Il
termine ellenismo venne utilizzato per la prima volta dallo storico
tedesco J.G. Droysen (1808-1884) per indicare il periodo tra la morte
di Alessandro Magno e la caduta dell’ultimo regno ellenistico,
quello di Cleopatra in Egitto, ridotto sotto la potenza di Roma (30
a.C.).
E'
un periodo di profonda trasformazione del contesto socio –
culturale dell'antica Grecia, che persa l'antica dipendenza politica,
si trasforma in una monarchia, con la cessazione della costituzione
in città – stato, e con l'innesto di apporti culturali di civiltà
diversissime a quella greca.
La
cultura greca viene in contatto con quella egiziana, mesopotamica,
iranica, indiana e di molti altri popoli. Con le conquiste operate da
Alessandro il Grande erano stati infranti i confini che suddividevano
i popoli, i quali entrano in contatto tra loro con il risultato di un
forte sincretismo culturale.
Muore
il vecchio mondo greco, chiuso in se stesso, dove coloro che non
appartenevano alla loro cultura venivano reputati dei barbari, gente
inferiore incapace anche di parlare, e nasce una nuova realtà
sociale, dove le credenze, le religioni, le tradizioni, le lingue, le
conoscenze s'innestano.
Il
greco avverte la precarietà del proprio presente, data dalla fine
della propria libertà politica; e questo senso di finitudine
interesserà tutti i campi, sia artistici che filosofici.
In
arte vediamo la perdita dell'armonia, della giusta misura, della
proporzione tra le parti. Le nuove statue rappresentano il vero, con
tutta la drammaticità dei volti e dell'espressione di questi.
Alla
filosofia, invece, si chiede di essere una disciplina che faccia da
ausilio all'animo umano, prostrato dalle carestie conseguenti alle
guerre, dalla cessazione dell'autogoverno democratico delle polis e
della condizione di cittadini. Il greco diviene un suddito, senza più
diritti e con soli doveri.
Per
queste ragioni non si sente più partecipe della politica, e, a dire
il vero, non può più esserlo. Pertanto, si rifugia in se stesso,
nel privato della propria anima. Al filosofo si chiede una parola di
conforto, un messaggio di saggezza. La stessa religione, ormai
confusa da nuove divinità e riti orientali, non riesce più a
confortare l'individuo, il quale ora non segue più l'ideale
dell'eroe, dell'uomo forte, bensì l'esempio del filosofo, di colui
che ricerca la felicità non nella ricchezza, nella fama e nel
successo, ma nell'autarchia e nell'apatia, ossia
nell'imperturbabilità, nell'assenza di passioni, nel non farsi
coinvolgere dalle vicende esterne, nel cercare nel proprio intimo
l'equilibrio e la serenità. L'uomo greco diviene cosmopolita,
cittadino del mondo, esce dai ristretti confini della propria città
e si viene a collocare in un contesto molto più vasto, in cui la
propria tradizione è un tutt'uno con quella delle culture orientali.
In
un tale contesto l'uomo greco perde le proprie certezze religiose,
politiche e culturali, e la filosofia matura una sorta di sfiducia in
se stessa, nelle proprie possibilità conoscitive e interpretative,
si connota anche di valenze pessimistiche e predica la fuga dalla
realtà, o, ancora meglio, il disinteresse verso le vicende politiche
esterne, verso la ricerca di successo, di notorietà, ecc.
Teofrasto,
nato ad Ereso nel 372, alla morte di Aristotele nel 322 prese le
redini del Liceo sino al 287 a.C., anno della sua dipartita.
Egli
abbandona ogni pretesa metafisica, in quanto dell’essere non si può
parlare, e proietta la ricerca scientifica entro una metodologia
descrittivo – empirica delle singole scienze.
Dicearco
di Messina,
350 – 290 a.C., volse gli studi verso l’Etica, sottolineando
l’importanza della vita attiva, di contro alla contemplativa.
Delineò un’ideale costituzione politica, che fondeva i tre tipi
classici di costituzione (regno, aristocrazia, democrazia).
Questo
insistere sull’etica diede vita ad un genere nuovo, la biografia.
