Di
Socrate abbiamo solo testimonianze indirette, dato che egli,
preferendo il dialogo e il confronto critico, non ci ha lasciato
nulla di scritto. Quello che sappiamo di lui ci è riferito dal suo
più grande allievo, Platone, dal sofista Policrate, autore di una
Accusa
di Socrate,
dal musicologo Aristosseno di Taranto, autore di una Vita
di Socrate,
dallo storico Senofonte, autore dei Memoriali
di Socrate,
dal commediografo Aristofane, autore di una commedia, a lui dedicata,
dal titolo Le
Nuvole
e da Aristotele, discepolo di Platone.
Socrate
nasce ad Atene nel 469, ed ebbe come padre lo scultore Sofronisco
e come madre la levatrice Fenarete.
Di famiglia benestante, potette effettuare gli studi tipici della
borghesia ateniese, concentrandosi soprattutto nella musica, nella
poesia e nella scultura. Si sposò per ben due volte, ma nessuno dei
matrimoni fu felice, soprattutto il secondo con Santippe, una donna
insopportabile. Coltivò amori omosessuali, tra cui il più
importante fu quello con Alcibiade,
che salvò dalla morte, guadagnandosi la fama di eroe, durante la
battaglia di Potidea (432). In avanzata età, e cioè verso i
sessant'anni, si trovò in difficoltà economiche e politiche. Queste
ultime crebbero nel 405, quando salirono al potere di Atene i Trenta
Tiranni. Uno di essi, Crizia, era amico di Socrate, e quando il
governo dei Trenta venne rovesciato nel 403, Trasibulo ed Anito lo
accusarono di empietà, ateismo e corruzione dei giovani. Venne
condannato a morte e costretto a bere la cicuta, pianta velenosa che
pose fine alla sua vita.
Ora,
a Socrate, durante il periodo di carcerazione, venne data la
possibilità di fuggire, ma egli preferì accettare il verdetto della
legge, perché “è
meglio subire ingiustizia piuttosto che farla».
Egli
accetta la morte, anche perché essa o è un sonno senza sogni, o è
un viaggio verso un mondo migliore, dove si possono avere degli
ottimi interlocutori con cui confrontarsi. Quindi, egli continuerà
persino nell'aldilà a professare quel principio a cui si era
attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.
Per
aver accettato il proprio destino con rassegnazione la sua figura è
stata dai posteri “martirizzata”, tanto da divenire il prototipo
del vero filosofo, di colui che muore in nome delle sue idee e in
difesa della libertà di pensiero.
La
morte di Socrate ci viene descritta in maniera dettagliata da Platone
in un suo dialogo dal titolo il Fedone.
Qui egli appare trascorrere serenamente le ultime ore della sua vita:
dialoga con i discepoli sull'immortalità dell'anima e sul destino
che ci aspetta dopo la morte nell'aldilà. Dopo di ciò, si reca in
una camera vicina per lavarsi e, ritornato in cella, saluta i suoi
tre figli, Sofroniso, Lamproche, Menesseno e la moglie Santippe, che
invita ad uscire e ad andarsene. Congedati i familiari, scende il
silenzio nella cella e giunge il messo delle Undici, che gli comunica
che l'ora è arrivata. L'amico Critone invita Socrate a rimandare
ancora il momento, perché non era ancora giunta l'ora del tramonto,
tempo stabilito dalla condanna, ma Socrate risponde:
“É
naturale che costoro facciano così perché credono d'aver qualcosa
da guadagnare...[io] credo di non aver altro da guadagnare, bevendo
un poco più tardi [il veleno], se non di rendermi ridicolo a' miei
stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non
c'è più niente da risparmiare...”
Bevuta
la cicuta, gli amici si abbandonano al pianto e alla disperazione, e
Socrate così si rivolge ad essi:
“Che
stranezza è mai questa, o amici, non per altra ragione io feci
allontanare le donne perché non commettessero di tali discordanze. E
ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire.
Orsù dunque state quieti e siate forti.”
Poco
prima di morire si rivolge a Critone dicendogli
“...noi
siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non
dimenticatevene!”
Con
queste ultime parole Socrate saluta la vita, preoccupandosi sino alla
fine di aver assolto i propri debiti con tutti, con gli uomini e con
gli dei. In particolar modo con Asclepio, dio della medicina, per
avergli donato una morte indolore, quale quella della cicuta, che
paralizza ed addormenta gli arti a poco a poco.
Socrate
si contraddistinse per il suo impegno etico – politico, in un
richiamo continuo a non essere presi da passioni, da interessi
demagogici, da sete di potere. Socrate fu interessato ad ogni forma
di discorso, ad ogni tipo di indagine e di dottrina che riguardasse
l’uomo e la società.
Egli
non intende rendere gli uomini dotti, ma consapevoli. Il suo intento
era quello di suscitare negli altri una coscienza critica, di
richiamarli sempre a rendersi conto delle proprie idee e delle
proprie azioni.
Non
vi sono maestri da cui accettare passivamente un insegnamento, un
sapere: il
vero sapere è personale conquista della consapevolezza di sé.
