Probabilmente,
la più alta espressione intellettuale dei Maya si esplica nella loro
sofisticata tecnica di misurazione del tempo. Essi adoperavano due
diversi calendari: uno di 260 giorni (ciclo divinatorio) e l’altro
di 360 giorni più cinque considerati nefasti
(calendario astronomico). Il calendario più corto sembra che fosse
stato ereditato dagli Zapotechi, utilizzato da questi a partire dal
600 a.c. Era frutto della combinazione di venti nomi (mesi) e 13
numeri (giorni), svincolato da qualsiasi ritmo e rapporto di tipo
agrario, ugualmente ciclico, di valore prettamente divinatorio, e
prendeva il nome di Tzolkin.
Il professor Michael Coe sottolinea che “Ogni singolo giorno aveva
il suo presagio e le sue associazioni, e l’inesorabile susseguirsi
dei venti giorni era una sorta di perpetua macchina divinatoria che
guidava i destini dei Maya e di tutte le popolazioni del Messico”.1
Guy Annequin fa notare che: il programma delle feste religiose e di
tutte le altre attività cerimoniali o private veniva stabilito sulla
base di questo calendario.2
I
due calendari, sebbene di lunghezza diversa, venivano a coincidere al
termine di 73 periodi di 260 giorni e cioè ogni volta che
trascorrevano 18.980 giorni, cioè 52 anni, lasso di tempo che
costituiva una sorta di secolo per i mesoamericani. Ogni 52 anni i
due calendari tornavano in sincrono e il ciclo del calendario
ricominciava. L’unità minima era costituita dal giorno (kin);
20 kin davano vita ad
un mese chiamato Uinal;
18 uinal davano un
anno di 360 giorni chiamato tun,
20 tun davano un Katun
(7.200 giorni quasi 20 anni del nostro
computo), 20 katun davano
un Baktun e cioè
144.000 giorni, circa 400 anni moderni e così via fino al piktun
che valeva 20 baktun
(2.880.000 giorni), 20 piktun
davano un kalabtun
(57.600.000 giorni), 20 kalabtun davano
un kinchiltun pari a
1.152.000.000 di giorni; l’ultimo ciclo comprendeva 23 miliardi e
40 milioni di anni! Un calcolo lunghissimo in base vigesimale, che ci
dà prova della perfezione raggiunta dalla loro matematica nel primo
secolo d.c. e che prende nome di Lungo
Computo.
Scarpi
scrive che “l’anno, in ogni caso, non è l’unità di misura del
tempo, ma lo sono piuttosto i cicli, di 52 anni”.3
Ossessionati dal trascorrere del tempo, i Maya, alla fine di un ciclo
di 52 anni, per scongiurare l’esaurirsi dell’universo, compivano
sacrifici umani.
Il
secondo calendario prende invece il nome di Haab,
solare e agricolo, era, come già accenato, formato da 360 giorni,
suddivisi in 18 mesi di 20 giorni ciascuno, ai quali si aggiungeva
come appendice, per fare quadrare i conti, un periodo malefico di
cinque giorni, considerati nefasti, vuoti e senza nome, detti di
ristabilimento; giorni critici, dunque,
durante i quali non si lavorava, si digiunava e si osservava la
continenza. Pietro Bandini, analizzando questi cinque giorni, annota
che:
“non
avevano nome ed erano definiti complessivamente xma-kaba-kin,
ovvero i senza nome; visto che[i Maya]non avevano nemmeno un
dio che regnasse su di loro[…]Questa idea funesta si
spiega[…]probabilmente con la concezione ciclica che i Maya avevano
della creazione: come nel corso delle ere del mondo, alla fine di un
universo seguiva una pausa, una deflagrazione, lo scatenamento del
caos prima che le forze fossero di nuovo ordinate e indirizzate verso
un’ulteriore creazione, così anche sulla terra, tra la fine di un
anno e l’inizio del successivo, si spalancava un abisso pericoloso
che si poteva superare solo con fermo coraggio e stoica pazienza”.4
Una
settimana era costituita da 13 giorni. I numeri 13 e 20 erano sacri
per i Maya: il primo era il numero dei cieli, mentre il secondo
simboleggiava l’uomo (venti è il risultato della somma delle dita
dei piedi e delle mani).
Ma
parlare dei calendari significa riferirsi anche al tempo e alla
concezione del tempo sviluppata dai Maya. A questo proposito Eric
Thompson fa notare che:
“nessun’altra
civiltà ha mai dedicato al tempo un interesse così intenso; e anzi
nessun’altra civiltà ha prodotto una specifica concezione di un
tema, parrebbe, così poco popolare[…]. Per i Maya il tempo era
l’oggetto di un interesse divorante. Ogni loro stele ed altare
aveva lo scopo di indicare il flusso del tempo, di celebrare la
chiusa di un periodo[…]. Per i Maya i giorni non erano in rapporto
con gli dei, ma erano dei; […]o per la precisione ogni giorno è
una coppia di dei. Ogni giorno ha una combinazione numero + nome: e
il numero è un dio e il nome un altro[…]Essi concepivano le
suddivisioni del tempo come altrettanti carichi portati a turno, per
l’eternità, da squadre di divini portatori. Questi portatori erano
i numeri da cui le singole frazioni del tempo erano contrassegnate.
Portavano il loro carico sulla schiena, con una cinghia che passava
sulla fronte[…]un esempio del meccanismo adoperando il nostro
calendario è la data 31 dicembre 1952, [che]esigerebbe cinque
portatori: il dio del numero trentuno porta dicembre in spalla; il
dio del numero uno porta il millennio, il dio del nove porta i
secoli, il dio del numero cinque porta i decenni, quello del numero
due porta gli anni. Alla fine della giornata c’è una pausa
momentanea, poi la processione riparte; il dio del numero trentuno
con il dicembre in spalla è sostituito da dio del numero uno che
porta in spalla gennaio, il dio del numero tre prende il posto e il
carico del dio del numero due[…]Ora l’immagine dei portatori e
dei fardelli si prestava ad essere interpretata misticamente
nell’idea che nel corso dell’anno giungessero buone o cattive
fortune a seconda che fosse benevola o malevola la disposizione dei
successivi portatori; e i sacerdoti maya si dedicavano infatti ad un
complesso lavoro di valutazione del bene e del male che i successivi
periodi di tempo avrebbero portato. Un anno giungeva col fardello
della siccità, un altro col fardello di un buon raccolto.” 5
Il
primo giorno dell’anno era il dio portatore dell’anno; se un anno
cominciava con il giorno Kan,
allora ci si aspettava un buon raccolto, dato che Kan
è uno degli aspetti del granoturco; stessa cosa se iniziava con
Muluc, poiché esso
era un dio della pioggia. Gli anni che iniziavano con il giorno Ix
o Cauac
erano disastrosi, poichè questi erano divinità malevoli. Con ciò
si spiega il forte senso divinatorio attribuito ai calendari dai
popoli mesoamericani. Il computo del tempo permetteva loro di
comprendere il futuro, che poi non era altro che il ripresentarsi del
passato secondo una visione ciclica, rispondente alla convinzione che
la storia si ripete: le influenze divine si ricompongono
nell’equilibrio di partenza. A turno i divini portatori conducevano
innanzi il tempo nel suo viaggio infinito; entrava però in gioco
l’elemento ciclico, costituito dal fatto che gli dei si alternavano
a turni fissi e continui: quello che interessava ai Maya era sapere
quali dei si sarebbero trovati a marciare insieme in un dato giorno.
In questo modo, mediante un calcolo complesso, potevano valutare
l’influenza globale degli dei in marcia, considerando le relazioni
che si creavano tra gli dei buoni e quelli cattivi. Evidentemente
per i Maya interessava di più il passato, questo infatti
ripresentandosi permetteva di capire gli eventi futuri.