Basta ricordare Aristosseno
di Taranto,
nato nel 360 a.C. circa, che compose vite di filosofi. A Teofrasto
successe al Liceo Stratone
di Lampsaco,
il quale resse il liceo fino alla sua morte, nel 268 a.C. Detto il
fisico, rifiuto ogni teleologismo e ridusse tutto a materialismo e
meccanicismo.
Epicuro
nasce il 20 Gennaio del 341 a.C. A Samo. Nel 310 aprì a Militene la
sua prima scuola, e nel 306 ne aprì una seconda ad Atene, la quale
venne chiamata Il Giardino, e in cui venivano ammessi anche gli
schiavi e le prostitute. All'insegnamento si dedica sino alla morte,
avvenuta nel 270. Diogene Laerzio espone in breve la logica di
Epicuro (canonica), e riporta per intero tre sue lettere: A Erotodo
(sulla fisica e la canonica), a Pitocle (sui fenomeni celesti). A
Meneceo (sull’etica), e una raccola di sentenze dal titolo Massime
capitali,
dove si tratta di etica, di gnoseologia, di diritto, di rapporti
umani. Un altro complesso di sentenze venne ritrovato nella
biblioteca vaticana e prende il titolo di Gnomologio
vaticano.
Altra opera epicurea è Sulla Natura in 37 libri, dei quali ci sono
rimasti pochi frammenti. Di aiuto per capire e ricostruire
l’epicureismo è il De
rerum natura
di Lucrezio (II – I sec. a.C.).
Il
suo insegnamento sconfessa le capacità conoscitive della metafisica
e della dialettica e si appella allo studio della fisica. Per lui
l'indagine seria non deve uscire fuori delle possibilità umane e
non deve parare in vuote chiacchiere o in astratti inutili sistemi.
Il filosofare, ovvero la riflessione sulla realtà, deve aiutare
l’uomo a rendersi conto della propria natura e delle proprie
possibilità, liberandolo dai timori e dalle apprensioni di una
realtà soprannaturale. Epicuro, pertanto, vuole rimuovere ogni
superstizione, e far sì che ognuno si renda conto da sé delle
proprie possibilità. Polemizza contro i valori della tradizione
greca e afferma che ogni discorso filosofico è inutile se non
lenisce le sofferenze umane. Queste ultime, quando non provengono
dalle malattie, derivano dalle paure per la morte, per qualche
divinità, per cosa ci aspetta nell'oltretomba. Ora, la cultura
mitologica e religiosa non solo non diminuiscono queste paure, ma
addirittura le accrescono. Non ad essa deve rivolgersi, quindi, il
filosofo, bensì allo studio della natura, della fisica, che con lui
acquisisce lo statuto di scienza.
Da
Democrito Epicuro accoglie la teoria della conoscenza, per cui essa
si fonda sulle sensazioni, le quali prese in sé sono sempre vere. Le
sensazioni, infatti, non sono “discorsive”, ma sganciate le une
dalle altre, e si vengono connesse per mezzo della “memoria”.
Essa è l’accorgersi di sentire, il sentire di sentire. Nella
memoria, grazie al ripresentarsi di certe sensazioni, si
costituiscono le prolessi,
o anticipazioni; in tal modo, appena pronunziamo la parola uomo
subito, per anticipazione, si pensa la sua forma, secondo i dati
precedentemente acquisiti dai sensi.
La
sensazione, che è alla base di ogni conoscenza, attesta l’esistenza
della corporeità. Ciò che è corporeo è, però, divisibile
all’infinito, e perciò affinché non si riduca al nulla
impensabile, bisogna ammettere il fatto che essi siano composti da
una serie infinita di atomi indivisibili, detti da Epicuro anche
semi. Epicuro riprende la concezione materialistica di Democrito, ma
la cambia in maniera sostanziale. Ed infatti, gli atomi epicurei non
sono astrazioni matematiche, ma elementi fisico – biologici, cioè
effettivi organismi fisici. In tal senso, Epicuro si ricollega al
naturalista Anassagora, per il quale la realtà è intesa
biologicamente da semi.
