, dei mesoamericani in genere. Ora, è logico pensare che la deficienza di serotonina diveniva massima quando, scrive Ernandez, “il nutrimento dipendeva prevalentemente dal mais[…]”. E Ciò, accadeva dopo la stagione del raccolto. Nel momento in cui il mais era particolarmente abbandonate, e, invece, diveniva scarso la quantità di altri cibi, come l’amaranto, che permettevano un incremento di serotonina.
Il professore Ernandez enuclea una serie di conseguenze comportamentali causate da una deficienza di serotonina.
Essi sono:
  1. comportamento aggressivo. Cioè esseri non uccisori, in special modo maschi, assumono comportamenti aggressivi.50
  2. Incremento della competizione o dell’aggressività intraspecifica. Un consumo di mais al di sopra della media induce a comportamenti aggressivi e a violenze nei rapporti interpersonali.51
  3. Pensiero magico e accentuato fanatismo religioso. Mandell nel 1980 osservò che esiste una correlazione tra sentimenti mistici e carenza di serotonina. Inoltre il fanatismo religioso può essere causato da un mal funzionamento della trasmissione serotoninergica. Pertanto la carenza di serotonina può implicare il pensiero magico. Un bassa sintesi di serotonina rende l’individuo maggiormente sensibili verso le droghe. I Maya, nei riti sciamanici, facevano uso di un fungo allucinogeno, che poteva provocare delle allucinazioni simili agli stati estatici di cui parlavano i chilam. Le visioni spesso erano dei veri e propri incubi. Secondo il Professore Ernandez “ tali visioni erano probabilmente all’origine delle orrifiche sembianze della maggior parte delle divinità[…].52
  4. Crudeltà dei riti. La deficienza di serotonina, provoca dei fenomeni chimici, che danneggiano la funzione della corteccia pre-frontale, riducendo, in tal modo, la normale capacità di immedesimazione nel dolore e nelle sofferenze altrui.53
  5. Epilessia nel lombo temporale. La riduzione del tono serotoninergico, secondo Gazzaniga, causa un intensificarsi della credenza religiosa ed un eccentrico comportamento sessuale (non necessariamente contemporaneamente). Negli USA, alcuni casi clinici, in cui questa malattia si manifesta in maniera cronica, mostrano un aumento di intensità nella fede religiosa e un rapido passaggio, senza motivo apparente, da un credo ad un altro. Sappiamo che i Maya avevano un pantheon religioso enormemente complesso, tanto che gli studiosi tutt’ora non riescono a dare un numero sicuro delle loro divinità . Inoltre alcuni esseri supremi vennero presi dalle culture vicine, come il culto nel dio Xipe Totec (di origine messicana).54
  6. Culto e attrazione per il fuoco. Un basso tono serotoninergico è stato osservato nei piromani. Il fuoco, chiarisce il professore Michele Ernandez,55

“è presente in un ampio numero di religioni nelle quali assume il valore magico e simbolico di purificazione, di agente punitivo o di simbolo della vita”.56

Per i Maya il fuoco ricopriva un valore mistico molto importante.
Lo studioso Winkelman chiarisce che:

“l’assenza di ogni sacrificio (si nota) solamente nelle società di cacciatori e raccoglitori; il sacrificio umano[…]si trova nelle società agricole complesse piuttosto che in quelle semplici, ma non nelle società pastorali ”.57

Quest’affermazione è perfettamente in sintonia con quello che afferma il dottor Ernandez, e cioè:

“le società di caccia e raccolta hanno a disposizione cibo con alto valore di R, quelle agricole hanno cibo con un basso valore di R o con un alto contenuto di tyr o phe [tutte sostanze che portano ad una insufficiente sintesi di serotonina]. Nelle società agricole si possono più facilmente verificare situazioni (alimentari) che, direttamente o indirettamente, in modo continuo o discontinuo, possono causare una carenza di serotonina”.58

Gli Aztechi ebbero una religione molto più cruenta rispetto a quella dei maya. I messicani si distinsero infatti per avere compiuto dei veri e propri bagni di sangue. I maya invece mantennero sempre come forma di sacrificio fondamentale l’autosalasso, e il cannibalismo rimase un rituale marginale. Il professore Ernandez spiega questa diversità rituale con queste parole:

Il mais fu un alimento importante per i Maya, ma anche se essi erano molto religiosi con i sacrifici umani e aggressivi, non sembra siano stati cannibali. Sembra che essi avessero una maggiore disponibilità di cibo con un alto valore di R, rispetto agli Aztechi.[…] Nel X secolo i Toltechi provenienti dal Messico centrale occuparono lo Yucatan. All’inizio loro praticarono il sacrificio umano e forse il cannibalismo. Successivamente si comportarono come i Maya. È ragionevole supporre che inizialmente essi conservarono i comportamenti tipici delle popolazioni del Messico centrale e che in seguito lo modificarono grazie all’alto valore di R del cibo Maya.59

