I
signori del sacrificio
Un rituale sempre presente
Nei
primi decenni del XX secolo gli archeologi erano talmente presi dalla
decifrazione dei glifi maya e dalla lotta con la voracità e
pervasività della foresta, al fine di riconquistare le antiche
rovine e piramidi, sicchè non ritenevano importante cercare risposte
ad altre domande, pur essenziali per sviscerare la mentalità di
questa civiltà; anzi, sino al 1950, l’archeologia maya era rimasta
meramente descrittiva, ed evitava di cimentarsi in argomentazioni
interpretative. Qualunque ipotesi appena rischiosa o audace veniva
tacciata di fantasticheria, e ritenuta improponibile all’interno
del contesto accademico. Probabilmente, un atteggiamento così rigido
era considerato necessario da studiosi come Thompson e Morley,
soprattutto perché la cultura maya era così misteriosa e
interessata da una tale teoria di interrogativi, da prestarsi alle
speculazioni di una gran massa di ciarlatani bramosi soltanto di fama
e denaro.1
E tuttavia, dagli anni ’50 in poi, la valanga di proposte
interpretative fu incontrollabile: in tale scenario si inseriscono M.
Coe, David Webster, Martin Brennan, Pierre bequelin, Henri Sterlin,
e, tra gli italiani, Adriano Forgione, Pietro Bandini, ed alcuni
altri.
Una
delle conquiste realizzate dalla ricerca archeologica
post-anni ’50 è l’avere capito che i Maya, considerati per molto
tempo dediti soprattutto allo studio dell’universo, non poterono
sottrarsi al feroce rituale del sacrificio umano in favore degli dèi.
E’ stato dimostrato, infatti, che le culture più sviluppate lo
praticavano in tutta la meso-america; anzi, è certamente possibile
che esso ebbe origine presso gli Olmechi, e che da essi, insieme al
rituale del gioco della pelota, si sia diffuso tra tutte le altre
popolazioni mesoamericane.2
La
scoperta delle pitture murali in un piccolo edificio di Bonampak, nel
Chiapas, che rapresentano una serie di scene rituali, conferma
l’interpreta-zione che ritiene i Maya dediti al sacrificio anche
nel periodo classico.3
Le pitture murali di questo sito, risalenti all’ VIII secolo
d.c., vennero scoperte nel 1946, dentro le tre
camere di un edificio sito sulla prima terrazza dell’acropoli.4
Le
scene della prima camera ineriscono i rituali dei preparativi di una
spedizione di guerra: tra esse, alcune mostrano un gruppo di
dignitari, tra cui il re e un bambino identificato come suo figlio5.
Nella
seconda camera si svolge una scena di combattimento che occupa tre
pareti. I guerrieri di Bonampak, armati di lance e con acconciature
molto elaborate, attaccano e catturano gli avversari, che sono
rappresentati disarmati e senza ornamenti, indubbiamente per
sottolineare la loro condizione di vinti. Nell’immagine il sovrano
afferra un prigioniero per i capelli, segno, questo, che presto
verrà sgozzato; altri prigionieri hanno, invece, le mani bucate e
sanguinanti, e per terra poggia una testa tagliata.6
Nella terza camera, invece sono
rappresentati due assistenti che reggono una vittima sopra la quale sta il sacrificatore. Le
scene vicine mostrano, invece, la famiglia del sovrano, che compie
gli importanti riti di salasso.
Le
prove archeologiche dell’immolazione di vittime umane risalgono
sino al periodo pre-classico, e l’esistenza di campi da gioco già
nei siti olmechi non fa che confermare la tesi dell’origine arcaica
di questa cerimonia, anche se è innegabile che i sacrifici, con
l’arrivo dei Toltechi e di gente messicana, aumentarono
quantitativamente.7
Nella
città di Yaxchilan, su un architrave di indubbio periodo classico, è
rappresentata una donna che fa passare una corda irta di spine
attraverso la propria lingua.8
Nel centro di Tikal i dignitari sono mostrati ornati di
orecchini, collane, una specie di mantellina e portano,
inoltre, grandi pettorali dalla foggia di volto umano e divino, ma
anche placche con raffigurazioni collegate e al
sacrificio, come il coltello di selce e il teschio.