Gli
atomi epicurei, pertanto, non si differenziano solo per forma e
grandezza, ma anche, e soprattutto, per peso specifico. Il loro
diverso peso fa sì che essi, cadendo nel vuoto (chora), si urtano in
maniera continua, e da questo continuo urtarsi subiscono delle
continue deviazioni del loro movimento. Da queste deviazioni si hanno
le aggregazioni degli atomi e la costituzione dei corpi.
Per
Epicuro non esistono essenze, ovvero strutture permanenti al di là
delle varie configurazioni degli aggregati di atomi, i quali si
differenziano tra loro per forma, grandezza, peso e aventi tutti un
intrinseco movimento. Ogni atomo, avente un proprio peso specifico,
si muove eternamente in direzione rettilinea nell’infinito spazio.
Con l’urto tra gli atomi si hanno, come già detto, gli aggregati e
quindi infiniti mondi, in parte simili al nostro, in parte diversi.
Gli atomi cadono in perpendicolare, dalla deviazione (clinamen) dato
dal loro scontro si hanno la costituzione delle cose.
L’anima,
principio di sensibilità e di conoscenza, è corporea, composta da
particelle sottili, diffuse in tutto l’organismo. Il conoscere è
sensazione, contatto tra le immagini (eidola) che si staccano dai
corpi, considerate come affluvi di atomi che colpiscono il soggetto.
Ogni sensazione si manifesta pertanto in una rappresentazione.
Convenzionale
è invece la costituzione di un linguaggio: “di
comune accordo, a seconda di ciascun popolo furono stabilite
particolari espressioni per potersi capire reciprocamente con la
maggiore chiarezza”.
Il
complesso di sensazioni, ricordi, prolessi, desideri e impulsi
costituiscono la concreta vita dell’uomo, tesa tra dolore (urto
disordinato di atomi) e piacere (equilibrio ed armonia). Ciò porta
Epicuro da un lato a negare che gli dei si occupino delle faccende
umane, dall’altro ad affermare che entro il mondo umano spetta
all’uomo di proporre e conquistare una certa misura (piacere). E
allora se equilibrio, ordine e misura tra gli atomi equivalgono a non
dolore, a mancanza di affanno e di pena; mentre lo scontro, l’urto,
equivalgono a dolore, noi non possiamo pensare agli dei come turbati
e affannati dietro le cose umane, ma come imperturbabili, al di là
da questo o da quel mondo. Perciò dice Epicuro “gli
dei imperturbati e imperturbabili vivono negli intermundia, là dove
non è tempesta”.
Infine la morte è semplicemente la dissoluzione di un aggregato di
atomi. La vita nell’uomo si scandisce tra due poli: piacere e
dolore. L’ignoranza della vera natura delle cose porta a turbamenti
e superstizioni, e quindi a dolore. La liberazione dall’ignoranza è
piacere. Il piacere è pertanto assenza di turbamento (atarassia) e
assenza di dolore (aponia), piacere stabile (catastematico) che si
contrappone agli affannosi piaceri fuggevoli. Il piacere è godimento
sereno del presente, senza alcuna ansia per il futuro. Per questo la
prudenza è la massima virtù, essa è saggio raziocinio, misura ed
equilibrio.
Epicuro
polemizza e rifiuta la politica (del suo tempo) basata sulla violenza
e sul dolore, ove il rapporto umano non si fonda su una consapevole
misura, ma sulla paura dei soggetti e dei dominanti,che cercano
prestigio, potenza, ricchezza per affrancarsi dalla paura degli
altri. Per Epicuro non esiste una legge universale, un criterio
assoluto che stabilisca cosa è giusto e l’ingiusto. La legge, la
giustizia, non è fondata su astratti concetti universali, né è per
natura: leggi, valori, giustizia esistono per convenzione, per
accordo tra uomini. Il diritto varia, pertanto, da luogo a luogo, e
anche nei vari luoghi è valido finché serve, ovvero finché si
conservano certe circostanze. “Non
è la giustizia un qualcosa che è per sé, ma solo nei rapporti
reciprochi e sempre a seconda dei luoghi ove si stringe un accordo di
non recare e di non ricevere danno, [per cui, segue] che una medesima
cosa non è per tutti giusta”.
Si realizza così l’amicizia
(la più vera forma politica e cioè armonico
e piacevole rapporto tra uomini liberi).
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