lunedì 27 agosto 2012

Le filosofie della religione e la “morte di Dio”.


Nel corso della seconda metà dell'ottocento si era sviluppata una concezione negativa della religione, considerata ormai come un aspetto della civiltà sorpassata, destinato a scomparire perché privo di qualsiasi tipo di oggettività e legittimazione effettiva.
Con lo sviluppo della sinistra hegeliana e del neopositivismo si giunse a pensare che la religione dovesse essere riportata a delle componenti storiche e sociali mediante un'analisi antropologica che spiegasse l'avvento del numinoso come una proiezione dell'uomo in una realtà ultraterrene.
È da dire, però, che nel corso dell'ottocento e del novecento si sviluppò una generale reazione allo scientismo da parte di alcuni autori, quali Boutroux, Bergson, James e Blondel (per citare solo i più noti), che rivendicarono la funzione della religione.
Uno degli autori che cercò di fondare la specificità del fenomeno religioso è Rudolf Otto (1869 – 1937), autore del saggio Il sacro, del 1917. Otto ha cercato di riportare la religione ad un vero e proprio “a priori” irriducibile a qualsiasi fattore storico, psicologico o razionale.
Rudolf Otto non nega che il “sacro” nel corso dei secoli si sia caricato di elementi rituali, etici, storici e rituali, ma, ritiene, al contempo, che le sue radici vanno collegate ad una esperienza del numinoso irrazionale. Esperienza che è possibile descrivere soltanto mediante le sue manifestazioni, e cioè il tremendo, il misterioso e il maestoso.
La fenomenologia spesso è stata la metodologia applicata alla risoluzione del problema religioso. A tal riguardo, Max Scheler afferma ne L'eterno dell'uomo, del 1921, che bisogna dare una descrizione delle manifestazioni immediate e concrete, intuitivamente date e afferrabili, nella vita dell'uomo e nella sua coscienza del fenomeno religioso senza ricercare alcuna definizione o prova del noumeno.
Su questa via si sviluppa tutta una fenomenologia della religione che vuole accantonare qualsiasi considerazione di tipo genetico o causale del fenomeno religioso.
Karl Barth (1886 – 1968), autore di un commento a La lettera ai Romani, del 1919; di un Fides quaerens intellectum, del 1931; di una Dogmatica ecclesiale, de La teologia protestante nel secolo XIX, del 1947.
Karl Barth è il maggiore esponente di quella corrente di pensiero che prende il nome di teologia dialettica. La teologia dialettica nega che il Cristianesimo sia un fatto puramente storico e umano e polemizza contro coloro che cercano di salvaguardarlo e rinnovarlo affermando il valore morale e culturale di esso. Il termine dialettica non è da interpretare in senso hegeliano come superamento di due opposti in una sintesi, ma, al contrario, come radicalizzazione della distanza incommensurabile che separa l'uomo da Dio, considerato come il “totalmente altro”. Distanza che non può essere in alcun modo superata partendo dall'uomo.
In tal senso la teologia dialettica viene chiamata anche “teologia della crisi”. Ed infatti, punta unicamente sulla fede e sulla rivelazione, ed afferma che l'uomo può trovare la propria salvezza solo mediante una crisi totale che ne sottolinea la completa nullità e peccaminosità di fronte a Dio.
Rudolf Bultmann (1884 – 1976), teologo tedesco, autore di Credere e comprendere, del Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione nel messaggio neotestamentario, del 1941 e di Storia e escatologia, del 1957.