In definitiva possiamo dire che anche i Maya, come gli Aztechi, si distinsero per avere adottato dei comportamenti rituali cruenti, e molto probabilmente compirono atti di cannibalismo, senza mai raggiungere però i bagni di sangue dei messicani. Ciò perché i Maya pur consumando una grande quantità di mais, che provocava un’insufficiente sintesi di serotonina, avevano dei cibi che riuscivano in parte ad equilibrare tale deficienza.
1 Cfr. “I Misteri di Hera, Misteri dell’antico Messico”, bimestrale n.5, Anno II, Edizioni Hera, Roma Gennaio-Febbraio 2005, passim.
2 Cfr. Ibidem, articolo di Juan Josè-Botalla Rosado, L’Omicidio Sacro, cit., pag. 96.
3Cfr. Claude Francois Baudez - Pierre Becquelin, L’America precolombiana, I Maya, Rizzoli Editore, Milano 1998. (1.a ed. italiana nella collana “ Il mondo della figura ”), cit., pagg. 105-110. Titolo dell’opera originale: Les Mayas, editions Gallimard, Paris 1984.
4 Cfr. ibidem.
5 Cfr. ibidem.
6 Cfr. ibidem.
7 Cfr. ibidem.
8 Cfr. ibidem, pagg. 98-102.
9 Cfr. ibidem, pagg. 139-144.
10 Cfr. Ibidem, passim.
11 Cfr. ibidem, pagg. 91-98.
12 Cfr. ibidem, pagg. 145-174.
13 Cfr. ibidem, pagg. 117-139.
14 La scarnificazione della mascella era un rituale molto in uso tra i Maya.
15 Cfr. Claude Francois Baudez-Pierre Becquelin, op. cit., pagg. 161.
16 Cfr. ibidem, pag. 71.
17 Cfr, “I Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè-Botalla Rosaldo, L’Omicidio Sacro, riv. cit,. pagg. 96-98.
18 Capitale dell’impero azteco.
19 Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè-Botalla Rosaldo, L’Omicidio Sacro, riv. cit. pag. 100.
20 Importante centro religioso azteco secondo solo a Tecnochtitlanli.
21 Cfr. Eric Thompon, op. cit., pag. 297.
22 Cfr. Guglielmo Guerriglia, Messico, Le piramidi degli dei, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1982, cit., pag.46.
23 Cfr. Victor Wolfgang von Hagen, op. cit., pag 225-226.
24 Cfr. Guglielmo Guariglia, op. cit., passim.
25 Cfr. Guy Annequin, op. cit., pag. 186.
26 Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Francesco Garufi, Architettura Maya: il volto delle stelle, riv. cit., pagg. 68-69.
27 Cfr. Ibidem.
28 Cfr. Guy Annequin, op. cit., pagg. 184-186.
29 Cfr. ibidem.
30 Cfr. David Webster, op. cit. pagg. 167-172.
31 Cfr. Guglielmo Guariglia, op. cit., pag. 98.
32 Ibidem, pag. 100.
33 Cfr. ibidem, pag. 100.
34 Cfr. “i Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè- Botalla Rosado, L’omicidio sacro, riv. cit., pagg. 98, 99.
35 Ibidem.
36 Cfr. Guy Annequin, op. cit., pagg- 198-204.
37 Tutti gli autori da noi trattati spiegano il sacrificio con tale motivazione.
38 Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè-Botalla Rosado, L’Omicidio Sacro, riv. cit., pag. 100.
39 Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Maria Teresa Uriarte, Pratica e simboli del gioco della pelota, riv. cit., pagg. 56-61.
40 Cfr. ibidem, ma cfr. anche “Hera, Civiltà scomparse, Misteri Archeologici”, mensile n. 58, anno V, , Hera Edizioni, Novembre 2004, articolo di Adriano Forgiane, Olmechi, Sacerdoti e Nagual, cit., pagg. 23-27. Cfr. inoltre Martin Brennan, op. cit., pagg. 114,115; 170,171; 238,239; 251,252 e 255. Cfr. infine Adrian Gilbert - Maurice M. Cotterell, Le profezie dei Maya, Corbaccio, Milano, Giugno 2000, (1.a. ed. Mandala), pagg. 146-147 e 240-241. Titolo originale: The Maya Prophecies.

41 Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Maria Teresa Uriarte, Pratica e simboli del gioco della pelota, riv. cit., pagg. 60, 61.
42 Cfr. Adrian Gilbert- Maurice M. Cotterell, op. cit. pag. 240.
43 Cfr. Guglielmo Guariglia, op. cit., pagg. 98-100, ma anche cfr. Martin Brennan, op. cit., pag. 79. Cfr. inoltre Pietro Bandini, op. cit., pagg. 32-33. Cfr. infine Eric Thompson, op. cit., pag. 291.
44 “La Stampa” quotidiano, 25 Novembre, articolo di Aldo Rullini, I Maya, Cannibali per necessità, passim.
45Michele Ernandes, Rita Cedrini, Marco Giammanco, Maurizio La guarda e Andrea Milazzo, Aztec Cannibalism and Maize Consumption: The Serotonin Deficiency Link. Proof-June 2002, cit., pag. 3.
46 Cfr. ibidem.
47 Cfr. ibidem, pagg. 7, 8.
48 Cfr. ibidem, pagg. 15-17
49 Ibidem, pagg. 3, 4.
50 Cfr. ibidem, pag. 15
51 Cfr. Ibidem.
52 Cfr. ibidem, pag. 16
53 Cfr. ibidem.
54 Cfr. ibidem.
55 Cfr. ibidem, pag. 17.
56 Ibidem, pag. 17.
57 Ibidem, pag. 20.
58 Ibidem.
59 Ibidem, pag. 25.

3 commenti: