sabato 30 giugno 2012

Illuminismo tedesco


Legato all'illuminismo inglese e francese è quello tedesco. Questo si caratterizza in una forte fiducia nel principio di progresso dell'uomo, in un senso di libertà rispetto al principio di autorità, in una importanza della morale in tutti i campi della vita, dal religioso al politico, e in un filantropismo e senso di fratellanza, che verrà rappresentato da Mozart nel suo Flauto magico.
Ovviamente l'illuminismo tedesco ha alcune caratteristiche peculiari dettate dal contesto storico – sociale. Innanzitutto manca un centro culturale come quello di Parigi. La città di Berlino, infatti, nonostante i tentativi di Federico II, non divenne un luogo di incontro di intellettuali, e il pensiero illuminista si origina principalmente nei piccoli centri. Inoltre, l'illuminismo tedesco è fortemente legato alla tradizione religiosa, in special modo al pietismo. Questo è un movimento fondato dal teologo tedesco Philipp Jakob Spener (1635 – 1705) che fondò dal 1670 i Collegia pietatis, ossia dei luoghi destinati alla lettura e alla riflessione della Bibbia. Lettura che veniva unita a pratiche di pietà. Spener pubblica un'opera dal titolo Pia desideria, che ebbe notevole diffusione e importanza in tutta la Germania e negli ambienti culturali ed intellettuali tedeschi. Il pietismo riprendeva alcune tematiche proprie della tradizione protestante tedesca, ma criticava l'organizzazione ecclesiastica luterana e calvinista e il nuovo dogmatismo a cui avevano dato vita. Per Philipp Jakob Spener bisognava, infatti, ridare valore primario alla coscienza nella vita religiosa e morale, privilegiando, in tal modo, la volontà e il sentimento rispetto alla ragione. Veniva negata, anche, la dottrina luterana della predestinazione e della grazia, ponendo così maggiore importanza agli atti morali. Da ciò scaturiva la polemica antiecclesiatica, la denuncia dell'inutilità dei culti esteriori e l'importanza di una fede che si traducesse in reali pratiche di benevolenza e di fede operosa. Infine, l'illuminismo tedesco è fortemente influenzato dal pensiero di Leibniz, soprattutto in due punti: nel nesso tra filosofia e matematica, e nella connessione del concetto dinamico della ragione, per cui essa si va perfezionando in maniera graduale secondo un processo di perfettibilità.
Personalità notevole è Christian Wolff (1679 – 1754), autore di una Logica (1728), di una Ontologia (1729) e di una Cosmologia generalis (1731).
Wolff sistematizza il pensiero leibniziano e offre l'organo principale dell'insegnamento accademico tedesco. Importante nel pensiero di Wolff è il legame tra filosofia e matematica, e, quindi, il costruire un apparato di conoscenze su una rigorosa analisi razionale tramite la logica, che ha come suo postulato il principio di non – contraddizione. Ciò significa che tutte le scienze devono fondarsi su questo postulato e devono procedere mediante ragionamenti logici deduttivi a priori.

Altra personalità che riprende, in senso diverso, la filosofia di Leibniz è Moses Mendelssohn (1729 – 1786), illuminista berlinese, sostenitore di una dimostrazione dell'immortalità dell'anima ampiamente discussa da Kant nella Critica della ragion pura. Mendelssohn lega il concetto di illuminismo e di lumi della ragione con la concezione del rischiaramento. Il rischiaramento, infatti, è uno strumento di perfezionamento e di progresso. Ciò perché solo mediante il continuo ed incessante ricercare si possono acquisire conoscenze sempre più precise e perfette.
In tal senso vanno interpretate le parole di Gotthold Ephraim Lessing (1729 – 1781):
Se Dio tenesse nella sua mano destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo tendere verso la verità con la condizione di errare eternamente smarrito, e mi dicesse: scegli!io mi pecipiterie umilmente alla sua sinistra e direi: Padre ho scelto, la pura verita è soltanto per te”.
Lessing (1729 – 1781) è la personalità più importante, rappresentativa e celebre dell'illuminismo tedesco per quanto riguarda i problemi religiosi. Anch'egli si inserisce nel filone del deismo, ed infatti afferma una religione razionale universale, e critica coloro che ricorrono al miracolo per provare la validità di una religione rispetto ad un'altra. Inoltre, contrappone la religione di Cristo a tutte quelle che si sono istituzionalizzate nelle Chiese cristiane. In Nathan, il saggio, Lessing sostiene che coloro che vogliono affermare la veridicità di una delle tre religioni storiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo) errano, perché dovrebbero cercare di dimostrare la bontà del proprio credo mediante le opere e gli atti di fede verso gli altri. Da ciò consegue che la religione viene ridotta a morale razionalmente fondata e ad un ideale di tolleranza.
Nello scritto L'educazione del genere umano, Lessing sostiene la concezione secondo cui la Rivelazione non è altro che progressiva manifestazione e conquista della verità. Ed infatti, “La rivelazione non dà nulla al genere umano cui non possa giungere anche da sola l'umana ragione; ma essa offre all'umanità i più importanti dei suoi beni prima della stessa ragione”. In altri termini, la Rivelazione anticipa le conquiste che, comunque, verranno fatte dalla ragione. Nell'esporre questa teoria Lessing riprende un'immagine utilizzata spesso nella storia della teologia e della filosofia, ed infatti, paragone la Rivelazione data da Dio al genere umano all'educazione dei singoli uomini. Pertanto, la Rivelazione avviene in maniera progressiva e storica, in linea con le capacità di acquisizione dei popoli del momento. Ciò spiega il perché del linguaggio semplice, elementare ed immaginoso della Bibbia. Linguaggio che si eleva gradualmente al progredire intellettuale delle varie civiltà nelle diverse epoche storiche. La rivelazione si svolge in tre grandi momenti: quello del Vecchio testamento, in cui la figura centrale è quella del Dio Padre, oggetto di timore e di venerazione; quello del Nuovo Testamento, incentrato sulla figura di Cristo; quello del Vangelo eterno, incentrato sullo Spirito, per cui l'uomo farà il bene perché è bene farlo, e non per la promessa in un paradiso ultraterreno. Concezione questa ripresa ed ulteriormente approfondita da Kant. Questa suddivisione in tre momenti della Rivelazione diviene importante perché mostra il progredire della società con il trascorrere dei secoli e delle varie epoche, e perché chiarifica come non si ha mai una verità acquisita una volta e per sempre. Ciò mette in evidenza un fattore di notevole importanza della filosofia di Lessing, e cioè il fatto che più del possesso della verità, è importante la ricerca di essa.
Alexander Gottlieb Baumgarten (1714 – 1762) ha il merito di aver dato il nome di Estetica alla moderna teoria dell'arte, e di averne chiariti i compiti e gli ambiti di studio. Le basi di questa nuova disciplina vengono esposti nelle Meditationes Philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (1735), un'opera giovanile, in cui per la prima volta viene utilizzato il termine aesthetica. Il termine deriva dal greco àisthesis (percezione mediante i sensi) e delimita la disciplina al campo della conoscenza sensibile in contrapposizione alla conoscenza intellettuale. Ed infatti, per Baumgarten l'estetica è scienza del conoscere sensitivo che nulla ha in comune con la scienza della conoscenza filosofica. La prima infatti si occupa di dirigere la facoltà conoscitiva inferiore, mentre la seconda dirige la facoltà conoscitiva superiore, ed ha come strumento la logica. Il discorso estetico, invece, ha come strumento tutta una facoltà interiore che, sebbene da sempre trascurata, ha tanta importanza nell'esperienza umana.

giovedì 28 giugno 2012

L'illuminismo italiano


Il panorama culturale italiano di inizio settecento si viene a configurare come più arretrato rispetto a quello francese ed inglese. Causa di ciò furono gli effetti della controriforma.
Lo stesso Vico fu polemico verso tutti i filosofi del seicento.
Per queste ragioni diviene notevole il pensiero di Pietro Giannone, di poco più giovane di Vico (1676 – 1748), il quale si professa seguace di Gassendi, Cartesio e Locke, tutti filosofi considerati empi dagli ambienti culturali benpensanti italiani. Pietro Giannone, però, non fu filosofo, ma storico e la sua opera dal titolo Istoria civile nel reame di Napoli assume importanza perché si scaglia contro l'ingerenza della Chiesa sullo stato. 


Un altro intellettuale vicino agli ambienti culturali europei è Ludovico Antonio Muratori (1672 - 1750). Questi è più cauto di Giannone e assume importanza non nell'ambito filosofico, bensì in quello culturale e letterario.
Un vero e proprio illuminismo in Italia nasce nella metà del settecento, soprattutto grazie agli studi giuridici ed economici che si svilupparono a Napoli.



Fondatore dell'illuminismo italiano è l'abate Antonio Genovesi (1713 – 1769), fondatore della prima cattedra europea di economia politica. Genovesi fonda il proprio metodo seguendo la speculazione, l'indirizzo e l'insegnamento di Bacone e Galileo. Insegnamento che, però, radicalizza in un empirismo radicale, seguendo l'influsso di Locke. Per Genovesi è ridicolo, infatti, ricercare l'essenza delle cose. Bisogna, semmai, studiare i fenomeni. Il principio empiristico, però, non deve essere esteso all'ambito religioso e non deve fare nascere tutti quegli atteggiamenti antireligiosi maturati all'interno dell'illuminismo francese.
Seguace del suo insegnamento è l'economista napoletano Ferdinando Galiani (1728 – 1787), che costruisce e fonda la sua dottrina del liberalismo economico su di un metodo empiristico.






Il primo pensatore italiano che si richiama esclusivamente agli ambienti illuministici francesi è il giurista napoletano Gaetano Filangieri (1752 – 1788), il quale scrive una Scienza della legislazione che riprende il pensiero di Montesquieu. Mentre, però, per quest'ultimo le diverse costituzioni nascono esclusivamente dall'ambiente storico dei singoli popoli; per Filangieri derivano per metà dalle condizioni storiche, e per l'altra metà dai principi della ragione. Sono, infatti, i principi della ragione che dettano all'uomo l'ideale di perfezione.
L'illuminismo milanese è molto più legato all'illuminismo francese. Ciò appare chiaro già in Cesare Beccaria (1738 – 1794), autore di un'opera di vastissima diffusione dal titolo Dei delitti e delle pene (1764). Beccaria ha come suoi maestri pensatori quali Montesquieu, Helvetius e Rousseau. Da questi scaturisce la concezione che le leggi dello stato non devono essere eterne, e devono seguire le varie esigenze del momento e dei diversi periodi storici. In altre parole, le leggi di uno stato devono evolversi con l'evolversi della storia. Alla base della legislazione si deve, però, avere il fine di raggiungere la massima felicità per il maggior numero possibile di persone. Tale principio riprende la teoria di Rousseau affermante la dottrina del del contratto sociale stipulato tacitamente. In tale contesto diviene conseguente la celebre tesi di Beccaria dell'abolizione della pena di morte. Ed infatti, sia la pena di morte che la tortura divengono violazione dei diritti dei cittadini, perché non hanno alcuna utilità sociale che li possa giustificare. Compito del diritto penale è, infatti, quello di prevenire i delitti, e non di vendicarli.
Notevole è l'operato di altri due intellettuali, i fratelli Alessandro Verri (1741 – 1816) e Pietro Verri (1726 – 1797).
Il primo assume merito in ambito letterario, perché sostiene che la lingua deve essere funzionale, e non un valore autonomo con l'esclusivo compito di essere fruito esteticamente, come volevano i puristi.
Il secondo, invece, fu un importante economista e un filosofo di un certo rilievo con il Discorso sull'indole del piacere e del dolore, del 1773. In questo testo riprende le teorie di Rousseau ed afferma che nello stato di natura si ha il prevalere fisiologico del piacere sul dolore. Invece, nel mondo dominato dalla cultura, il dolore e l'ansietà assumono un peso sempre più maggiore. Un peso, però, che spinge l'uomo ad agire.
Detto ciò, appare chiaro che l'illuminismo milanese è molto più avanti di quello napoletano, anche perché le due realtà storiche sono totalmente diverse. Nonostante ciò, però, l'illuminismo italiano in genere si presenta come meno profondo e geniale di quello francese, anche se modernizza la cultura italiana, rimettendola sulla linea di quella europea.

Jean-Jacques Rousseau


Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) si viene a configurare come l'ultimo grande rappresentante dell'illuminismo francese. Pensatore ribelle, fuori dal tradizionalismo e dalle mode del tempo, viene odiato dai conservatori cattolici e protestanti, e, a seguito della pubblicazione dell'Emilio, viene condannato dal parlamento francese ed arrestato. Non fu simpatico nemmeno agli illuministi francesi: Diderot lo definisce un “grande sofista”, Voltaire ne parla come di un “arcipazzo”.
Rosseau nasce a Ginevra e fino a 28 anni conduce una vita dissoluta ed irregolare. Inoltre, non ha alcun contatto con la cultura ufficiale del tempo. Si mantiene alla meglio: dapprima fa il servitore per una ricca dama, poi per un conte. Fuggito da questi, vive di espedienti e si fa mantenere da una protettrice, di cui diviene amante. Nel 1740 si trasferisce a Parigi, e qui inizia a mantenersi copiando musica. A Parigi conosce gli ambienti illuministici, anche se il suo ingresso nel mondo della cultura avviene solo nel 1749, quando invia all'Accademia di Digione un saggio dal titolo Se il rinnovamento delle scienze e delle arti abbia contribuito a nobiliare i costumi. Inviò un secondo saggio nel 1753 da titolo Sull'origine della diseguaglianza tra gli uomini. Con questi due lavori si afferma nel mondo culturale francese, e la sua fama cresce con la pubblicazione nel 1761 della Nuova Eloisa. Qui viene esaltato l'amore semplice ed istintivo. Nel 1762 pubblica l'Emilio e il Contratto sociale. Con questi lavori iniziano le persecuzioni contro di lui: condannato dal parlamento francese, ripara a Ginevra e a Berna. Dovette, però, fuggire anche da qui perché la condanna si ripetette da parte del parlamento svizzero. Si reca allora in Inghilterra, dove viene ospitato dal filosofo Hume. Con cui, però, ben presto entra in collisione. Ritorna, quindi, frettolosamente in Francia, dove muore nel 1778.
Rousseau può considerarsi l'ultimo grande esponente dell'illuminismo. Con lui emerge una nuova sensibilità. Egli, infatti, si pone il problema se la cultura sia veramente utile. La risposta che fornisce non si inserisce né nella cultura tradizionalistica né nella nuova cultura illuministica. Ed infatti, Rousseau afferma che la cultura è dannosa per l'uomo primitivo, perché lo allontana dalla felicità dello stato naturale. Diviene, però, necessaria per gli uomini civilizzati. Ciò perché è meglio che un uomo corrotto (ovvero civilizzato) sia istruito piuttosto che ignorante. Detto ciò, è chiaro che il riconoscimento dell'importanza della cultura avviene solo perché ormai l'uomo si è corrotto con la conoscenza. Nel frattempo, però, Rousseau avanza una concezione del tutto nuova ed estranea alla mentalità illuministica, e cioè l'ideale del ritorno dell'uomo allo stato di natura. Il danno fondamentale che la cultura ha provocato nell'uomo è quello di aver fatto perdere l'equilibrio tra i bisogni e la facoltà di soddisfarli, propria dello stato naturale. Questo equilibrio è venuto meno perché l'uomo ha iniziato a riflettere tra i vari soddisfacimenti. Da questa riflessione nascono le passioni, la fantasia e la riflessione; e proprio con la riflessione si perde lo stato di natura. Una sola facoltà dello stato di natura ci è sopravvissuta, il sentimento. È, quindi, ad esso che bisogna rivolgersi se si vuole ritrovare quel minimo di autenticità che ancora è concesso all'uomo. Soltanto la rivalutazione del sentimento può portare ad un totale rinnovamento della società e della vita dell'uomo. Un rinnovamento molto più radicale e sostanziale di quello auspicato dagli illuministi con la ragione.
L'ideale di rinnovamento mediante il sentimento e la spontaneità viene da Rousseau applicato al campo dell'educazione, della religione e dello stato. La teoria dell'educazione si trova esposta nell'Emilio. Qui Rousseau afferma che il compito dell'educatore è quello di lasciare libero campo alla natura. Per fare ciò bisogna eliminare ogni ostacolo che impedisce il libero esercizio delle facoltà naturali del fanciullo. Il bambino non deve essere guardato con gli occhi dell'adulto, bensì con quelli del fanciullo, e il modo di procedere dell'educatore deve essere negativo (cioè volto ad eliminare gli ostacoli) e non positivo. L'educatore nel fare ciò non rimane inattivo, ma anzi si prodiga nel prevenire gli errori. L'educazione elaborata da Rousseau è un po' come la maieutica socratica, dove al posto dell'intelletto si trova il sentimento.
Il progetto di un rinnovamento religioso si trova in una nota dell'Emilio da titolo La confessione di fede del vicario savoiardo. Qui Rousseau afferma una religione naturale in linea con il deismo. L'unica differenza è che la fede in Dio non nasce da un atteggiamento razionale, bensì da un bisogno sentimentale; dal fatto che per l'uomo il dubbio è uno stato emotivamente insopportabile.
Il Contratto sociale nasce dalla voglia di un rinnovamento politico fondato sull'ideale dello stato di natura. Ed infatti, la sovranità per Rousseau è sempre del popolo. Pertanto, una sola è la forma di stato, anche se tante sono le forme di governo. Tra le varie forme di governo, quella che Rousseau preferisce è quella di un'aristocrazia elettiva. Ritiene, però, che il popolo non possa essere adeguatamente rappresentato dai deputati. Ed infatti, il popolo per esprimersi davvero dovrebbe essere adunato tutto quanto per le grandi decisioni. Ciò potrebbe avvenire soltanto se lo stato è di modeste dimensioni. Uno stato piccolo, governato direttamente dal popolo, è il solo che si avvicina allo stato ideale di natura.

sabato 23 giugno 2012

Voltaire


Voltaire (1694 – 1778) nel 1733 pubblica Le lettere filosofiche, considerate il manifesto dell'illuminismo francese e condannate ad essere bruciate dal Parlamento francese. Del 1751 è il saggio storico Il secolo di Luigi XIV. Del 1759 sono i romanzi Candido, La principessa di Babilonia, Zadig o il destino, L'ingenuo. Altra opera è il Dizionario filosofico (condannato anch'esso dal parlamento). Del 1763 è il Trattato sulla tolleranza, del 1776 i Dialoghi di Evemero, del 1756 il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni.
Voltaire è una delle figure più importanti ed eminenti dell'illuminismo francese. Tutta quanta la sua filosofia polemizza contro le varie forme di oppressione politica e di intolleranza religiosa. In lui, inoltre, si ha una spassionata fiducia nella ragione dell'uomo. Una ragione non dogmatica, capace di rinnovare la vita civile.
Voltaire si configura contrario a qualsiasi forma di metafisica contemporanea e avverso ad ogni forma di scolastica. Filosoficamente si allaccia alla filosofia lockiana e newtoniana. Seguendo Locke, Voltaire polemizza contro ogni forma di innatismo, ed afferma l'origine sensibile di tutte quante le conoscenze. A Newton, invece, riconosce il merito di avere compiuto una vera e propria rivoluzione scientifica e di aver scoperto la legge di gravitazione universale.
Voltaire si pone come un deista, ed infatti, afferma la convinzione che l'ordine dell'universo presuppone un'intelligenza suprema ordinatrice del tutto. Dio è il primo motore intelligente eterno, che ha formato un mondo eterno. Voltaire difende con forza la religione naturale, e polemizza contro quei philosophes che hanno sviluppato concezioni materialistiche ed ateistiche. Il deismo o teismo propugnato da Voltaire è quello di una religione pura, ragionevole, universale. Una religione che ha il suo nucleo essenziale nell'adorazione di Dio e nell'esser giusti, e da cui derivano tutte le religioni storiche, che, nel corso del tempo, si sono intrise di pratiche inutili e sterili. Il nostro filosofo polemizza contro queste religioni, in special modo contro il Cristianesimo, che è colpevole di atrocità e violenze.
Inoltre, rifiuta qualsiasi tipo di dogmatismo spiritualistico. Ciò perché non è mai stato dimostrato che l'attività del pensare non sia della materia allo stesso modo della facoltà del sentire. Pertanto, non si può sapere se vi sia una facoltà immateriale a cui spetti la facoltà del pensare. Il negare l'immortalità dell'anima non significa negare la legge morale. Ed infatti, interi popoli, come quello ebraico, e tanti filosofi hanno negato l'immortalità dell'anima, ma non per questo sono stati immorali.
La morale tracciata da Voltaire è una morale relativa alla società, e cioè “la virtù e il vizio, il bene e il male morale sono in ogni paese quel che è utile o nocivo alla società”. Il relativismo morale ha, però, un imperativo. Ed infatti, per Voltaire l'uomo ha avuto da Dio i mezzi per acquisire l'idea di giusto e di ingiusto, di bene e di male. Chiarificatrici sono le parole di Voltaire: “Il bene della società è l'unica misura del bene e del male morale”.
Molto più profonda è, invece, la riflessione di Voltaire circa la libertà. Essa è vincolata alla volontà, e cioè al fine di realizzare ciò che è buono e ciò che procura piacere. La libertà è vincolata alla volontà, la quale ci indirizza secondo il giudizio che ci formiamo su ciò che è buono e ciò che è cattivo. Ma il giudizio che noi ci formiamo è legato necessariamente ai canoni valoriali della società in cui cresciamo. Società che, quindi, ci condiziona sin da piccoli. Per tale motivo, l'uomo nel suo agire, e nella sua libertà, è sempre vincolato. Questo tema viene chiarito ulteriormente nel Filosofo ignorante. Qui si sottolinea ancora di più il limite della libertà degli uomini, che sono creature di un essere eterno, il quale li inserisce in una “immensa macchina di cui sono appena un'impercettibile rotellina”. La presenza di Dio in tutto viene ancora di più chiarita in un ultimo scritto di Voltaire, e cioè nel Bisogna prendere partito ovvero il principio di azione (1775). Qui viene affermato che nella realtà esiste un solo principio di azione, e cioè il grande essere. Egli è la causa universale, il principio di azione che conferisce ai singoli tutte le loro facoltà.
La visione di Voltaire è, pertanto, fortemente pessimistica, perché pone l'accento sull'esistenza del male e del dolore, delle guerre e delle catastrofi naturali. Per Voltaire l'esistenza del male non può essere negato, perché esso fa parte della vita e si inserisce in quella immensa macchina di cui abbiamo detto sopra. Filosofi quali Leibniz e Shaftesbury hanno raccontato delle favole. Queste tematiche vengono ampiamente trattate in Candido o dell'ottimismo, dove si polemizza contro l'ottimismo provvidenzialistico dei teologi e dei leibniziani.
Il pensiero di Voltaire denuncia la misera condizione umana in difesa della ragione, e, conseguentemente, il nostro filosofo si pone in contrasto e in lotta contro i soprusi del potere politico e religioso e contro gli interessi che sottostanno alle costruzioni metafisiche. Voltaire non scrive in nome di utopie e chimere, bensì in costante riferimento al proprio tempo contemporaneo. Ed infatti, si batte contro il fanatismo, la superstizione, il dispotismo, gli organi giudiziari, le ingiustizie sociali. Egli stesso si fa difensore dei diritti degli uomini. Esemplare a tal riguardo è il Trattato sulla Tolleranza. Quest'opera prende spunto da un processo tenutosi a Tolosa contro un protestante. Processo che termina con la condanna e la morte del religioso. Da questo caso particolare Voltaire allarga il proprio discorso per denunciare le conseguenze nefaste dell'intolleranza, soprattutto di quella cristiana. Alla base dell'intolleranza si ha la superstizione, che per Voltaire è “quasi tutto che va oltre l'adorazione di un Essere supremo e la sottomissione del cuore ai suoi ordini”. Quindi tutto ciò che si formalizza in dottrine e riti, e che ha permesso la persecuzione e gli omicidi.
Il secolo di Luigi XIV è considerata la prima opera storica moderna. Qui Voltaire polemizza sia contro gli storici eruditi ed annalistici, sia contro gli schemi provvidenzialistici della storiografia ecclesiastica. Per Voltaire, il compito dello storico è quello di cogliere lo spirito di un'epoca. Spirito che si esplica al di là degli avvenimenti, e che si palesa nelle relazioni, negli usi, nelle idee, nei costumi di un preciso periodo storico. Nel Saggio sui costumi Voltaire sintetizza la storia universale dai popoli selvaggi all'impero Romano, dal medioevo all'epoca moderna, al fine di cogliere “lo spirito, i costumi, gli usi delle principali nazioni in rapporto a fatti che non è lecito ignorare”. Bisogna, pertanto, andare oltre i puri avvenimenti per cogliere ciò che di particolare ha un'epoca; per fare ciò bisogna comprendere il periodo storico di cui ci si sta occupando. In questa ricerca dello spirito delle nazioni non cessa la polemica di Voltaire verso tutto ciò che di irrazionale, superstizioso e fanatico si è avuto nella storia dei popoli. E proprio questi elementi hanno ostacolato il progresso dell'uomo. In queste tematiche troviamo tutto l'ideale illuministico di Voltaire, che afferma l'importanza della ragione umana, e che vuole liberare l'uomo dai miti e dalle false credenze per portarlo alla piena consapevolezza di sé. Questa fiducia nella ragione, nei lumi della ragione, interesserà tutta la metà del settecento. Gli illuministi, infatti, affermeranno che solo mediante la ragione si possono debellare i pregiudizi e superstizioni, e fondare una società civile giusta e libera dai governi tirannici e dalla povertà.

giovedì 21 giugno 2012

Montesquieu


Jacques de Secondat barone di Montesquieu nasce a Bordeaux, nel 1689, e compie studi classici e di diritto. Nel 1721 pubblica le Lettere Persiane, in due volumi. Del 1733 è il saggio dal titolo le Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza. Nel 1748 esce la sua opera più famosa, Lo spirito delle leggi. L'anno seguente esce una seconda edizione dell'opera, riveduta e corretta. Nel 1750 pubblica La difesa dello Spirito delle leggi, in cui vi sono chiarimenti alle due pubblicazioni precedenti. 
Collabora all'Enciclopedia di Diderot con la stesura di un saggio sul gusto, che, però, rimane incompiuto. Nel 1751 il suo Spirito delle leggi viene messo all'indice. Nel 1754 pubblica nuovamente le Lettere persiane con alcuni ampliamenti e con nuove lettere. Muore nel 1755 a Parigi.
Le Lettere Persiane vengono pubblicate in forma anonima nel 1721. Falso è anche il luogo di stampa che viene riportato nel testo. L'autore utilizza la forma letteraria del romanzo epistolare per mettere a confronto i diversi modi e stili di vita degli europei (nello specifico dei francesi) e dei persiani. Gli autori immaginari dell'opera sono due persiani che soggiornano lungamente in Francia. L'atmosfera del romanzo risponde ad una presentazione dei costumi orientali in maniera esotica. Ciò risponde al gusto del tempo, che permise il grande successo dell'opera. Dietro a questa quadretto riccamente costruito si ha una serrata critica verso il sistema politico francese dopo la morte di re Luigi XIV. Questi viene criticato per il suo assolutismo e per le sue incapacità governative. Ed infatti, John Law, finanziere scozzese, divenuto controllore generale delle finanze in Francia, causò, con le sue manie di intraprendenza, una delle crisi più disastrose per la nazione francese. Montesquieu polemizza, inoltre, contro la corruzione dei parlamentari, contro la decadenza della nobiltà e contro la corruzione in genere di tutta la società civile.
Non sfugge alla critica nemmeno la religione, che si è sterilizzata in pratiche superstizione, vissute senza alcuna partecipazione interiore. I cristiani si sono persi in dispute teologiche, che, invece di unire i fedeli, li separano. In dispute, quindi, che non sono servite a nulla, se non ad ingrossare le fila dei libri delle biblioteche.
Le Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro Decadenza (1734) sono il frutto di una meditazione che respinge qualsiasi tipo di schema provvidenzialistico nello sviluppo della storia dei popoli e delle civiltà. Montesquieu attua uno studio che voglia capire le condizioni reali che portano un popolo a divenire grande e a decadere dopo il raggiungimento del suo massimo sviluppo. In tal senso diviene esemplare la storia di Roma antica. Questa, infatti, grazie all'amor di patria dei romani, alla forza militare unita alle virtù dei cittadini, al coraggio, alla decisione di cacciare Tarquinio per la sua tracotanza, diviene una grande nazione. Grazie, anche, alla saggezza e allo spirito di sacrificio dei suoi politici e governanti. In seguito, però, con l'estensione esagerata dei suoi confini, con l'allargamento del diritto di cittadinanza romana (che di fatto annullava il prestigio di sentirsi romani), con lo sviluppo dell'amore per il lusso, con l'indebolimento militare, con la voglia di assoggettare popoli più con il denaro che con le guerre, con l'incapacità degli imperatori di governare, con l'incontro con la nuova cultura barbara, si avrà la fine di Roma e del suo mito. Lo stesso destino aspetta gli altri popoli e gli altri stati, tutti sottoposti a processi di nascita e di morte, di austerità e sviluppo del vizio e del lassismo culturale e sociale.
L'opera di Montesquieu che ha avuto più fortuna nella storia delle teorie politiche e costituzionali è lo Spirito delle leggi. Il tema affrontato nel saggio è ben chiaro a partire dal titolo completo, e cioè “Dello spirito delle leggi o del rapporto che le leggi debbono avere con la costituzione di ogni governo, con i costumi, il clima, la religione, il commercio, ecc.”
Il testo di Montesquieu è, pertanto, un saggio di scienza politica. Un saggio che intende studiare il come vengono storicamente a costituirsi le varie forme di vita civile. A tal fine, bisogna ricercare le leggi, che non devono rifarsi ad ideali utopistici e astratti; bensì alle concrete condizioni che realizzano il costituirsi di una società. Montesquieu intende fondare una vera e propria scienza politica, nel fare ciò segue la metodologia propria delle scienze naturali. Ed infatti, studia il costituirsi della società partendo dalla puntuale ed attenta osservazione delle forme di governo contemporanee. Ciò per scoprire le cause dei principi che sottostanno alla costituzione di un organismo politico. Bisogna, pertanto, scoprire le leggi, che, afferma Montesquieu, “debbono essere in relazione con il carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, con il genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia con il grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i commerci, i costumi, le maniere. Infine, esse hanno relazioni reciproche: con la loro origine, col fine del legislatore, con l'ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite”.
Tutto questo insieme di rapporti reciproci costituisce lo spirito delle leggi. Da ciò consegue il carattere relativo delle leggi, legate alle condizioni ambientali, come il clima, alle tradizioni, agli usi e costumi di ciascun popolo. Montesquieu, inoltre, espone una propria classificazione delle forme di governo:
  1. la repubblica, distinta in democratica ed aristocratica;
  2. la monarchia;
  3. il dispotismo.
Alla democrazia appartiene la virtù politica; alla monarchia appartiene il senso dell'onore; alla dispotismo appartiene la paura.
Le forme di governo sono conseguenti ai climi dei vari paesi; ed infatti “nei paesi freddi si avrà poca sensibilità per i piaceri: essa sarà maggiore nei paesi temperati, estrema in quelli caldi. Come si distinguono i climi per gradi di latitudine, si potrebbe distinguerli, per così dire, per gradi di sensibilità. Voi troverete nei climi del nord popoli che hanno pochi vizi, sufficiente virtù, molta sincerità e franchezza. Avvicinatevi nei paesi del Mezzogiorno e vi sembrerà di allontanarvi dalla morale stessa: passioni più vive moltiplicano i delitti, ciascuno cerca di assicurarsi, a danno degli altri, tutti i vantaggi che possono favorire le passioni stesse. Nei paesi temperati voi vedrete popoli inconstanti nelle proprie maniere, negli stessi vizi e nelle loro virtù: il clima non vi ha una parte abbastanza determinante per renderli costanti”.
I climi determinano i comportamenti dei popoli, e la religione (da Montesquiu studiata in senso naturalistico) costituisce un fattore determinante e necessario perchè vincola i comportamenti degli individui.
Dal modello politico inglese, da lui appreso nei soggiorni londinesi, ne ricava una tripartizione dei poteri. La distinzione tra il potere legislativo (Parlamento), esecutivo (Governo) e giudiziario (Magistratura) è di notevole importanza, perché, come afferma lo stesso Montesquieu, garantisce la libertà. Ed infatti, i poteri non sono controllati ed esercitati da una sola figura, bensì da più organi che si controllano e limitano a vicenda.

lunedì 18 giugno 2012

L'enciclopedia francese e d'Alembert


L'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri venne diretta da Diderot e d'Alembert, ed ebbe un numero vastissimo di collaboratori. Tra essi, i più importanti furono Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Quesnay, Turgot. Molte furono, inoltre, le collaborazioni di scienziati ed ecclesiastici.
I primi due volumi uscirono nel 1751 – 1752. Notevoli furono le critiche mosse contro l'opera da parte degli ambienti conservatori, che accusarono l'Enciclopedia di “distruggere l'autorità regia, diffondere atteggiamenti di indipendenza e ribellione, e, sotto termini oscuri ed equivoci, gettar le basi dell'errore, della corruzione dei costumi, dell'irreligione e dell'incredulità”.
Nonostante le forti opposizione, l'opera continuò ad essere pubblicata. Grazie soprattutto ai forti appoggi degli ambienti di corte. Con la pubblicazione del VII volume giunse, però, la condanna papale (1759).
D'Alembert, alla luce di questi fatti, decise di ritirarsi dalla direzione, che rimase in mano soltanto a Diderot. Questi riuscì a portare a compimento l'opera, che venne definitivamente conclusa nel 1772. Presto verrà ristampata e tradotta in varie lingue.
Importante è Il discorso preliminare dell'Enciclopedia scritto da d'Alembert. In esso, infatti, oltre ad essere tracciate gli scopi dell'opera, vengono sintetizzate i temi centrali dell'illuminismo.
Il discorso è diviso in due grandi parti. Nella prima viene chiarita la nozione di “enciclopedia”, cioè di compendio di tutte le conoscenze umane; nella seconda vengono spiegate le basi di ogni scienza. Inoltre, viene data una storia del progresso della cultura, della filosofia, delle tecniche e delle scienze. D'Alembert, rifacendosi alla filosofia di Locke, distingue tra conoscenze dirette e conoscenze riflesse. Dirette sono quelle conoscenze che riceviamo immediatamente, senza alcun intervento della volontà; riflesse sono quelle conoscenze che lo spirito riceve rielaborando quelle dirette, unificandole e combinandole. Le conoscenze dirette sono tutte quelle che riceviamo dai sensi. Conseguentemente, tutte le nostre idee provengono dalle sensazioni. Le sensazioni ci rendono consapevoli sia della nostra esistenza che di quella degli oggetti esterni. L'oggetto del mondo esterno che più attira la nostra attenzione è il nostro stesso corpo, che noi cerchiamo di preservare dal dolore e dalla distruzione. La scoperta del nostro corpo ci immette nella consapevolezza dell'esistenza di altri esseri simili a noi, altri uomini, con gli stessi bisogni nostri e con le stesse esigenze di soddisfarle. Per l'uomo, quindi, diviene molto utile unirsi coi propri simili per aiutarsi in maniera reciproca e per più facilmente combattere ciò che è nocivo. Una società, però, per formarsi ha bisogno del linguaggio, e cioè dell'invenzione dei segni. Ed infatti, solo tramite questi si possono comunicare le idee. In una società, il più forte tende a voler prevaricare il più debole. Come reazione a ciò nasce il concetto di giusto e di ingiusto, e quindi il giudizio morale. È chiaro, pertanto, che per d'Alembert anche la morale ha una genesi empirica. La necessità di preservare il proprio corpo fa nascere tutte quelle tecniche, quali la medicina, l'agricoltura, la pastorizia e tutte le altre arti, per dominare le forze della natura. Sempre al fine della propria utilità, l'uomo costruisce una fisica. Nella costruzione della fisica, d'Alembert ha come suo maestro Newton. In altri termini, d'Alembert applica le idee semplici di Locke alle definizioni dei principi della fisica di Newton, quali quella di massa, moto, impenetrabilità, ecc. Su queste definizioni, afferma d'Alembert, non bisogna soffermarsi più di tanto, perché si cadrebbe nella metafisica. Bisogna soltanto studiarli ed applicarli con il rigoroso metodo quantitativo della matematica. Alla stessa maniera, d'Alembert dalla geometria deduce l'aritmetica o scienza dei numeri. Da quest'ultima deduce l'algebra o scienza delle grandezze. Da questa la meccanica, l'astronomia; sino a giungere alla logica, alla grammatica, alla retorica, alla cronologia, alla geografia, alla politica.
Tutti questi saperi, quindi, nascono dalla combinazione delle idee semplici. Questo sapere prende il nome di filosofia. Da questi saperi nascono le conoscenze riflesse, e cioè quelle idee che noi ci facciamo immaginando, e da cui nascono le arti belle, ad imitazione della natura.
Giunto a questo punto, d'Alembert passa ad esaminare l'organizzazione espositiva dell'opera. In questa operazione d'Alembert riprende la classificazione baconiana tracciata nel De augmentis scientiarum. Le poche differenze che si possono rilevare sono il mutamento dell'ordine delle tre facoltà della mente umana. Ed infatti, per gli enciclopedisti le discipline vanno classificate in rapporto alle facoltà della mente: alla memoria si riferisce la storia, alla ragione si riferisce la filosofia, all'immaginazione si riferiscono le belle arti. D'Alembert, alla stessa maniera di Bacone, considera tutte le scienze di pari dignità. Ciò porta alla rivalutazione delle scienze meccaniche e delle tecniche. L'Encliclopedia, infatti, impiega ben undici dei suoi volumi in illustrazioni di disegni di macchine, di tecniche produttive, di officine, ecc.
Sempre nel Discorso viene chiarito che i filosofi a cui gli illuministi si rifanno nella stesura dell'Enciclopedia sono Bacone, fondatore della scienza moderna; Locke, che ridusse la metafisica a fisica sperimentale dell'anima; a Newton, Leibniz e Cartesio, da cui si prendono le distanze per quegli aspetti metafisici del suo sistema.

sabato 16 giugno 2012

Illuminismo francese, Le Mettrie, Helvetius, Diderot, Condillac, D’Holbach


Per la definizione dell’Illuminismo si è fatto più volte riferimento ad uno scritto di Kant, Che cos’è l’Illuminismo? In tale definizione è posto l’accento sull’identificazione dell’Illuminismo con l’autonomo e coraggioso uso della ragione, che rappresenta l’uscita per gli uomini dallo stato di minorità e di sudditanza rispetto all’autorità e alla tradizione, quindi la liberazione dai pregiudizi e la conquista della libertà. Per l’illuminismo, la ragione è lo strumento più efficace per liberare gli uomini – tutti gli uomini in quanto tutti ugualmente capaci di ragione – dagli errori e dai pregiudizi che si vedono incarnati dalle istituzioni tradizionali (la scuola, gli Stati, le Chiese). Il centro del movimento illuminista è rappresentato dalla cultura francese del ‘700, anche se la cultura inglese con Locke e Newton ha avuto un ruolo grande nella formazione di tale movimento. Gli intellettuali francesi, seppur sviluppano interessi di ricerca diversi, convergono in alcuni temi di fondo che culmineranno nella pubblicazione dell’Enciclopedia, destinata a divenire il punto di incontro di molti intellettuali illuministi ed emblema dell’intero movimento.
Le Mettrie (1709-1751) entra in polemica contro ogni forma di speculazione spiritualistica e religiosa, e svolge una concezione radicalmente materialistica. Centrale nella sua speculazione è la materia concepita non solo come estensione, ma anche come sostanza attiva, dotata cioè della facoltà di muoversi e di sentire. Dalla capacità di sentire deriverebbe il pensiero. Da ciò una concezione prettamente meccanicistica della materia o della natura, da lui concepita come una realtà eterna in perpetua trasformazione, dove le forme si succedono continuamente. Al vertice di questo processo evolutivo, afferma nel “L’Uomo macchina”, si pongono le macchine più complesse come gli animali e gli uomini. Il meccanismo nervoso è la struttura portante sia dei processi sensitivi che di quelli intellettuali, per cui non ha senso parlare di un’anima al di fuori dell’organizzazione del corpo. Gli organi di senso, passivi rispetto agli impulsi esterni, percepiscono la realtà attraverso la modificazione dell’apparato nervoso. Da ciò nascono la sensazione, la memoria, le inclinazioni e i caratteri. Dalla maggiore o minore forza deriva la maggiore o minore chiarezza di un’idea sempre legata all’esperienza sensibile. Anche lui, come Locke, distingue idee semplici e idee complesse, quest’ultime derivate dalle prime. Egli, però, afferma che non possiamo mai conoscere con assoluta esattezza le cose della realtà esterna, e neppure avere sicurezza delle qualità primarie (estensione, movimento), in quanto queste vengono recepite dai nostri sensi e con altri sensi avremmo idee differenti delle stesse qualità. L’orizzonte delle nostre conoscenze è quello delle nostre sensazioni: il nostro pensiero si ferma pertanto alle apparenze sensibili come sono percepite dal soggetto senziente. Le Mattrie afferma, inoltre, che gli organi di senso ci sono dati più per l’autoconservazione che per la conoscenza delle cose esterne, ciò non vuole dire che i nostri sensi siano erronei di per sé. L'errore, infatti, nasce solo quando giudichiamo troppo in fretta, cioè quando operiamo giudizi che escono dall’orizzonte delle nostre modificazioni sensoriali. Le Mattrie non riesce, però, a dare alcuna spiegazione di come la materia possa sentire e pensare, ma riconduce le passioni a modificazioni indotte nel sistema nervoso dagli oggetti esterni: di fronte a certe idee o dolore si genera l’amore o dolore, e da qui piacere o odio. L’uomo dunque, al pari degli altri esseri, è una macchina; con la sola differenza che essa è più complessa in quanto ha un sistema nervoso più complesso e un cervello più grosso. Ma non vi è bisogno di ricorrere a Dio per spiegare la sua origine: egli nasce per caso e vive e muore come i funghi e i fiori. Anche la natura ha in sé, e non in altro, la spiegazione del suo esistere.
Helvetius (1715-1771) scrisse un’opera capitale per l’illuminismo: Lo spirito (1758). Lo spirito è per l’autore la facoltà sensitiva che riceve impressioni prodotte in noi dagli oggetti esterni. Queste impressioni vengono conservate nella memoria. Ora, sensazioni e memoria sono le uniche due cause produttrici dei nostri pensieri. Se l’uomo ha capacità più raffinate rispetto agli animali, questo è dovuto alla migliore organizzazione degli organi corporei. Dalle sensazioni e dalle parole per indicare gli oggetti sentiti nasce anche il mondo dei valori morali. Helvetius vuole costruire una morale utile, secondo principi certi come quelli della fisica sperimentale. Lo studio si muove dalle passioni. Di esse solo due sono fondamentali, e cioè il piacere e il dolore: questi due sono i soli motori del mondo morale. Dagli interessi privati nasce un interesse generale per tutelare meglio la conservazione della vita e dei beni, rinunciando alla forza e stipulando delle convenzioni; in base a queste convenzioni si sono costituite le idee di giusto e ingiusto.
Diderot (1713-1784) nei suoi Pensieri Filosofici, in polemica con gli esiti estremi dell’ateismo e contro le varie forme di superstizione che avevano inquinato le religioni storiche, difende i temi di una religione naturale fondata sulla ragione; nel fare ciò però egli nega la necessità della rivelazione, l’ispirazione della Sacra Scrittura, i miracoli e allinea tutte le religioni all’interno di una medesima fenomenologia. In seguito fa propria l’idea (nell’Interpretazione della natura) di una originaria materia dotata di movimento e capace di spiegare, per il suo interno dinamismo, la formazione di tutti gli esseri, compreso l’uomo che ha origini e destini non diversi da tutti gli altri esseri. Diderot afferma, comunque, che l’uomo ha una posizione differente dall’animale e non si differisce da esso per il solo fatto che combina le idee. A proposito del senso della vita scrive: Cos’è un essere? La somma di un certo numero di tendenze. Le specie non sono che tendenze, verso un termine comune che è loro proprio. E la vita? La vita, un seguito di azioni e reazioni. Da vivo agisco e reagisco in massa…da morto agisco e reagisco in molecole…dunque non muoio? No senza dubbio, in questo senso non muoio affatto né io né chicchessia…nascere, vivere e trapassare è cambiare forme”.
Condillac (1714-1780) avvia un discorso dove si ha la totale riduzione alle sensazioni di ogni attività psichica e conoscitiva. Nel suo Saggio sull’origine delle conoscenze umane e nel Trattato delle sensazioni Condillac critica la distinzione lockiana tra sensazioni e riflessione come fonti distinte delle idee, riducendo alla sola sensazione l’origine delle nostre idee e intendendo la riflessione non come sorgente delle idee, ma come canale per cui queste derivano dai sensi. Per spiegare il costituirsi della conoscenza e dei comportamenti nell’uomo, Condillac fa l’uso del paragone dell’uomo con una statua. A questa statua Condillac ipotizza di dare uno ad uno, in successione, i cinque sensi (odorato, udito, gusto, vista, tatto), per poi studiare come dal progressivo ampliamento delle esperienze sensibili nascano nella statua “il giudizio, la riflessione, i desideri, le passioni” che sono “la sensazione stessa che si trasforma diversamente”. Funzione prioritaria nell’attività della statua svolgono le sensazioni di piacere e di dolore, esse fanno nascere i desideri, le abitudini e le inclinazioni di ogni sorta. In altre parole, alla base di tutti i processi psicologici e conoscitivi vi è una dinamica emotiva e passionale. Ora, mentre i primi quattro sensi (odorato, udito, gusto, vista) non permettono di uscire dall’orizzonte della propria interiorità, perché con essi i corpi non sono percepiti come esterni. La statua, infatti, percepisce solo le proprie modificazioni, le “modificazioni dell’anima”. Il tatto, invece, si viene a configurare come il più importante di tutti i sensi, ed infatti ci porta a giudicare che vi sono fuori di noi delle realtà vicine le une alle altre. La statua scopre, in tal modo, i corpi estesi, ai quali vengono attribuite le qualità percepite dagli sensi. È così il soggetto prende conoscenza del proprio corpo e dei corpi esterni. Divenuto capace di esercitare tutti i sensi, il soggetto, spinto dalla necessità di provvedere alla propria conservazione, da senziente diviene attento e riflessivo: nella memoria ripone le sensazioni passate; quindi, facendo attenzione alle sensazioni passate e presenti, le paragona tra loro formulando giudizi: “In tal modo la sensazione diviene successivamente attenzione, comparazione, giudizio”. Tutta la nostra conoscenza ha origine diretta dalla sensazione e da essa si formano le idee, distinte in semplici e intellettuali. Le semplici sono quelle che agiscono attualmente sui sensi. Le intellettuali sono quelle che abbiamo dopo che l’oggetto rappresentato non è più innanzi a noi, ma che ha lasciato, in noi, la sua impressione. Dal susseguirsi delle sensazioni e dai bisogni nasce il linguaggio, dapprima gestuale e poi articolato. Nel Trattato sui sistemi critica ogni pretesa metafisica.
D’Holbach (1723-1789), collaboratore dell’Enciclopedia, scrive il Cristianesimo svelato, L’abate e il rabbino, Il contagio sacro, David, Storia di Gesù, ove svolge una critica radicale delle tradizioni religiose, ridotte ad impostura che assoggetta i popoli a inutili paure ultraterrene per tenerli schiavi del potere politico; inoltre nelle Lettre a Eugenia, critica radicalmente la Bibbia e il sistema cristiano. Nel 1770 esce la sua opera più importante: Il sistema della natura, poi Il buon senso, la Politica naturale e il Sistema sociale. La sua concezione della realtà è radicalmente materialistica, egli afferma che natura è materia e movimento, in una perenne successione di cause ed effetti secondo leggi inflessibili. Tutto è materia e movimento: inutile chiedersi l’origine dell’una o dell’altra; la materia è sempre esistita, il movimento gli appartiene dall’eternità; gli eventi sono un concatenarsi necessario di moti diversi e successivi. L’anima non è altro che il corpo stesso considerato relativamente a talune sue funzioni. Il sentire è fonte di ogni conoscenza, e da essa nasce la memoria, l’immaginazione. Queste due nell’uomo si chiamano facoltà intellettuali. Quest’ultima è la ragione, ovvero la natura modificata dall’esperienza. Scopo dell’uomo è quello di conservare se stesso, a tale scopo intreccia rapporti con gli altri. Virtù e vizio non sono valori astratti ed eterni, ma nascono da dai concreti rapporti umani. Infine, la politica è “l’arte di dirigere le passioni degli uomini verso il bene della società”. Quindi, si ha una morale umana fondata sulla natura dell’uomo, sull’esperienza e sulla ragione. Questa morale avrà come suo compito la ricerca della felicità, cioè del benessere individuale e collettivo. Virtù è ciò che aiuta al raggiungimento di tale benessere, il vizio è invece quanto nuoce a tale felicità.

giovedì 14 giugno 2012

Giambattista Vico


Nasce a Napoli il 23 Giugno del 1668 e vi muore il 22-23 gennaio del 1744. Fra il 1669 e il 1706 pronunciò sei prolusioni universitarie dal titolo Orazioni inaugurali, a cui si deve aggiungervene una settima, dal titolo De nostris temporis studiorum ratione. Nel 1710 pubblica il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, a cui seguirono due Risposte al Giornale dei letterati, il quale aveva criticato tali scritti. Scrisse anche una biografia del maresciallo Antonio Carafa: De rebus gestis Antonimi Carapaci. Nel 1720 pubblica il De universi iuris uno principio et fine uno, a cui seguiranno il De constantia iurisprudentis e le Notae. Nel 1725 compone l’Autobiografia e nel 1730 i Cinque libri de’ principi d’una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (la cosiddetta scienza nuova seconda). Infine, nell’anno della sua morte, esce la Scienza nuova terza. La componente fortemente umanistica della sua cultura lo farà giungere ad una serrata critica contro Cartesio, ciò è evidente nelle prime sei orazioni inaugurali e ancora di più nella settima. In tali scritti Vico polemizza con il metodo matematico-deduttivo di Cartesio, un metodo che secondo lui porta solo ad una insensibile astratta ragione, ad una eloquenza arida e ad un discorso sillogistico-matematico che non coglie l’articolata varietà del mondo umano. La difesa della retorica e dell’eloquenza combacia per il nostro filosofo con la difesa della ricchezza dell’uomo e delle sue 1000 sfaccettature, della sua fantasia e del suo ingegno. Diviene necessario, pertanto, lo studio della fisica, per Vico è necessario lo studio dell’uomo e delle sue forme storiche. I temi della polemica anticartesiana si fanno ancora più evidenti nel De antiquissima Italorum Sapientia, ove il filosofo, attraverso la ricerca etimologica di alcuni termini latini, vuole ritrovare un’antica sapienza italica e pitagorica; in maniera tale da potere fondare una metafisica che sia base della fisica. In oppostone a Cartesio e alla sua materia come estensione egli afferma che i corpi sono costituiti da punti metafisici o conati, punti cioè dotati di una propria vitalità e forza e che generano l’universo. Più importante è la critica contro il cogito cartesiano, Vico, a questo proposito, afferma che il cogito non riesce a convincere gli scettici. Questi infatti non negano la certezza del loro essere e della loro esistenza, ma sconoscono le cause del pensare e il modo in cui il pensiero si forma. Inoltre l’errore, per Vico, sta nel volere fondare la verità su delle idee chiare e distinte; il vero criterio di verità è invece nella conversione del vero e del fatto. Il principio della conversione o reciprocità del vero e del fatto afferma che il conoscere consiste nel conoscere i modi della nascita delle cose, cioè nel farle, in altre parole, non si conosce se non quello che si fa. Vico afferma che solo Dio ha la conoscenza delle cause e delle sue strutture metafisiche, in quanto è Lui ad avere creato il mondo. L’uomo è quindi capace di conoscere solo ciò che è in grado di costruire, come la matematica. Essa è però una scienza convenzionale, astratta e che si muove in figure come sfere e triangoli non presenti in natura. Certezza maggiore può l’uomo ritrovare in fisica nella misura in cui riesce a ricostruire il fenomeno in laboratorio. Infine assai più problematica è meno certa è la morale, che vuole attingere e conoscere i moti dell’anima. Impegnandosi a studiare il mondo umano giunge alla formulazione della cosiddetta scienza nuova. Egli è cioè convinto che sia possibile costruire una scienza della storia attraverso l’individuazione di leggi e costanti universali. Questa scienza nuova è possibile proprio perché il mondo della storia è fatto dagli uomini. Questa è la prima fondamentale certezza che permette di uscire fuori dal mare di tutte le incertezze che sembravano rendere impossibile una scienza della storia. I due strumenti scientifici della storia sono la filosofia e la filologia (ove con tale termine Vico intende tutte le ricerche di grammatica, di storia, di critica e di tutto quanto investe il mondo storico nella sua estrema molteplicità). Tramite questi due strumenti l’uomo può giungere dallo studio del particolare fatto storico alla definizione di leggi ed idee eterne che nella storia trovano la loro verifica. Secondo tale metodo si svolge la sua ricostruzione della storia delle nazioni: come la vita dell’uomo, così la vita dei popoli si svolge attraverso la successione di tre momenti, senso, fantasia, ragione. Ciò significa che dapprima l’uomo avverte, poi avverte con animo perturbato e commosso, infine riflette con mente pura. Ai tre momenti del senso corrispondono tre età del divenire storico: l’età degli dei (sotto il dominio diretto di una credenza nella divinità che manifesta i suoi voleri tramite auspici ed oracoli); l’età degli eroi (delle repubbliche aristocratiche); l’età degli uomini (repubbliche popolari e monarchiche). A queste tre età corrispondono tre forme di espressione linguistica, tre scritture: la geroglifica (per atti muti), la simbolica (linguaggio poetico); l’epistolare (ossia letteraria). La prima età vede un uomo talmente immerso nelle tenebre dei sensi da essere inerme di fronte alle forze della natura. Presi dal terrore concepiscono il pensiero di una qualche divinità; nasce così il concetto della divinità, tutta ammantata di miti e fantasia. Così sotto lo stimolo di una primitiva esperienza religiosa si ha il nascere della vita civile. Ma tale processo non è semplice opera dell’uomo; al di sopra di essi vi è la provvidenza che, dai diversi fini perseguiti dagli uomini e dalle nazioni, conduce tutti sulle vie del progresso, con un disegno e un fine universale, che è sempre superiore e spesso contrario ai fini particolari che gli uomini si erano proposti con le loro azioni (teologia civile ragionata della provvidenza). Lo stato dei primi uomini è uno stato di “stupidi, insensati ed orribili bestioni”, che vivono una vita ferina e che a poco a poco grazie allo stimolo del terrore della divinità, scoperta e impersonata nelle forze della natura, cominciano a darsi forme di vita sociale. È l’età degli dei e poi degli eroi. È un mondo concepito come un fanciullo, e cioè tutta corporeità e fantasia che si esprime in linguaggio fatto prima di gesti e di rappresentazioni, di immagini, e che poi giunge ad un linguaggio articolato, poetico, espressione della vivissima fantasia. Presso gli antichi popoli Vico non rivede una sapienza riposta o un’età dell’oro, ma in contrapposizione agli studiosi che vedevano negli antichi modi di vita evoluti e razionali, afferma che essi vivevano in una condizione ferina. Ora poiché tali popoli avevano una vivissima fantasia nasce il linguaggio, che non è una mera convenzione, ma bensì l’esigenza di esprimere quello che avvertivano con animo perturbato e commosso. Quello che i primi popoli esprimono in linguaggio è poesia, poiché: tutti calati nella corporeità, rifuggenti da astrazioni e razionalizzazioni, il loro esprimersi è un esprimersi per comparazioni, similitudini, metafore e immagini. Con gli dei nascono i sacrifici, i miti, i culti e le religioni, oltre che il culto dei morti. Il mito non è, come si pensava, un modo per velare una realtà che si era scoperta con fine raziocinio, ma bensì creazioni della fantasia primitiva in cui dobbiamo leggere le condizioni reali dei primi uomini, i loro modi di vita, il loro atteggiamento di fronte al mondo fisico: i miti sono pertanto testimonianza vera della loro storia. Le tre età del mondo giungono come apice all’età in cui si usa la ragione. Qui nascono però i germi della crisi: ci si ferma in sottigliezze di ingegni ambiziosi e si perde la fede in Dio. Allora la società decade e se ne forma una nuova. Tale concezione prende il nome di corsi e ricorsi storici.