Anche
David Webster chiarisce questo aspetto divinatorio del calendario
maya, spiegando che: “le concezioni che i Maya avevano del tempo
erano estremamente diverse dalle nostre ed enfatizzavano cicli in cui
gli eventi, in un certo senso, ricapitolavano se stessi. Lo studio di
episodi passati, unitamente a riscontri calendariali ed astronomici,
forniva pronostici di ciò che sarebbe avvenuto nel futuro”. 6
Così
Pietro Bandini descrive la concezione di tempo e spazio secondo i
Maya:
“Per
i Maya tempo e spazio formavano un ciclo infinito in cui gli
avvenimenti fondamentali si ripetevano sempre a intervalli
determinati. Così come gli astri, dopo rivoluzioni enormemente
lunghe, comparivano nuovamente e immancabilmente nello stesso punto,
allo stesso modo guerre, catastrofi o altri eventi sopraggiungevano
di nuovo nella data assegnata loro per tutti i tempi. Per scoprire
cosa nel futuro attendesse loro e il loro popolo, i sacerdoti e il re
dovevano perciò analizzare, nel modo più esatto possibile, ciò che
le relative costellazioni avevano provocato nel passato. Se si fosse
giunti a stabilire in maniera perfetta (cosa che nella prassi non
poteva quasi mai riuscire) gli influssi che avevano segnato un
giorno, un mese o una stagione, si sarebbe divenuti invulnerabili di
fronte a sorprese non desiderate, come anche di fronte al malumore
dei numerosi dèi che dovevano essere lodati e festeggiati, ognuno
nel proprio giorno”.7
Quindi,
come scrive Michael Coe:
“Ogni
singolo giorno aveva i propri auspici e associazioni, e l’inesorabile
marcia dei venti giorni aveva la funzione di una sorta di perpetua
macchina predittiva che guidava i destini dei Maya e di tutti i
popoli del Messico”.8
È
chiaro, quindi che “i Maya – come ritiene Herbert Wilelmy –
non praticarono mai la scienza, cioè soprattutto la matematica e
l’astronomia, per proprio diletto o, come nelle oasi fluviali
dell’antico continente, per la misurazione del terreno e la
regolazione delle acque. Essa era messa esclusivamente a servizio
della religione”.9
Punto
di riferimento della loro cronologia era una data iniziale che
corrisponde al nostro 3113 a.c.
Notano Peter James e Nick Thorpe: “questa data rappresenti la
creazione del mondo, o degli dei, ma più probabilmente si riferisce
alla mitica nascita della civiltà maya, poiché sono state ritrovate
iscrizioni che fanno riferimento ad eventi accaduti agli dei
antecedenti a quella data”10.
Eric Thompson parla, in tal senso, di un punto di partenza fittizio,
come l’ab urbe
condita dei romani. Forse era la mitica datazione della creazione
dell’ultimo mondo, dato che i Maya credevano che questo era stato
distrutto e ricreato dagli dei più volte.11
Magda
Wimmer afferma che la fine dell’attuale Grande
Ciclo è prevista per il 23
dicembre 2012, quando cioè per i Maya il
mondo andrà incontro ad un catastrofico cataclisma.12
Sembra comunque che non avessero mai utilizzati né clessidre né
orologi a sabbia, e per quanto si è capito sembra che non avessero
nemmeno un sistema preciso di suddivisione del giorno, ci si è fatti
l’idea che le -ore- dei Maya consistessero in suddivisioni molto
approssimative, chiamate con nomi che significavano -è
mezzogiorno-, oppure -il
sole spunta-, -il sole
ora è lontano-, ecc.13
Le
date dei calendari venivano scritti in senso verticale anzichè
orizzontale, il sistema, come già detto, non era decimale ma
vigesimale, e il segno corrispondente al nostro zero indicava solo il
completamento della serie, non aveva quindi il valore di –non c’è
nulla- che noi gli attribuiamo.
Il
numero che corrisponde al nostro zero, con la limitazione di cui
abbiamo già parlato, di solito era segnato con una conchiglia. I
numeri da uno a quattro venivano scritti mediante dei punti, mentre
il cinque con una sbarra. In tal modo un punto e una sbarra davano
come numero il sei, oppure due sbarre e tre punti davano come numero
il tredici. La matematica, essenziale strumento nel computo del
tempo, conserva anch’essa una sorta di sacralità. Martin Brennan
sostiene che “il numero era uno degli strumenti principali usati
dai Maya nel cercare il significato del tempo, che consideravano un
attributo degli dei, rappresentati qui come poteri viventi
personificati. Nella loro ricerca attraverso gli stadi sempre
mutevoli del passato, presente e futuro, percepirono il tempo come
proveniente dalla divinità, come parte del suo stesso essere,
pervasivo e illimitato”.14
Il
concetto maya di zero è diverso da quello occidentale, infatti non
indica il nulla, ma implica dei significati molto più vasti, oltre
al fatto di possedere un forte senso religioso. Significa che il
computo si è evoluto o è salito a livelli superiori. Donde il dio -
zero- è mostrato con lo sguardo rivolto verso l’alto. Sulla base
di questa magnifica ossessione, contavano lo zero sia come una
terminazione o un completamento sia come un portale, che
continuamente innalza il computo del tempo a livelli superiori in
cicli infiniti di epoche illimitate. Riflesso in questa continua
ascesa ai livelli superiori è il loro concetto di sacrificio,
considerato il principale mezzo dell’evoluzione spirituale umana. Il termine o il completamento di un ciclo temporale è
uguagliato alla morte, non una finalità, bensì un portale per
l’evoluzione. “Il dio – zero – porta i
capelli legati alla maniera di una vittima sacrificale.
Lo
zero nei codici è rappresentato dal guscio della chiocciola,
denotando l’evoluzione a spirali ascendenti. Il segno dello zero, e
per estensione il sacrificio umano, è rappresentato da una
chiocciola ”15.
In
altre parole la sostanziale differenza tra lo zero occidentale e
quello mesoamericano consiste in un diverso valore simbolico a questi
attribuitogli. Il nostro zero, dal significato prettamente
matematico, è una astrazione descrittiva del “non abbiamo nulla”.
Poiché assume questo valore viene posto all’inizio del computo.
Partiamo cioè da una situazione di mancanza e aggiungiamo le varie
infinite unità. Per i mesoamericani lo zero veniva posto invece alla
fine del computo per completare un ciclo composto da venti unità e
permettere di potere progredire oltre. La matematica, per i Maya, era
fondamentalmente sacra, e i numeri venivano personificate da divinità
che li proteggevano e li reggevano. Il tempo e il computo
costituivano pertanto un sinolo indissolubile. Lo zero diveniva il
reale mezzo di continuazione del computo e quindi del tempo e, per
estensione, della creazione. In termini filosofici il nostro zero
implica significati legati al non-essere, per i mesoamericani invece
indica la potenza dell’essere: il solo modo per farlo progredire in
una maggiore evoluzione. Lo zero pertanto veniva associato ad una
serie di animali e simboli indicanti la fertilità. Veniva
personificato da Xipe-totec (lo scorticato),
divinità del sacrificio. Questo numero infatti permetteva al tempo
di non fermarsi così come il sacrificio, assicurando cibo agli dèi,
perpetuava la creazione. Lo zero veniva inoltre connesso alla
spirale, simbolo che nasce dalla stilizzazione del serpente, e che
indica evoluzione, progressione, elevazione e anche fertilità.
Magda
Wimmer chiarisce che: “il vero fondamento di tutti i calcoli maya
non è l’uno, ma lo zero, poiché esso simboleggia Hunab
Ku, Il Grande Spirito,
la divina energia primordiale, dalla quale tutto proviene e alla
quale tutto fa ritorno16”.
Per
i Maya, i numeri non erano quindi dei semplici strumenti matematici,
utilizzati in funzione meramente computistica, ma erano divinità
essi stessi e venerati come tali erano portatori di un evento. Il
numero zero ricopriva un ruolo ben preciso, che abbiamo cercato di
chiarire; e sebbene tutti i numeri fossero sacri, ve ne sono alcuni
dai Maya considerati di maggiore sacralità: è il caso del numero
quattro, nove, tredici e venti, oltre che lo zero e il tre.
Ricordiamo che quattro erano i cieli e i punti cardinali e quattro
gli aspetti di ogni divinità che presiedeva un cielo; tredici erano
i cieli, preseduti da altrettante divinità; nove gli inferi
governati da nove demoni; venti invece era il numero simbolo
dell’uomo, in quanto risultato della somma del numero delle dita
dei piedi e delle mani.
Il
numero 13 e 20 sono alla base del calendario Tzolkin (260 giorni),
calendario del tutto artificiale in quanto non rispecchia alcun
calcolo ed osservazione astronomica. Un calendario dal significato
totalmente mistico, che nasce dalla moltiplicazione del tredici con
il venti. Probabilmente, l’origine di questo calendario va
ricercata nel senso del mistero legato alla vita e alla fertilità,
al concepimento, alla gravidanza e alla nascita. Tredici volte
bisognava terminare il ciclo delle dita delle mani e dei piedi, dopo
l’interruzione del ciclo mestruale, perché un bambino nascesse, e
nove volte, durante tale periodo, la luna appariva e scompariva nel
cielo. Le dita, elementi fondamentali del computo, erano considerati
incarnazione di un dio o di un animale totemico, i soli esseri in
grado di produrre tale fertilità.
Non
si può non rimanere meravigliati dalla spiritualità di questo
popolo, che seppur sconosceva la ruota e gli animali da soma, si
prodigò nella costruzione di strade al solo fine cerimoniale e che
si impegnò nella costruzione di templi, anche giganteschi, i quali
raggiunsero l’altezza di 70 metri. Tali templi erano considerati
esseri viventi a tutti gli effetti in quanto venivano costruiti in
pietra. La pietra oltre a costituire l’elemento con cui veniva
costruito un altare sacrificale, era ricoperta da un forte senso
mistico. Nel libro sacro Chilam Balam la
pietra di giada venne posta all’inizio del tutto, prima ancora
della comparsa degli dei. Da tale pietra nasce ogni cosa della
creazione. Pertanto la giada è la pietra sacra per eccellenza mentre
tutte le altre conservavano un significato metaforico forte
simboleggiando il cosmo e l’ordine della creazione.17
Ogni piramide che, rappresentava e doveva essere agli occhi dei
mesoamericani una sintesi del mondo, del tempo, del calendario e
della fertilità della madre terra, veniva spesso costruita con 52
scalini: uno per ogni anno costituente un secolo maya, cioè un
intero ciclo dei due calendari. Un esempio del senso
mistico-religioso delle costruzioni mesoamericane ci viene dato dal
sito di El Tajin, ad opera dei Totonachi.18
L’archeologo Adriano Forgione constata che:
“i Totonachi eressero in diverse fasi questo centro
politico-religioso (il sito è datato tra il II secolo a.c. e il 1200
della nostra era) situato nel municipio di Papantla, Veracruz,
al centro di quello che queste genti chiamavano Totonapacan,
‘il luogo dei totonachi’[…]Tajin significa ‘tuono’,
‘fulmine’ o ‘tempesta’, e tale nome è dovuto al fatto che
questo centro è dedicato al dio totonaco delle tempeste e dei
fulmini, Tajin appunto[…]La più nota ed enigmatica delle strutture
di El Tajin è la ‘piramide delle nicchie’,
impressionante espressione della sofisticata mente simbolica dei
totonachi. Gli archeologi più conservatori pensano che le nicchie presenti sull’intero edificio siano una
mera soluzione decorativa, tipica dello stile totonaco di El Tajin.
E’ vero che altre costruzioni del sito presentano la stessa
caratteristica ma si è fatta ormai l’idea che la risposta delle
nicchie non risponda solo ad esigenze artistiche, e ciò viene
provato da loro numero: 365.
L’archeologo
Forgione ritiene che
“quest’edificio
doveva essere tra i più sofisticati osservatori astronomici
dell’America pre-colombiana”.
Ciò
è confermato dall’archeologo messicano Roberto Ramirez Rodriguez
che afferma:
“Questa
piramide è ben organizzata geometricamente e le sue 365 nicchie
obbediscono a principi astronomici ma non solo. Paul Westheim ha
definito i legami del numero di queste nicchie con il numero 52.
Considerando che la piramide è divisa in 7 livelli si può dire che
vi sono 7 volte 52 nicchie[…].Ciò stabilisce una relazione diretta
con i 52 anni in cui era divisa il secolo mesoamericano[…]inoltre,
il 7 era il numero magico per queste culture. Guardando la scalinata
centrale e contando le nicchie; oggi ne restano 15, ma in origine
erano 18 proprio come i 365 giorni dell’anno solare erano divisi
dai mesoamericani in 18 mesi di 20 giorni ciascuno[…]”.
Forgione
conclude scrivendo che 19
“questa
splendida piramide e una summa di relazioni simbolico-astronomiche,
inserite volutamente dagli architetti totonachi […] le piramidi
erano costruite per rivestire un ruolo polifunzionale, sintesi della
mente unitaria che caratterizza gli antichi, in cui scienza e spirito
erano una cosa sola ”.
Le
nicchie, secondo lo studioso Adriano Forgione, rappresentano il
visibile da cui tutto prende forma. La costruzione è quindi per
l’archeologo:
“una
rappresentazione dell’ordine della creazione, e, pertanto, il gioco
di luci e ombre che queste nicchie creano con il sole può essere
visto come l’eterno gioco tra luce e ombra, tra visibile e
invisibile, tra il manifesto e l’immanifesto che dà vita a un
ordine visibile e percepibile. E un po’ come osservare un alveare
”.
El
Tajin è pertanto un luogo simbolico:
metafora della creazione e dell’ordine cosmico, le sue piramidi
sono intessute da una miriade di simboli sacri come spirali, croci,
losanghe e svastiche, tutti elementi che hanno una forte relazione
con i culti mesoamericani. Forgione, a questo proposito, spiega che
la spirale era associata alla conchiglia, simbolo di fecondità (e
anche di sacrificio, nonchè segno dello zero) ed espressione
dell’anima. Inoltre, non bisogna dimenticare che la spirale è
anche legata al serpente, animale totemico di Quetzalcoatl
(o Kukulcan per i
Maya), il serpente piumato[…]La spirale è movimento evolutivo
mentre la scala che la completa è simbolo di risalita, di cammino
verso l’alto. Possiamo parlare di una vera e propria geometria
sacra, ove le piramidi svolgevano il ruolo di sintesi di tutta la
spiritualità del popolo, oltre che essere portale per l’aldilà e
“albero” che unisce la terra al cielo. La sacralità
di queste costruzioni ci viene testimoniata anche dal fatto che
venivano orientate in un certo modo, e non in maniera casuale:
orientamenti connessi con il quadrato o con la croce cosmica.20.
“ I principi di orientamento degli impianti delle piazze e
delle linee di fuga degli edifici sono più complicati di quanto
possa sembrare a un rapido esame delle piante dei centri[…]Fra
tutti i maggiori centri cerimoniali Quiriguà è conformata sul
quadrato cosmico, cioè con assi orientati a nord-ovest e sud-est.
Assi che corrono in direzione nord-sud o est-ovest si riscontrano
nell’acropoli settentrionale di Tikal, il più antico complesso
edilizio di questo grande centro cerimoniale, il cui allineamento non
si è modificato dall’epoca preclassica in poi. Il famoso gruppo di
templi E di Uaxactun che serviva a scopi astronomici è stato
recepito nel mondo scientifico, in base allo schizzo fattone da S.G.
Morley, come il prototipo di un gruppo edilizio orientato sui
principali punti cardinali[…]. Per alcuni palazzi, anche essi
apparentemente in rapporto con le coordinate sferiche, ci si è però
chiesti a quale direzione vada attribuita importanza preminente; per
l’orientamento est-ovest potrebbero essere stati determinanti i
riferimenti al dio del sole e della pioggia[…]. Infine si è
pensato di aver rinvenuto nel piano regolatore di Teotihuacan,
spiegato in base ai principali punti cardinali, la prova più
convincente del criterio fondamentale di orientamento a cui si
ispiravano i centri e
gli edifici cultuali della Mesoamerica”.
gli edifici cultuali della Mesoamerica”.
Tutta
la sapienza dei Maya nasce in funzione della religione: così lo
sforzo matematico e astronomico e i due calendari acquisivano
significato solo in senso mistico. Sempre occupati a predire il
futuro, niente doveva essere lasciato al caso, per cui bisognava
conoscere il domani, cercare di comprendere se esso fosse benevolo o
disastroso, e, quindi, agire di conseguenza.
In
altre parole, con Thompson possiamo dire che “le conquiste della
mente maya non erano (almeno dal nostro punto di vista) conquiste
pratiche: soddisfacevano a bisogni spirituali. Non erano nemmeno,
nell’intendimento, conquiste teoriche. L’astronomo maya cercava
di ampliare il suo sapere non per astratto bisogno di conoscere, ma
per potere controllare il destino: insomma era un astrologo. A suo
parere, i cieli avevano un ordine al quale si conformavano gli dei; e
una volta decifrato quest’ordine, egli avrebbe saputo anche quali
dei erano di turno in un dato momento, e quindi avrebbe saputo quali
placare”.22
Chiarificatore del significato dell’astronomia maya è anche quello
che ci dice Henri Sterlin:
“i
Maya osservavano gli astri essenzialmente per stabilire il loro
complesso calendario e per consultare la disposizione del cielo per
fini astrologici. Nel loro desiderio di disporre di calcoli sempre
più precisi, e di leggere il futuro nelle costellazioni predicendo
la comparsa all’orizzonte di taluni corpi celesti, essi
svilupparono una straordinaria scienza dell’astronomia.
Naturalmente, si trattava di una forma di astronomia che si limitava
al movimento visibile delle stelle, come è avvenuto con tutte le
grandi civiltà antiche (egiziana, greca, romana e araba).
Si poneva quindi in un sistema geocentrico, nel quale la Terra
occupava il centro dell’universo”. 23
Quello
che interessava essenzialmente ai precolombiani era di determinare
nella maniera più esatta possibile alcuni cicli astrali. Henri
Sterlin, a tal proposito, precisa:
“Per
la natura visibile dell’astronomia maya, dovremmo menzionare l’anno
venusiano o il ciclo di Venere, che gli osservatori maya avevano
calcolato di 584 giorni, mentre il calcolo moderno fissa il periodo a
583, 92 giorni[…]. Come riuscirono i Maya, che non possedevano
strumenti capaci di misurare ore, minuti e secondi, strumenti di
osservazione dotati di lenti ottiche e gradazioni angolari, a
raggiungere tali risultati? La spiegazione sta nel fatto che per
stabilire il ciclo di Venere essi si basavano su una lunga serie di
osservazioni, probabilmente della durata di 384 anni, oltre che su
calcoli aritmetici. In questo modo furono eliminati gli errori
principali, che si riducevano in proporzione al numero di operazioni
seguite “.24
Un’esattezza
quasi realizzata, con un errore minimale di un giorno ogni 6000 anni,
grazie a dei calcoli estenuanti realizzati al solo fine divinatorio,
confermando ancora una volta il ruolo astrologico dell’astronomia.
“I Maya” infatti, come ci dice Thompson,: “erano convinti che
la stella di Venere fosse malefica al tempo della levata eliaca
(quando appare come stella del mattino); era necessario, perciò, che
i sacerdoti potessero prevedere la data per scongiurare in tempo gli
effetti nefasti”.25
Il ciclo di Venere, effentuantesi in una rivoluzione sinodica di 584
giorni, per i Maya, costituiva una sorta di terzo calendario
rispetto agli altri due. Come abbiamo già avuto modo di accennare,
tale calendario veniva calcolato in base alle levate eliache del
pianeta nei diversi anni.
Un
altro risultato importante ottenuto dai sacerdoti maya come astronomi
fu la combinazione di una tabella per predire le eclissi del sole. I
risultati di questi calcoli, osservazioni, deduzioni sono contenute
nel testo geroglifico maya conosciuto come il Codice
di Dresda (è conservato, per l’appunto, in
una biblioteca di Dresda).
Ancora Henri Sterlin, sull’anno solare, dice che, “i
Maya erano consapevoli che l’approssimazione data dai 365 giorni
del calendario si poteva migliorare, altrimenti il sistema era
soggetto a deregolarsi. Il calcolo maya si basava su 365, 2420
giorni, mentre i moderni astronomi fissano la stessa lunghezza di
tempo a 365, 2422 giorni”. L’errore era veramente
insignificante e “quindi, non aveva alcuna rilevanza sull’aggiunta
di un giorno ogni 4 anni”.26
Un’esattezza
quasi perfetta venne raggiunta anche nei due diversi calcoli del
ciclo lunare. Uno riguarda 405 lunazioni, o 46 anni sacri di 260
giorni, vale a dire, secondo il calcolo moderno, di 11.959,888
giorni, mentre, per i Maya, era pari a 11.960. L’errore maya è,
quindi, di 0,112 di un giorno in un periodo di 32 anni, pari a 23
secondi per lunazione. L’altro calcolo si basa su 4.400 giorni,
pari a 29,530587 giorni per lunazione, mentre l’approssimazione
maya corrisponde a 29,53020 giorni. Questo calcolo, come afferma lo
storico dell’arte Henri Sterlin, venne compiuto nel 682 dagli
astronomi di Copàn, e contiene un errore di 33,43 secondi per
lunazione. Questi dati ci fanno comprendere quale sia stata la
brillante astronomia che da essi fu sviluppata, sia la grande
pazienza e minuziosità nei calcoli. Le energie impiegate dai
sacerdoti astronomi, erano dunque volte, al solo intento predittivo
degli eventi futuri, a fini divinatori. Sforzi, questi, che ci
permettono una chiara idea dello spirito religioso di questa civiltà.