Quando Socrate affermava di non sapere diceva due cose molto
importanti:
- che non è dato all’uomo sapere niente delle cose dell’essere e della realtà in sé (e in ciò ritroviamo la sua formazione giovanile di stampo sofistico);
- l’uomo che agisce e pensa correttamente non ha una volta per tutte la formula che gli dice come deve comportarsi, ma deve sempre ricercare cosa sia il bene o la virtù in rapporto alle concrete condizioni date.
Il
altre parole, il sapere di cui parla Socrate è sapere come conquista
del corretto ragionamento, ossia capire quando è bene fare questa o
quella azione, che è buona in quanto reputo che sia bene farla ora.
Quindi
ciascuno per essere virtuoso deve essere se stesso. Una sola è
dunque la virtù: conoscere
se stessi,
sapere di volta in volta cos’è il bene. Il male è invece
ignoranza di sé, poiché chi conosce sé non può volere il male,
che sarebbe un andare contro se stesso; da ciò nessuno
fa il male volontariamente.
Per tale motivo Socrate è assertore di un razionalismo
etico
(dottrina secondo la quale nessuno fa il male sapendo che è male, ma
solo perché crede erroneamente bene ciò che è male).
Intento
di Socrate era portare coloro che si ritenevano competenti in un
determinato campo ad irritarsi con sé medesimi. Da ciò scaturiva
l’ironia socratica che, unita alla dialettica, gli permetteva di
suscitare nell’interlocutore il dubbio sulle proprie convinzioni,
di condurlo, quindi, alla consapevolezza di non sapere. Da ciò,
proseguendo nel dialogo, l’interlocutore, stimolato dalle domande
di Socrate, poteva ritrovare in sé stesso la verità. Era, cioè,
condotto a partorire la verità: ed ecco, accanto all’ironia, la
maieutica (o arte del partorire).
Socrate
affermava di non sapere, e proprio questa constatazione lo portava a
non avere certezze che vincolassero il suo continuo ragionamento
critico. Per tale motivo, si rivolgeva a coloro che venivano
considerati sapienti in una data disciplina. E interrogati con delle
domande opportunamente costruite sul che
cos'è
(ti esti) una data cosa, come il coraggio, la religiosità, la
saggezza, ecc., questi dotti entravano in crisi con se stessi e con
le proprie convinzioni. Ed ecco che Socrate giungeva la suo primo
obiettivo, che era quello di immettere nell'interlocutore “il
dubbio” sulle proprie certezze. Per Socrate, come per i sofisti,
l'uomo non può sapere nulla dell'essere e del non-essere, perché
essi sfuggono alle possibilità umane, ma può giungere a delle
conoscenze certe, a delle definizioni, delle cose e delle azioni non
sovrumane. Ma queste conoscenze non sono già date nell'uomo. Sono,
semmai, il frutto di un lavorio, di una ricerca razionale, di un
perenne atteggiamento critico verso il già dato, verso le credenze e
le certezze.
Questa
interrogazione basata sul che
cos'è
venne detta ironia. Essa era legata alla maieutica,
e cioè l'arte dell'ostetricia. Con la differenza che non si
partoriva bambini, bensì idee e definizioni. Ed infatti, affermava
Socrate, così come è compito dell'ostetrica il far partorire, e non
il partorire ella stessa, allo stesso modo è compito del filosofo
aiutare gli ateniesi a trovare da soli le proprie certezze, e non a
dargliele.
I
socratici
Molti
furono i discepoli di Socrate che svilupparono, ognuno a proprio
modo, il pensiero del maestro. I più notevoli, oltre Platone, furono
tre, e cioè Antistene, fondatore della scuola “cinica”, Euclide,
Fondatore della scuola “megarica” e Aristippo, fondatore della
scuola “cirenaica”.
Antistene
ed i cinici (Atene
444 – 365 a.C.) fondò un ginnasio detto Cinosarge (l’agile o il
bianco cane). Antistene afferma che ogni cosa è un’immagine o
rappresentazione di ciò che proviene dalla sensibilità. Da ciò
tutti i discorsi sono veri e inconfutabili. Per Antistene essere se
stessi significa bastare a se stessi (autarchia).
L’uomo schiavo è l’uomo preso dai bisogni; virtuoso è chi si
libera da tutto attraverso l’esercizio (ascesi) e la fatica. L’uomo
deve pertanto giungere a vivere come un cane randagio: liberi e
autonomi, senza patria, spogli di mollezza, itineranti con bisaccia e
mantello corto, senza a nessuno.
Euclide
e i megarici.
Euclide di Megera afferma che dell’Uno non è possibile dire nulla,
se non che è uno e bene; del molteplice non è possibile discorrere
senza finire in paradossi. Quindi impossibilità di discorrere sul
piano delle essenze e delle forme (idee).
Aristippo
e i cirenaici.
Aristippo di Cirene affermava che essere se stessi significa
possedere un equilibrio interiore, per cui non si è dominati dalle
cose. Tutto, ora per ora, volta per volta, si gode, sapendo che reale
è solo il presente. Accantona il problema dell’essere e anche la
matematica perché astratta, e accetta la tesi che è vera solo
l’impressione, per cui l’uomo è un essere discontinuo. La vita
dell’uomo è costituita da istanti, attimi, e per tale motivo il
filosofo è amico di tutti e di nessuno, può vivere nell’agio e
nella povertà. Il piacere è libertà.
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