A
Toninà, invece, vi sono molteplici raffigurazioni del giaguaro che,
patrono del sacrificio e della guerra, sembra sia stato la principale
divinità della città. In questo sito i pannelli con scene di
cattura o di prigionieri decoravano i muri esterni degli edifici. In
uno di questi, vi è rappresentato un prigioniero legato,
semidisteso, con le gambe piegate e appoggiandosi su un gomito, che
guarda dietro di sé. La sua gonna è lacerata e la sua capigliatura
è tagliata. Tali segni indicano che questi, probabilmente un sovrano
di Palenque, presto verrà immolato.9
Il
giaguaro, quando veniva connesso al sacrificio, era rappresentato,
oltre che con le macchie nere, con la mascella inferiore
scarnificata; sulla superiore, invece, si trova a ogni lato una
spirale, mentre le fauci spalancate mostrano la lingua:
stilizzazione del coltello di selce.10
Anche
nella città di Pietras Negras esistono prove archeologiche della
pratica, nel periodo classico, del sacrificio. Nella stele,
contrassegnata dal numero 12, risalente al 700 d.c., il sovrano
giudica un gruppo di prigionieri. Uno di questi, di rango elevato,
ancora ornato di gioielli, è presentato mentre compie il gesto di
sottomissione posando il braccio sinistro sulla spalla destra; gli
altri prigionieri, invece, sono nudi e legati con corde.11
Anche
a Copan vi sono architetture, risalenti al primo classico, con
raffigurazioni a bassorilievo di sacrifici compiuti per la fine di un
secolo maya di 52 anni.12
Nella
città di Palenque si mostra, nel pannello detto del
palazzo, l’avvento al trono di Kan
Xul, figlio di Pacal.
Qui, la madre del nuovo re offre su un piatto due oggetti rituali
avvolti da un panno: uno scudo fatto con la pelle di un volto umano e
una testa di creatura fantastica dal cranio di pietra tagliato
irregolarmente. Questi oggetti, associati al sacrificio, sia di altri
che della propria persona, si ritrovano sul Pannello
degli schiavi, nel quale sono raffigurati due
giovani prostrati, che formano il sedile del giovane sovrano. Non si
tratta di schiavi, ma di prigionieri la cui condizione è indicata
dalla posa e dai legami che li stringono nonchè da attributi
simbolici come i capelli a coda di cavallo e i nastri alle orecchie.13
Come
molti altri re, anche questo sovrano si afferma
prima di tutto come capo militare, capace quindi di procacciare le
vittime per il sacrificio, di cui si nutriranno gli dèi.
La
presenza di altari con iconografie di carattere completamente
sacrificale non fa che confermare la presenza del rituale, oltre che
sottolinearne il
grande
significato ricoperto nella cultura maya.
Interessante è il caso di un altare di
Copan, che comprendeva un blocco centrale completato da quattro
blocchi scolpiti e attaccati a metà di ogni lato. Sulle grandi
superfici della scultura si identifica la maschera del giaguaro che,
in quanto patrono del sacrificio, manca della mascella inferiore14,
mentre la lingua-coltello sporge dalle fauci. Sui lati corti erano
rappresentati due giaguari, oggi scomparsi.15
Sono
stati rinvenuti anche vasi, fischietti e altri utensili con
raffigurazioni di sacrifici o con simboli che si connettono ad esso.
Anche
un vaso ritrovato nella tomba numero 10 di Tikal è associato
solitamente dagli studiosi al sacrificio. Vi è effigiata una
arcaica divinità, chiamata dagli esperti “vecchio dio”. Questo è
raffigurato su un sedile composto di femori umani incrociati. La
parte superiore, o coperchio, comprende la testa, le spalle e le
braccia. La testa è cava e comunica con il corpo, la bocca sdentata
è aperta; il vecchio, come una delle raffigurazioni del giaguaro
notturno, è cieco. Piccole maschere, da cui pendono sonagli, ornano
le braccia e le gambe. La divinità porta agganciata alla cintura una
testa di serpente, priva della mascella inferiore; da quella
superiore pende una lingua coltello, fiancheggiata da due spirali.16
Le
prove archeologiche delle pratiche sacrificali maya ci appaiono
sufficienti per capire che il contrasto tra “classici” pacifici e
“postclassici” guerrieri e sanguinari non è più sostenibile: i
Maya classici erano senza alcun dubbio altrettanto bellicosi, e
praticavano il sacrificio umano quanto i loro successori. E se c’è
stato un aumento quantitativo di esso, (e molto probabilmente c’è
stato), ciò è da collegare alla decadenza politica ed economica,
che provocò la paura di una fine del cosmo tra il popolo del mais, e
quindi maggiore bisogno di sangue per saziare gli dèi. La discesa di
Toltechi e Messicani comportò inoltre un inasprimento del rituale
sino ad arrivare a dei veri e propri bagni di sangue.17
I
soldati spagnoli, tuttavia esageravano, nei loro racconti, il numero
di persone sacrificate agli dei. Andrei De Tapia, soldato di H.
Cortes, racconta che, arrivato a Tenochtitlan18,
trovò un altare di crani, presso il quale questi erano sospesi
tramite pali che attraversavano le loro tempie. Il soldato aggiunge
inoltre di avere contato i teschi così esposti, e afferma che il
loro numero era di 136.000. Ciò è improbabile per almeno due
motivi:
1) se collocassimo tutti i pali che sostenevano i crani
uno di seguito
all’altro in modo da far toccare gli estremi, otterremmo una
lunghezza superiore ai 130 Km;
2) il fetore delle loro teste avrebbe dovuto risultare
insopportabile nella città.19
Bisogna
inoltre dire che anche a Tlatelolco20
è stato trovato un altare di crani con “soli” 170 teschi.
Le
fonti spagnole dicono che per l’inaugurazione del Tempio
Maggiore a Tenochtitlan nel 1487 il numero di
vittime fu tra le 20.000 e le 80.400.
Le
fonti precisano che le vittime vennero immolate in quattro giorni e
in quattro templi differenti. Tenendo presente quest’ultimo dato, e
supponendo l’esecuzione di un prigioniero al minuto, sarebbero
stati necessari almeno 14 giorni per il primo caso e 50 per il
secondo. Vi sono, inoltre, altri due fattori che rendono la fonte non
attendibile e cioè:
- la seria possibilità che questo gran numero di persone potessero ribellarsi, dato che è difficile immaginare che tutti questi prigionieri fossero ansiosi di essere sacrificati;
- il problema di come disfarsi di questo gran numero di persone.
Il
sacrificio fu, quindi, un rituale che interessò tutta quanta la
storia maya, fin dalla sua origine e, a volte, raggiunse toni
drammatici, senza mai però giungere alle assurde cifre di vittime
riportate dai conquistadores.
Questo rituale era così presente nella mentalità maya da resistere
anche alla conquista spagnola. A tal proposito, abbiamo infatti prova
che nello Yucatan, nel 1562, si officiavano vittime e ancora nel
1896, nella valle dell’Usumacinta, venne addirittura crocifisso un
fanciullo21.
Non è azzardato ipotizzare che il rituale tardò a morire perché
gli indios lo
inserirono nella nuova religione, il cristianesimo, portata dagli
occidentali: il sacrificio di Cristo si prestava bene a tale
rielaborazione.
L’omicidio
sacro
Il valore del sacrificio: l’uomo e i suoi doveri verso l’universo
Come
si vede nel racconto della creazione narrata dal Popol
Vuh, allo stesso modo degli esseri umani,
anche gli dei dovevano essere nutriti, infatti essi erano imperfetti,
ed erano caratterizzati da molti dei difetti umani. Se, per esempio
non pioveva, o se scoppiava un’epidemia, ciò accadeva per la loro
stizza verso gli uomini, dovuta al fatto che si era trascurato di
propiziarseli nel modo dovuto.22
Le loro preferenze andavano soprattutto al sangue umano, e più
ancora, nel periodo post-classico, ai cuori palpitanti degli uomini.
Il colore rosso ricopriva un significato mistico molto forte, in
quanto, nella religione maya, esso rappresentava, essendo il colore
del sangue, il colore della vita, tanto che anche le pareti delle
tombe e perfino i defunti venivano tinti di questo colore, al fine di
propiziare la vita ultraterrena.23
Il
sacrificio aveva il fondamentale ruolo di risarcire gli dèi delle
energie impiegate per il mantenimento dell’ordine cosmico. La
terra, concepita come un essere vivente, utilizzava parte delle
proprie forze per il sostentamento dell’uomo: conseguentemente,
l’uccisione di un animale senza un motivo significativo era
considerato il reato socialmente più grave. Per questo il cacciatore
soleva appendere certe parti dell’animale ucciso, pungersi la
lingua o il pene e spargere qualche goccia di sangue su di esse.
Ammazzare un animale senza ragione era considerato un delitto poiché
venivano sprecate parte di quelle energie che la terra impiegava per
permettere la continuazione della vita dell’uomo stesso. L’indio,
pertanto, quando cacciava, uccideva solo quegli animali di cui aveva
realmente bisogno per il proprio sostentamento. Poi, ringraziata la
divinità della caccia, compiva autosacrifici per rivitalizzare la
madre terra. In poche parole, possiamo dire che sussisteva un patto
assai rigido tra gli dei e gli uomini, che quest’ultimi non
dovevano assolutamente disattendere. Gli dei erano generosi, ma per
fare la loro parte dovevano mantenersi in forze, e solo il sangue,
preferibilmente umano, li poteva sostenere.24
Il
sacrificio nasceva dalla visione del mondo propria dell’indio, che
fu sempre profondamente religiosa, tragica, pessimistica e
fatalistica: la morte minacciava ogni cosa, perfino gli astri. Le
costellazioni e i pianeti erano anch’essi delle divinità (il Popol
Vuh ne narra la nascita) e, pertanto i
sacerdoti officiavano sacrifici in loro favore.25
Afferma lo studioso Anthony Aveni che i mesoamericani credevano che
gli dei erano gli antenati della famiglia reale, e che erano questi
antenati a salvare il mondo dalla distruzione, attraverso il dono di
sangue. Lo studioso conclude ritenendo che, oltre ad un motivo
religioso, ci fosse anche un presupposto di natura pratica: mantenere
un ordine sociale che potesse dare luogo ad una crescita materiale.26
E, in verità, a noi sembra che sia proprio quest’ultima funzione,
non separabile da quella religiosa, il motivo principale delle
immolazioni.
La
selezione delle vittime avveniva sia con la forza, tra la popolazione
che doveva il tributo, sia attraverso l’autosacrificio di una
persona nobile. In nessun caso la vittima poteva rinunciare, poiché
il valore del rito era sociale e collettivo, giacchè permetteva il
mantenimento del cosmo e dell’intera comunità.27
Così,
pur senza ritenersi il centro dell’universo, l’uomo maya aveva
l’impressione di detenere una piccola parte di responsabilità e si
rendeva conto che era necessario evitare che il mondo perisse a
causa della propria negligenza. Egli si riteneva colui che
ristabiliva il necessario equilibrio tra la vita e la morte. Tutta la
religione si basava sul principio che si “produceva” la vita con
la morte e che persino gli astri erano grandi divoratori di cuori
umani. Senza alcun dubbio, il sacrificio umano rappresentava
l’offerta suprema. In tal senso, ci si conformava al dogma che
affermava che non si poteva mantenere la vita del tutto se non
donandola, cioè immolando.28
Si potevano sacrificare anche animali come uccelli, tacchini,
daini ma, contemporaneamente, era di gran lunga più preferibile
sacrificare un umano, e non aveva importanza se si trattava di un
adulto o di un bambino, di un maschio o di una femmina.29
L’uomo
maya del periodo classico riteneva che le forze del disordine fossero
fondamentalmente atemporali e onnipresenti e, quindi, che addirittura
neanche gli dèi, che avevano i propri limiti, potevano controllarle.
In un cosmo simile, una società ordinata non poteva esistere né
essere mantenuta se non tramite opere e impegni particolari, e con la
dovuta attenzione a divinità e antenati. Il mondo o la comunità,
dotati del giusto ordine, erano paragonati al campo di mais di forma
quadrata. Tra l’altro nella mentalità mesoamericana vigeva un
forte contrasto tra quegli aspetti dell’ambiente che erano
“addomesticati” o “coltivati” dall’uomo e le foreste
circostanti, che potevano essere caotiche, imprevedibili e persino
sinistre. Il dono di sangue ricopriva il ben preciso ruolo di
scongiurare il ritorno dell’ “addomesticato” al caotico e
imprevedibile30.
Il
sacrificio comportava spesso l’estrazione del cuore, organo dai
Maya considerato il centro della vita dell’essere umano: là dove
trae origine la coscienza illuminata. Per questo motivo nella lingua
simbolica e pittorica cuore e penitenza erano continuamente
associate: le figure mostrano spesso cuori trafitti oppure
gocciolanti sangue, a indicare le penitenze necessarie a purificare
la coscienza.
Un
saggio indigeno di Tlaxcola riassume chiaramente la funzione sociale
del sacrificio, dicendo: “non possiamo concepire l’idea di un
vero sacrificio, se qualcuno di noi non muore per la salvezza degli
altri.”
Su
questa motivazione del rituale presso i Mesoamericani sono
fondamentalmente d’accordo i massimi studiosi di questi popoli.
Secondo
Thompson, la vita del sole era assicurata dall’immolazione di
vittime umane e con questo era pure assicurata la vita dell’intero
universo.31
I Maya, scrive lo studioso, pensavano che gli dei di anno in anno
invecchiassero e si indebolissero, insieme alla natura, e perciò con
sacrifici si cercava di farli ringiovanire.
“Gli
esseri umani votati al sacrificio” afferma W. Krickeberg, “non
erano il nutrimento degli dei, ma erano considerati essi stessi dei
che dovevano essere uccisi per potersi destare a nuova vita con
rinnovata operosità”.32
In
tale visione si inquadrano i sacrifici compiuti alla fine del secolo
maya, quando cioè le date dei due calendari (Tzolkin e Haab)
venivano a combaciare e a sovrapporsi. In tale ricorrenza, veniva
celebrata una cerimonia, chiamata “legatura degli anni”,33
durante la quale si accendeva il “Fuoco nuovo” e, i sacerdoti,
credendo che il mondo potesse annichilirsi e ritornare al caos,
salivano su un colle per osservare il firmamento, in cerca di un
segnale che indicasse che il loro mondo avrebbe continuato a vivere
per un altro secolo. Se dopo la mezzanotte non accadeva nulla di
anomalo si procedeva all’esecuzione di sacrifici, per offrire il
cuore al sole, e si accendeva un fuoco sul petto della vittima.34
Anche
i sacrifici compiuti alla fine dell’anno, durante i cinque giorni
considerati nefasti, senza nome e divinità che li presiedessero, si
inseriscono nella concezione che riteneva il tempo dell’uomo
“aperto” al sacro, cioè favorevole al contatto con l’assoluto
e il sovrumano.35
Come
abbiamo avuto già modo di accennare diffusamente in questa tesi, il
sacrificio, sebbene cruento, non era mai crudele, non era cioè la
conseguenza di una perversione o di una cattiveria, ma era l’unica
maniera che, trascendendo il reale, permetteva l’incontro
spirituale con la divinità: il mezzo reale per il mantenimento del
patto avvenuto durante la quarta e ultima creazione.36
L’uomo
assume la funzione di inizio e fine del cosmo. Il Maya, infatti,
rappresenta il gradino più alto della creazione, colui che inizia il
processo di mantenimento del ciclo della vita con il dono del proprio
sangue, nonchè colui che mette fine agli sforzi degli dei nella
ricerca della costruzione di un essere che si occupi e preoccupi del
loro sostentamento.37
Vi
sono, tra gli studiosi, due correnti di pensiero circa il
sacrificio, una detta umanista e l’altra detta materialista. La
prima si inserisce fondamentalmente nel discorso da noi portato
avanti, la seconda vede invece il sacrificio come risultato di
un’esigenza nutritiva, dettata dal fatto che i Maya erano divenuti
cannibali al fine di supplire alla mancanza di carne nella loro
dieta.
Il
sacrificio, quindi, per i materialisti non era dettato da un’esigenza
spirituale ma bensì da un bisogno pratico.38
Vedremo di chiarire le linee fondamentali di questa teoria nel
prossimo paragrafo.
Uno
degli elementi più importanti ed evidenti in questi riti è l’unione
dei due opposti di vita e morte. Il concetto dialettico secondo il
quale l’esistenza avverrebbe attraverso la lotta e la simbiosi dei
contrari venne teorizzato dagli indios già da molto tempo.
Gli
animali associati al sacrificio sono i serpenti, i coccodrilli, i
rospi, le tartarughe, le chiocciole, i molluschi, i giaguari e alcune
piante, come le ninfee.39
Questi animali si connettono al rituale perché, nella mentalità
maya, lo rappresentano metaforicamente. Il sacrificio svolgeva
l’importante funzione della trasformazione, che viene vissuta sia
dal serpente, che con il passaggio di una stagione all’altra cambia
la propria pelle, sia dalla farfalla
che
da larva si trasforma in un essere in grado di volare e di elevarsi
in cielo. Questo insetto, con la sua morte-rinascita, riassume in sé
il significato mistico del sacrificio, che nasce anche
dall’osservazione che i due punti apparentemente opposti (vita e
morte) sono in verità così interrelati che non possono esserci
l’uno senza l’altro. Il rospo, la tartaruga e il coccodrillo sono
esseri duali, che uniscono gli opposti, infatti sono animali che
vivono come sulla terra così nell’acqua. Non è difficile
stabilire il nesso nemmeno con il giaguaro, dato che questo, secondo
M. Coe, vive lungo i corsi d’acqua: esso è un eccellente nuotatore
e l’acqua fa parte del suo habitat naturale. Inoltre il giaguaro
rappresenta la terra e le sue fauci l’ingresso dell’interregno,
Xibalba, luogo degli antenati defunti che, trovandosi più vicini
agli dei, rivestono l’importante ruolo di mediatori e di
sostenitori del cosmo.40
La
ninfea è un fiore i cui steli affondano le radici nella terra,
mentre la corolla si pone a pelo d’acqua: si tratta, quindi, di un
essere duale, che unisce gli opposti, come la tartaruga , il rospo,
la farfalla e il coccodrillo.
Stessi
ragionamenti sono proponibili per i molluschi che, pur essendo
acquatici, non nuotano e si spostano sul fondale marino.
Inoltre,
tornando alle ninfee, va precisato che i loro rizomi sono
allucinogeni. Tale peculiarità, poco conosciuta, ci conduce ad un
altro motivo della sua connessione con il sacrificio: l’impiego di
alteratori della coscienza per accedere a una realtà differente.41
Durante
il periodo tolteco-messicano diviene preponderante il culto di
Kukulcan, il serpente piumato archetipale, dall’aspetto duale, che
unisce gli opposti giacchè congiunge le energie terrestri (serpente)
con quelli celesti (l’uccello di quetzal)42.
Il
principio morte-rinascita non è fondato solo sul sacrificio degli
altri ma anche, e soprattutto, di se stessi, e ciò perché, tra i
Maya, il sacrificio del fedele era indispensabile affinché la
divinità rinascesse nell’uomo attraverso la morte mistica
dell’uomo stesso. Nei miti maya si ritiene che gli dei creatori
avessero generato gli esseri umani dal bianco mais e dal proprio
sangue sacrificale; inoltre, nel Chilam Balam l’universo nasce
dalla Pietra Preziosa ( la giada) che, come già detto, rappresenta,
con il suo verde il mais non ancora maturo. L’insistenza sul mais
era finalizzata a rafforzare il concetto di sacrificio di se stessi,
poiché se il seme non muore, non porta frutto, ossia non si
rigenera.43
Come
il sacrificio del dio, per i maya, genera l’uomo, parimenti, il
sacrificio dell’uomo porta alla rinascita del dio.
Il
cannibalismo pur non essendo un rituale molto diffuso nel periodo
maya classico, divenne presente nel periodo tolteco-messicano. La
vittima, a cui veniva strappato il cuore, veniva divisa tra i
sacerdoti e il popolo in un cruento pasto dal carattere religioso.
Il
quotidiano “La Stampa”44
del 25 novembre del 1998 riporta un articolo scritto dal professore
Aldo Rullini. Questi affermava che i Maya erano stati cannibali per
necessità, in quanto in Messico e dintorni mancavano le proteine,
dal momento che c’erano pochi animali domestici e commestibili.
I
Maya e gli Aztechi si trovarono, pertanto, costretti ad immolare
vittime per soddisfare il loro bisogno fisiologico. I mesoamericani,
quindi, organizzavano incursioni belliche per catturare moltissimi
prigionieri, i quali venivano in seguito smembrati per essere
distribuiti al popolo e mangiati. I sacrificati non potevano comunque
soddisfare il fabbisogno proteico di tutto il popolo. Contava però
che la classe dirigente, i sacerdoti e i militari, potessero
usufruire di queste proteine.
La
teoria materialista nasce nel 1977 ad opera di Michael Harner.45
Questo studioso affermò che i mesoamericani avrebbero praticato il
cannibalismo per ottenere le proteine animali essenziali al
fabbisogno umano.
La
teoria trovò degli oppositori come il dottore R.Ortiz de Mantellano,
il quale obiettò che i Maya avrebbero potuto trovare gli aminoacidi
necessari da alcuni vegetali. Il loro rituale era pertanto da
spiegare come ringraziamento alle divinità per la fertilità del
suolo.46
A dare ragione all’ipotesi di Mantellano si avevano due fatti:
- il cannibalismo, avvenendo in concomitanza con il raccolto di mais, poteva essere, plausibilmente, spiegato come un modo per ringraziare gli dei per la loro benevolenza.
- Si è capito, tramite osservazioni di carattere scientifico, che i problemi alimentari più importanti, causati da un continuo uso di mais, come la deficienza di niacina, (la vitamina che previene la pellagra), e la deficienza degli aminoacidi lisina e triptofano, erano stati, dai mesoamericani, del tutto risolti. Infatti la niacina si conservava nei chicchi di mais grazie ad una particolare cottura di questa pianta, consistente nel cuocere i chicchi in acqua di calce ed essiccarli prima della macinatura. Mentre altri vegetali, come il fagiolo, potevano fornire la sufficiente quantità di lisina e triptofano. In tal modo si ottenevano le sufficienti quantità di aminoacidi per la sintesi proteica dell’individuo.47
Il
professore Michele Ernandez (e altri) riferisce però nel suo studio
“Aztec Cannibalism and Maize Consumpition”, che altri
ricercatori, alcuni anni prima, avevano dimostrato che il consumo di
mais può provocare un’altra deficienza più complessa di una
semplice mancanza di aminoacidi: quella della serotonina (un
importante neurotrasmettitore celebrale).
La
carenza di serotonina, afferma Ernandez, provoca il comportamento
trasgressivo e il fanatismo ideologico/religioso48.
Lo
studio del professore Ernandez non verte solo su una interpretazione
materialista ma, coniuga tutte quelle istanze che fino a qualche
tempo prima venivano considerate in contrasto ed esclusive l’una
con l’altra.
Infatti
il sacrificio mesoamericano va studiato da tutti i punti di vista;
religioso, sociale, economico ed ecologico. Questi vari livelli di
ricerca, divenendo complementari, danno una più completa spiegazione
del perché gli Aztechi e i Maya sacrificavano.
A
ragione di ciò il professore Ernandez afferma:
“pensiamo,
in verità, che i fenomeni religiosi, mostrando numerosi aspetti,
possono essere studiati a vari livelli: un primo livello di ricerca
può riguardare le fasi biologiche, neurologiche o etologiche del
pensiero religioso[…]; un secondo livello,
fenomenologico-strutturale, la relazione di subordinazione degli
esseri umani rispetto agli esseri divini, o l’idea che il
sacrificio sia il mezzo principale per comunicare con loro[…];un
terzo livello, le relazioni tra strutture sociali e particolari forme
di credenze e rituali[…]; un quarto livello, quello
economico-ecologico, i beni materiali usati per i rituali religiosi
[…]: i beni per i sacrifici sono di certo diretti alle divinità,
ma sono poi generalmente consumati dagli esseri umani. Questi quattro
livelli coesistono ed interagiscono[…] ”.49
La
teoria di Ernandez parte dal punto di vista del materialismo
culturale e della neurobiologia per divenire anche un fertile punto
di partenza di tutti gli altri livelli sopra accennati.
La
deficienza di serotonina può essere causata da un’alimentazione
basata sul mais. In pratica, tale dieta può modificare l’attività
funzionale di un gruppo di neuroni celebrali. Il mais, come abbiamo
abbondantemente scritto, è stato un alimento basilare nella
alimentazione quotidiana dei maya, e, dei mesoamericani in genere.
Ora, è logico pensare che la deficienza di serotonina diveniva
massima quando, scrive Ernandez, “il nutrimento dipendeva
prevalentemente dal mais[…]”. E Ciò, accadeva dopo la stagione
del raccolto. Nel momento in cui il mais era particolarmente
abbandonate, e, invece, diveniva scarso la quantità di altri cibi,
come l’amaranto, che permettevano un incremento di serotonina.
Il
professore Ernandez enuclea una serie di conseguenze comportamentali
causate da una deficienza di serotonina.
Essi
sono:
- comportamento aggressivo. Cioè esseri non uccisori, in special modo maschi, assumono comportamenti aggressivi.50
- Incremento della competizione o dell’aggressività intraspecifica. Un consumo di mais al di sopra della media induce a comportamenti aggressivi e a violenze nei rapporti interpersonali.51
- Pensiero magico e accentuato fanatismo religioso. Mandell nel 1980 osservò che esiste una correlazione tra sentimenti mistici e carenza di serotonina. Inoltre il fanatismo religioso può essere causato da un mal funzionamento della trasmissione serotoninergica. Pertanto la carenza di serotonina può implicare il pensiero magico. Un bassa sintesi di serotonina rende l’individuo maggiormente sensibili verso le droghe. I Maya, nei riti sciamanici, facevano uso di un fungo allucinogeno, che poteva provocare delle allucinazioni simili agli stati estatici di cui parlavano i chilam. Le visioni spesso erano dei veri e propri incubi. Secondo il Professore Ernandez “ tali visioni erano probabilmente all’origine delle orrifiche sembianze della maggior parte delle divinità[…].52
- Crudeltà dei riti. La deficienza di serotonina, provoca dei fenomeni chimici, che danneggiano la funzione della corteccia pre-frontale, riducendo, in tal modo, la normale capacità di immedesimazione nel dolore e nelle sofferenze altrui.53
- Epilessia nel lombo temporale. La riduzione del tono serotoninergico, secondo Gazzaniga, causa un intensificarsi della credenza religiosa ed un eccentrico comportamento sessuale (non necessariamente contemporaneamente). Negli USA, alcuni casi clinici, in cui questa malattia si manifesta in maniera cronica, mostrano un aumento di intensità nella fede religiosa e un rapido passaggio, senza motivo apparente, da un credo ad un altro. Sappiamo che i Maya avevano un pantheon religioso enormemente complesso, tanto che gli studiosi tutt’ora non riescono a dare un numero sicuro delle loro divinità . Inoltre alcuni esseri supremi vennero presi dalle culture vicine, come il culto nel dio Xipe Totec (di origine messicana).54
- Culto e attrazione per il fuoco. Un basso tono serotoninergico è stato osservato nei piromani. Il fuoco, chiarisce il professore Michele Ernandez,55
“è
presente in un ampio numero di religioni nelle quali assume il valore
magico e simbolico di purificazione, di agente punitivo o di simbolo
della vita”.56
Per
i Maya il fuoco ricopriva un valore mistico molto importante.
Lo
studioso Winkelman chiarisce che:
“l’assenza
di ogni sacrificio (si nota) solamente nelle società di cacciatori e
raccoglitori; il sacrificio umano[…]si trova nelle società
agricole complesse piuttosto che in quelle semplici, ma non nelle
società pastorali ”.57
Quest’affermazione
è perfettamente in sintonia con quello che afferma il dottor
Ernandez, e cioè:
“le
società di caccia e raccolta hanno a disposizione cibo con alto
valore di R, quelle agricole hanno cibo con un basso valore di R o
con un alto contenuto di tyr o phe [tutte sostanze che portano ad una
insufficiente sintesi di serotonina]. Nelle società agricole si
possono più facilmente verificare situazioni (alimentari) che,
direttamente o indirettamente, in modo continuo o discontinuo,
possono causare una carenza di serotonina”.58
Gli
Aztechi ebbero una religione molto più cruenta rispetto a quella dei
maya. I messicani si distinsero infatti per avere compiuto dei veri e
propri bagni di sangue. I maya invece mantennero sempre come forma di
sacrificio fondamentale l’autosalasso, e il cannibalismo rimase un
rituale marginale. Il professore Ernandez spiega questa diversità
rituale con queste parole:
Il
mais fu un alimento importante per i Maya, ma anche se essi erano
molto religiosi con i sacrifici umani e aggressivi, non sembra siano
stati cannibali. Sembra che essi avessero una maggiore disponibilità
di cibo con un alto valore di R, rispetto agli Aztechi.[…] Nel X
secolo i Toltechi provenienti dal Messico centrale occuparono lo
Yucatan. All’inizio loro praticarono il sacrificio umano e forse il
cannibalismo. Successivamente si comportarono come i Maya. È
ragionevole supporre che inizialmente essi conservarono i
comportamenti tipici delle popolazioni del Messico centrale e che in
seguito lo modificarono grazie all’alto valore di R del cibo
Maya.59
In
definitiva possiamo dire che anche i Maya, come gli Aztechi, si
distinsero per avere adottato dei comportamenti rituali cruenti, e
molto probabilmente compirono atti di cannibalismo, senza mai
raggiungere però i bagni di sangue dei messicani. Ciò perché i
Maya pur consumando una grande quantità di mais, che provocava
un’insufficiente sintesi di serotonina, avevano dei cibi che
riuscivano in parte ad equilibrare tale deficienza.
1
Cfr. “I Misteri di Hera, Misteri dell’antico Messico”,
bimestrale n.5, Anno II, Edizioni Hera, Roma Gennaio-Febbraio 2005,
passim.
2
Cfr. Ibidem, articolo di Juan Josè-Botalla Rosado,
L’Omicidio Sacro, cit., pag. 96.
3Cfr.
Claude Francois Baudez - Pierre Becquelin, L’America
precolombiana, I Maya, Rizzoli Editore,
Milano 1998. (1.a ed. italiana nella collana “ Il mondo della
figura ”), cit., pagg. 105-110. Titolo dell’opera originale: Les
Mayas, editions Gallimard, Paris 1984.
4
Cfr. ibidem.
5
Cfr. ibidem.
6
Cfr. ibidem.
7
Cfr. ibidem.
8
Cfr. ibidem, pagg. 98-102.
9
Cfr. ibidem, pagg. 139-144.
10
Cfr. Ibidem, passim.
11
Cfr. ibidem, pagg. 91-98.
12
Cfr. ibidem, pagg. 145-174.
13
Cfr. ibidem, pagg. 117-139.
14
La scarnificazione della mascella era un rituale molto in uso tra i
Maya.
15
Cfr. Claude Francois Baudez-Pierre Becquelin, op. cit.,
pagg. 161.
16
Cfr. ibidem, pag. 71.
17
Cfr, “I Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè-Botalla
Rosaldo, L’Omicidio Sacro, riv. cit,.
pagg. 96-98.
18
Capitale dell’impero azteco.
19
Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè-Botalla
Rosaldo, L’Omicidio Sacro, riv. cit. pag. 100.
20
Importante centro religioso azteco secondo solo a Tecnochtitlanli.
22
Cfr. Guglielmo Guerriglia, Messico, Le piramidi degli dei,
Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1982, cit., pag.46.
24
Cfr. Guglielmo Guariglia, op. cit., passim.
25
Cfr. Guy Annequin, op. cit., pag. 186.
26
Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Francesco Garufi,
Architettura Maya: il volto delle stelle, riv. cit.,
pagg. 68-69.
27
Cfr. Ibidem.
28
Cfr. Guy Annequin, op. cit., pagg. 184-186.
29
Cfr. ibidem.
31
Cfr. Guglielmo Guariglia, op. cit., pag. 98.
34
Cfr. “i Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè- Botalla
Rosado, L’omicidio sacro, riv. cit., pagg. 98, 99.
37
Tutti gli autori da noi trattati spiegano il sacrificio con tale
motivazione.
38
Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Juan Josè-Botalla Rosado,
L’Omicidio Sacro, riv. cit., pag. 100.
39
Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Maria Teresa Uriarte,
Pratica e simboli del gioco della pelota, riv. cit.,
pagg. 56-61.
40
Cfr. ibidem,
ma cfr. anche “Hera, Civiltà scomparse, Misteri Archeologici”,
mensile n. 58, anno V, , Hera Edizioni, Novembre 2004, articolo di
Adriano Forgiane, Olmechi, Sacerdoti e
Nagual, cit., pagg. 23-27. Cfr. inoltre
Martin Brennan, op. cit.,
pagg. 114,115; 170,171; 238,239; 251,252 e 255. Cfr. infine Adrian
Gilbert - Maurice M. Cotterell, Le profezie
dei Maya, Corbaccio, Milano, Giugno 2000,
(1.a. ed. Mandala), pagg. 146-147 e 240-241. Titolo originale: The
Maya Prophecies.
41
Cfr. “I Misteri di Hera”, articolo di Maria Teresa Uriarte,
Pratica e simboli del gioco della pelota, riv. cit., pagg.
60, 61.
43
Cfr. Guglielmo Guariglia, op. cit., pagg. 98-100, ma anche
cfr. Martin Brennan, op. cit., pag. 79. Cfr. inoltre Pietro
Bandini, op. cit., pagg. 32-33. Cfr. infine Eric Thompson,
op. cit., pag. 291.
44
“La Stampa” quotidiano, 25 Novembre, articolo di Aldo Rullini, I
Maya, Cannibali per necessità, passim.
45Michele
Ernandes, Rita Cedrini, Marco Giammanco, Maurizio La guarda e Andrea
Milazzo, Aztec Cannibalism and Maize
Consumption: The Serotonin Deficiency Link.
Proof-June 2002, cit., pag. 3.
46
Cfr. ibidem.
47
Cfr. ibidem, pagg. 7, 8.
48
Cfr. ibidem, pagg. 15-17
49
Ibidem, pagg. 3, 4.
50
Cfr. ibidem, pag. 15
51
Cfr. Ibidem.
52
Cfr. ibidem, pag. 16
56
Ibidem, pag. 17.
57
Ibidem, pag. 20.
58
Ibidem.
59
Ibidem, pag. 25.
non è kiaro il concetto
RispondiEliminaGreat post thankyou
RispondiEliminaGrazie
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