Rudolf Bultmann è fondatore di quella corrente di pensiero che prende il nome di demitizzazione, e che affonda le proprie origini nell'analitica dell'esistenza sviluppata da Heidegger in Essere e tempo. La demitizzazione intende interpretare e rinnovare il Cristianesimo in base al suo significato essenziale. Il messaggio cristiano deve essere depurato da tutto ciò che è mitologico, ossia frutto di entità soprannaturali e sovrumani e deve essere avvicinato alla scienza. Bisogna, quindi, depurare la Bibbia da tutto ciò che oggi appare inaccettabile all'uomo moderno (come la sua cosmogonia superata, la divisione dell'universo in cielo, terra ed inferno) per aprire la strada alla sola interpretazione esistenziale . Risposta esistenziale che non deve cercare nella Bibbia una risposta sulla costituzione e sulla immagine del mondo, bensì una serie di risposte ai problemi dell'esistenza.
Conseguentemente, la Sacra Scrittura non deve essere letta mediante una prospettiva oggettiva o neutrale, ma mediante una “precompressione dell'esistenza”, ossia al fine di rispondere ad una serie di interrogativi che coinvolgono intrinsecamente l'uomo circa il suo destino e la sua responsabilità. Ciò perché l'esistenza è sempre un qualcosa di storico, e, in quanto tale, è una presa di responsabile rispetto a qualcosa che ancora non è, ma che acquisirà significato nel futuro.
Solo in tal modo si può intendere il messaggio “escatologico” del Cristianesimo. Ed infatti esso parla di un evento storico, ossia la venuta di Cristo, che pone la fine del mondo e, al contempo, della sua storia. L'ascoltatore, pertanto, è posto innanzi alla decisione se voglia fare parte del vecchio o del nuovo mondo, se voglia rimanere il vecchio uomo o se voglia diventare un uomo nuovo. Storicità dell'esistenza e storicità della rivelazione si incontrano nell'esistenza escatologica del credente, che vive nel mondo presente, ma al tempo stesso appartiene al mondo che verrà. Su questo mondo che verrà deve prendere una decisione significativa per quella salvezza annunciata da Cristo.
Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945), teologo tedesco, i cui scritti principali sono: Sequela, del 1937; La vita comune, del 1939; Etica, del 1949; Resistenza e resa, del 1951; L'ora della tentazione, del 1953 e L'essenza della Chiesa, del 1971.
Dietrich Bonhoeffer riprende la distinzione di Barth tra fede e religione al fine di giungere ad un “cristianesimo senza religione”. Egli si interroga su cosa possa essere oggi il cristianesimo. La risposta a tale quesito non può più venire da una concezione di Dio come tappabuchi della nostra conoscenza o dal credere in un Dio che soccorra ai bisogni dell'uomo o alle sue insufficienze. Concezioni di tal genere di Dio sono state ampiamente superate in un mondo “diventato adulto”, in un mondo che si è abituato a vivere senza “l'ipotesi di Dio”. Una interpretazione di tal genere della Deità porterebbe a quella concezione nietzschiana del risentimento, ossia al senso di debolezza e di frustrazione dell'uomo. Quindi, Bonhoeffer critica e polemizza contro tutte quelle argomentazioni apologetiche che si fondano sulla psicoanalisi e sull'esistenzialismo e che, pertanto, pensano di riportare l'uomo a Dio focalizzando l'attenzione sulle sue debolezze, sulla sua miseria e sugli aspetti più malsani della sua interiorità. Il messaggio di cristo e un inno alla gioia di vivere, all'amore verso il prossimo. Un messaggio che esalta i valori della vita. Ciò non significa che si ignora la sofferenza, anzi si pone l'accento su un Dio che soffre accanto ed insieme all'uomo e come l'uomo.
Jacques Maritain (1882 – 1975), filosofo francese, studente e discepolo di Bergson, fu autore di Arte e scolastica, del 1920; dei Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau, del 1925; di Distinguere per unire: i gradi del sapere; del 1932; di Sulla filosofia cristiana, del 1932; di Umanesimo integrale, del 1936; di Cristianesimo e democrazia, del 1943; de L'uomo e lo stato, del 1951; de La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, del 1960 e de Il contadino della Garonna, del 1966.
