martedì 29 maggio 2012

Socrate e i socratici


Socrate
Di Socrate abbiamo solo testimonianze indirette, dato che egli, preferendo il dialogo e il confronto critico, non ci ha lasciato nulla di scritto. Quello che sappiamo di lui ci è riferito dal suo più grande allievo, Platone, dal sofista Policrate, autore di una Accusa di Socrate, dal musicologo Aristosseno di Taranto, autore di una Vita di Socrate, dallo storico Senofonte, autore dei Memoriali di Socrate, dal commediografo Aristofane, autore di una commedia, a lui dedicata, dal titolo Le Nuvole e da Aristotele, discepolo di Platone.
Socrate nasce ad Atene nel 469, ed ebbe come padre lo scultore Sofronisco e come madre la levatrice Fenarete. Di famiglia benestante, potette effettuare gli studi tipici della borghesia ateniese, concentrandosi soprattutto nella musica, nella poesia e nella scultura. Si sposò per ben due volte, ma nessuno dei matrimoni fu felice, soprattutto il secondo con Santippe, una donna insopportabile. Coltivò amori omosessuali, tra cui il più importante fu quello con Alcibiade, che salvò dalla morte, guadagnandosi la fama di eroe, durante la battaglia di Potidea (432). In avanzata età, e cioè verso i sessant'anni, si trovò in difficoltà economiche e politiche. Queste ultime crebbero nel 405, quando salirono al potere di Atene i Trenta Tiranni. Uno di essi, Crizia, era amico di Socrate, e quando il governo dei Trenta venne rovesciato nel 403, Trasibulo ed Anito lo accusarono di empietà, ateismo e corruzione dei giovani. Venne condannato a morte e costretto a bere la cicuta, pianta velenosa che pose fine alla sua vita.
Ora, a Socrate, durante il periodo di carcerazione, venne data la possibilità di fuggire, ma egli preferì accettare il verdetto della legge, perché “è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla».
Egli accetta la morte, anche perché essa o è un sonno senza sogni, o è un viaggio verso un mondo migliore, dove si possono avere degli ottimi interlocutori con cui confrontarsi. Quindi, egli continuerà persino nell'aldilà a professare quel principio a cui si era attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.
Per aver accettato il proprio destino con rassegnazione la sua figura è stata dai posteri “martirizzata”, tanto da divenire il prototipo del vero filosofo, di colui che muore in nome delle sue idee e in difesa della libertà di pensiero.
La morte di Socrate ci viene descritta in maniera dettagliata da Platone in un suo dialogo dal titolo il Fedone. Qui egli appare trascorrere serenamente le ultime ore della sua vita: dialoga con i discepoli sull'immortalità dell'anima e sul destino che ci aspetta dopo la morte nell'aldilà. Dopo di ciò, si reca in una camera vicina per lavarsi e, ritornato in cella, saluta i suoi tre figli, Sofroniso, Lamproche, Menesseno e la moglie Santippe, che invita ad uscire e ad andarsene. Congedati i familiari, scende il silenzio nella cella e giunge il messo delle Undici, che gli comunica che l'ora è arrivata. L'amico Critone invita Socrate a rimandare ancora il momento, perché non era ancora giunta l'ora del tramonto, tempo stabilito dalla condanna, ma Socrate risponde:
É naturale che costoro facciano così perché credono d'aver qualcosa da guadagnare...[io] credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi [il veleno], se non di rendermi ridicolo a' miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c'è più niente da risparmiare...”
Bevuta la cicuta, gli amici si abbandonano al pianto e alla disperazione, e Socrate così si rivolge ad essi:
Che stranezza è mai questa, o amici, non per altra ragione io feci allontanare le donne perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù dunque state quieti e siate forti.”
Poco prima di morire si rivolge a Critone dicendogli
...noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene!
Con queste ultime parole Socrate saluta la vita, preoccupandosi sino alla fine di aver assolto i propri debiti con tutti, con gli uomini e con gli dei. In particolar modo con Asclepio, dio della medicina, per avergli donato una morte indolore, quale quella della cicuta, che paralizza ed addormenta gli arti a poco a poco.
Socrate si contraddistinse per il suo impegno etico – politico, in un richiamo continuo a non essere presi da passioni, da interessi demagogici, da sete di potere. Socrate fu interessato ad ogni forma di discorso, ad ogni tipo di indagine e di dottrina che riguardasse l’uomo e la società.
Egli non intende rendere gli uomini dotti, ma consapevoli. Il suo intento era quello di suscitare negli altri una coscienza critica, di richiamarli sempre a rendersi conto delle proprie idee e delle proprie azioni.
Non vi sono maestri da cui accettare passivamente un insegnamento, un sapere: il vero sapere è personale conquista della consapevolezza di sé. Quando Socrate affermava di non sapere diceva due cose molto importanti:
  1. che non è dato all’uomo sapere niente delle cose dell’essere e della realtà in sé (e in ciò ritroviamo la sua formazione giovanile di stampo sofistico);
  2. l’uomo che agisce e pensa correttamente non ha una volta per tutte la formula che gli dice come deve comportarsi, ma deve sempre ricercare cosa sia il bene o la virtù in rapporto alle concrete condizioni date.
Il altre parole, il sapere di cui parla Socrate è sapere come conquista del corretto ragionamento, ossia capire quando è bene fare questa o quella azione, che è buona in quanto reputo che sia bene farla ora.
Quindi ciascuno per essere virtuoso deve essere se stesso. Una sola è dunque la virtù: conoscere se stessi, sapere di volta in volta cos’è il bene. Il male è invece ignoranza di sé, poiché chi conosce sé non può volere il male, che sarebbe un andare contro se stesso; da ciò nessuno fa il male volontariamente. Per tale motivo Socrate è assertore di un razionalismo etico (dottrina secondo la quale nessuno fa il male sapendo che è male, ma solo perché crede erroneamente bene ciò che è male).
Intento di Socrate era portare coloro che si ritenevano competenti in un determinato campo ad irritarsi con sé medesimi. Da ciò scaturiva l’ironia socratica che, unita alla dialettica, gli permetteva di suscitare nell’interlocutore il dubbio sulle proprie convinzioni, di condurlo, quindi, alla consapevolezza di non sapere. Da ciò, proseguendo nel dialogo, l’interlocutore, stimolato dalle domande di Socrate, poteva ritrovare in sé stesso la verità. Era, cioè, condotto a partorire la verità: ed ecco, accanto all’ironia, la maieutica (o arte del partorire).
Socrate affermava di non sapere, e proprio questa constatazione lo portava a non avere certezze che vincolassero il suo continuo ragionamento critico. Per tale motivo, si rivolgeva a coloro che venivano considerati sapienti in una data disciplina. E interrogati con delle domande opportunamente costruite sul che cos'è (ti esti) una data cosa, come il coraggio, la religiosità, la saggezza, ecc., questi dotti entravano in crisi con se stessi e con le proprie convinzioni. Ed ecco che Socrate giungeva la suo primo obiettivo, che era quello di immettere nell'interlocutore “il dubbio” sulle proprie certezze. Per Socrate, come per i sofisti, l'uomo non può sapere nulla dell'essere e del non-essere, perché essi sfuggono alle possibilità umane, ma può giungere a delle conoscenze certe, a delle definizioni, delle cose e delle azioni non sovrumane. Ma queste conoscenze non sono già date nell'uomo. Sono, semmai, il frutto di un lavorio, di una ricerca razionale, di un perenne atteggiamento critico verso il già dato, verso le credenze e le certezze.
Questa interrogazione basata sul che cos'è venne detta ironia. Essa era legata alla maieutica, e cioè l'arte dell'ostetricia. Con la differenza che non si partoriva bambini, bensì idee e definizioni. Ed infatti, affermava Socrate, così come è compito dell'ostetrica il far partorire, e non il partorire ella stessa, allo stesso modo è compito del filosofo aiutare gli ateniesi a trovare da soli le proprie certezze, e non a dargliele.
I socratici
Molti furono i discepoli di Socrate che svilupparono, ognuno a proprio modo, il pensiero del maestro. I più notevoli, oltre Platone, furono tre, e cioè Antistene, fondatore della scuola “cinica”, Euclide, Fondatore della scuola “megarica” e Aristippo, fondatore della scuola “cirenaica”.
Antistene ed i cinici (Atene 444 – 365 a.C.) fondò un ginnasio detto Cinosarge (l’agile o il bianco cane). Antistene afferma che ogni cosa è un’immagine o rappresentazione di ciò che proviene dalla sensibilità. Da ciò tutti i discorsi sono veri e inconfutabili. Per Antistene essere se stessi significa bastare a se stessi (autarchia). L’uomo schiavo è l’uomo preso dai bisogni; virtuoso è chi si libera da tutto attraverso l’esercizio (ascesi) e la fatica. L’uomo deve pertanto giungere a vivere come un cane randagio: liberi e autonomi, senza patria, spogli di mollezza, itineranti con bisaccia e mantello corto, senza a nessuno.
Euclide e i megarici. Euclide di Megera afferma che dell’Uno non è possibile dire nulla, se non che è uno e bene; del molteplice non è possibile discorrere senza finire in paradossi. Quindi impossibilità di discorrere sul piano delle essenze e delle forme (idee).
Aristippo e i cirenaici. Aristippo di Cirene affermava che essere se stessi significa possedere un equilibrio interiore, per cui non si è dominati dalle cose. Tutto, ora per ora, volta per volta, si gode, sapendo che reale è solo il presente. Accantona il problema dell’essere e anche la matematica perché astratta, e accetta la tesi che è vera solo l’impressione, per cui l’uomo è un essere discontinuo. La vita dell’uomo è costituita da istanti, attimi, e per tale motivo il filosofo è amico di tutti e di nessuno, può vivere nell’agio e nella povertà. Il piacere è libertà.

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