2
Guy Annequin, op. cit., pag. 244.
3
Filoramo-Massenzio-Raveri-Scarpi, op. cit., pag.143.
4
Pietro Bandini, op. cit., pagg. 133-134.
7
Pietro Bandini, op. cit., pag. 20
8
Michael D. Coe,. op. cit., pagg. 54-55.
12
Magda Wimmer, I Maya, Tessitori
del tempo, giocolieri dell’universo,
Newton e Compton
Editori, Roma, Dicembre 2003, pag. 34. Titolo originale: Die
Maya.
13
Eric Thompson, op. cit,. pagg. 189-190.
14
Martin Brennan, op. cit., pag. 27.
15
Ibidem, pagg. 27-28.
17
Martin Brennan, op. cit, passim.
18
“Hera, Civiltà scomparse, Misteri archeologici”. Hera
Edizioni, Roma, mensile n. 57, Ottobre 2004, articolo di Adriano
Forgione, El Tajin, la bellezza e il mistero, cit., pag 23.
Antico popolo mesoamericano stanziato nel Messico, nella zona ove
oggi si trova lo stato di Veracruz cioè lungo le sponde del golfo
di Campeche – porzione occidentale del golfo del messico. Era
gente pacifica, dedita all’ agricoltura e alla caccia. Ad essi si
fa risalire la cultura del Tajin ( o cultura totonaca ) che ebbe in
Tajin il più importante centro archeologico. Contigua all’ area
della cultura precassica precolombiana olmeca, la civiltà totonaca
subì certamente le influenze artistiche, sociali e religiose dei
vicini. L’ arte dei totonachi appare particolarmente matura e
raffinata. Molto scarse sono comunque le notizie intorno a questo
popolo le cui testimonianze archeologiche hanno tuttavia tutte le
caratteristiche delle altre culture mesoamericane del periodo
classico . El Tajin, sebbene esistente all’ arrivo degli spagnoli
nello stato di Veracruz nel 1519, restò del tutto sconosciuta fino
al 1785, quando venne scoperta per puro caso dall’ ingegnere Diego
Ruiz “. L archeologo Roberto Rodriguez, a proposito della loro
origine dice: ‘ Ho passato decadi a raccogliere i miti di questa
gente e c’ è ne uno che reputano della massima importanza. E
stato Don Petro, un totonaco esemplare a narrarmelo ’. Questi
dice: ‘ Veniamo da oriente, da dove oggi è mare e dove c’ era
Atlanticù, il nome della grande isola dove riposa il nostro buon
padre ’. Quindi come chiarisce l’ archeologo Roberto Rodriguez ,
i totonachi sono convinti che fosse “ Atlanticù il loro luogo d’
origine e che questa isola, centro vitale, ricco e meraviglioso,
dotata di case bianche che rispendevano al sole come argento, fu
distrutta in una sola notte a causa del tradimento degli uomini alle
leggi divine “.
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“Hera, Civiltà scomparse, Misteri Archeologici”, Hera
Edizioni, mensile n. 57, Roma, Anno V, Ottobre 2004, articolo di
Adriano Forgione, Olmechi, Sacerdoti e Nagual, pag. 24-27.
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I Maya concepivano la terra quadrata e con quattro angoli, ognuno
dei quali in corrispondenza di un punto cardinale che aveva un
valore cromatico: rosso per l’ est, bianco per il nord, nero per
l’ ovest, giallo per il sud, mentre il centro era verde. Il cielo
era pensato multistratico e sorretto agli angoli da quattro Bacab,
dei titanici con le relative associazioni cromatiche.
23Henri
Sterlin, I Maya, Palazzi e Piramidi della
Foresta Vergine, Benedikt Taschen Verlag
GmBH, 1998, pag. 180.
24
Ibidem.
26
Hernri Stierlin, op. cit., pag. 180.
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