Maritain polemizza contro gli esiti ateistici e laicizzanti del pensiero moderno. In particolar modo critica i tre capostipiti della riforma del pensiero moderno, ossia Lutero (in campo religioso), Cartesio (in campo filosofico) e Rousseau (in campo etico – morale).
Questi tre autore, infatti, al di là del pensiero filosofico sviluppato, hanno contribuito alla formazione di una mentalità “immanentistica”. Ciò perché hanno incentrato tutto sull'individuo, sulla sua volontà, sulle sue intuizioni e sui suoi sentimenti. Questo nuovo modo di pensare ha comportato l'annichilimento di ogni effettivo legame con la realtà esterna, naturale, storica ed ecclesiale. Tutte realtà queste con cui l'uomo deve confrontarsi per realizzarsi come “persona”.
In questa polemica contro il pensiero moderno, da lui definita non più filosofia, ma “ideosofia”, ossia idealismo di matrice cartesiana, Maritain afferma che allo stato attuale vi sono soltanto due vere e proprie dottrine filosofiche. Esse sono:
  1. il realismo marxista;
  2. il realismo cristiano.
Il realismo marxista, però, si prospetta come una prospettiva materialistica ed ateistica. Una prospettiva limitata e limitante. Il realismo cristiano, invece, offre veramente un rimedio ai mali provocati dall'umanesimo moderno, la cui pecca principale è stata quella di essersi configurato come antropocentrismo e non, invece, come vero umanesimo, o, in maniera più precisa, utilizzando le parole stesse di Maritain, come “umanesimo integrale”.
Tale umanesimo può realizzarsi mediante una ripresa della filosofia tomista, ossia prendendo in considerazione i diversi piani di diversità e di unità. Piani che si integrano reciprocamente in un graduale processo di salvezza, dove l'umano e il divino non possono escludersi o prevaricare l'uno sull'altro, bensì cooperano in maniera fertile per la costruzione di una nuova “cristianità”.
Il mondo moderno e la sua cultura, quindi, vivono una profonda crisi data dall'ateismo e da una concezione di pensiero laicizzante che pensa di potere fare a meno di Dio. Di fronte a tale crisi si possono applicare solo due posizioni. Esse sono:
  1. la posizione barthiana, che, però, è sostanzialmente “arcaicistica” e predicante di un ritorno al calvinismo originario secondo un umanesimo primordiale affermante il totale annullamento dell'uomo innanzi a Dio;
  2. la posizione “integralista” e “progressista” del cristianesimo di stampo tomista, che afferma e sancisce una crescita contemporanea della Chiesa e del mondo.
In tal senso, chiarificatrici sono le parole di Maritain:
il compito che si impone al cristiano è di salvare le verità “umanistiche” sfigurate da quattro secoli di umanesimo antropocentrico, nel momento stesso nel quale la cultura umanistica si corrompe, e nel quale queste verità pericolano insieme agli errori che le viziavano e le opprimevano (da Umanesimo integrale)”:
La ripresa del pensiero tomista non comporta una chiusura nel passato. Al contrario, rispetto ai problemi politici e sociali il tomismo offre un'applicazione del messaggio evangelico capace di realizzare nuove forme di cristianità nel mondo. Cristianità del tutto diverse da quella di stampo medievale, i cui codici, credi, morale, tradizione e cultura sono definitivamente tramontate. Nel medioevo, infatti, il temporale sottostava ad una concezione sacrale cristiana. Nella società moderna, invece, si può affermare una concezione profana cristiana del temporale, nel quale il cristiano è chiamato a realizzare il “bene comune”.
Da ciò l'affermazione di un “personalismo comunitario” in cui trova posto la democrazia e la solidarietà, in contrapposizione di un “liberalismo” di tipo borghese interessato solo alla possibilità di sviluppo dell'economia capitalistica. Da ciò anche il rifiuto verso ogni forma di totalitarismo conservatore e reattivo e di comunismo polemico verso l'assolutismo del profitto.

sabato 25 agosto 2012

Thomas Kuhn

Thomas Kuhn (1922 – 1996), filosofo della scienza statunitense, fu autore della Rivoluzione copernicana, del 1957; de La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee nella scienza, del 1962; de La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella scienza, del 1977 e d'Alle origini della filosofia contemporanea. La teoria del corpo nero e la discontinuità quantica, del 1978.
L'opera di Kuhn prende avvio dalla contestazione che la storia della scienza si realizzi secondo un processo rettilineo di accumulazione del sapere e di progressiva correzione ed eliminazione delle concezioni sbagliate, erronee e inadeguate. La scienza, infatti, procede in maniera discontinua, ossia alterna periodi di attività “normale” a momenti “straordinari” di vera e propria “rivoluzione”. Nei periodi di rivoluzione si sostituisce il vecchio paradigma con uno nuovo, che sostituisce del tutto il precedente o che lo rettifica in parte. Per tale motivo si ha una vera e propria incommensurabilità tra le diverse dottrine scientifiche afferenti a diversi paradigmi. Ciò non perché si hanno delle dottrine più o meno complesse ad altre, ma per il semplice motivo che ogni paradigma esprime un punto di vista radicalmente diverso da un altro, e, in quanto tale, in gran parte intraducibile. Ad esempio, quando un aristotelico e un newtoniano parlano di movimento, lo fanno in maniera del tutto diversa. Ed infatti, ognuno di loro ha una diversa concezione non solo del movimento, ma anche dell'interno universo. Per paradigma non si deve intendere un insieme di regole e di teorie, bensì un quadro completo di abitudini, tipi di istruzione e formazione, modi di procedere e di giudicare. Questa concezione prende il nome di teoria delle rivoluzioni scientifiche.
Nel corso della scienza, quindi, quando una comunità si scontra con una anomalia, ovvero in fenomeni inspiegabili o contrastanti alle aspettative legittimate da un paradigma, allora si interrompe la vita normale della scienza, che entrata in crisi, può nuovamente divenire fertile con l'invenzione di un nuovo paradigma. L'adozione di un nuovo paradigma non è solo un processo teorico, ma richiede una sorta di “conversione” di tutta la comunità scientifica. Conversione che si ottiene mediante la “persuasione”.
Pertanto, la storia della scienza è discontinua ed opera mediante paradigmi che risolvono i momenti di crisi in cui si imbatte. Crisi risolte con l'adozione di un nuovo punto di vista o paradigma. Questa concezione porta Kuhn ad affermare che nella storia della scienza non si ha alcun processo ontologico e teleologico che porti ad un graduale miglioramento nei metodi di rappresentazione della natura. È, comunque, innegabile che vi sono paradigmi che hanno interpretato in maniera più coerente, fertile e rigoroso gli enigmi presentati dalla natura.

W.V.O. Quine


Willard Van Orman Quine (1908 – 2000), filosofo statunitense, autore del Manuale di logica, del 1950, de I due dogmi dell'empirismo, del 1951; de Il problema del significato, del 1953; della Parola e oggetto, del 1960; de I modi del paradosso e altri saggi, del 1966; de La relatività ontologica e altri saggi, del 1969; della Logica e grammatica, del 1970; de Le radici della referenza, del 1974 e dell'Autobiografia, del 1985.
L'opera di Quine si è sviluppata sia dal confronto critico con il neopositivismo e l'empirismo logico sia dalla ripresa di alcuni motivi pragmatistici e naturalistici. La sua complessa costruzione, oltre a polemizzare contro i due “dogmi” dell'empirismo del 1951, si rivolge contro il neopositivismo e contro l'opera di Carnap.
I due dogmi che Quine rifiuta sono:
  1. la tesi che vi siano delle proposizioni realmente analitiche;
  2. il riduzionismo, ossia la tesi che si possa andare a verificare qualsiasi proposizione che scaturisca da una esperienza immediata. Cosa questa che già aveva sostenuto l'empirismo moderno.
In realtà il sapere è una totalità molto complessa ed organica. Una totalità dove nessun elemento può essere compreso o valutato nel suo isolamento.
A tal riguardo Quine riprende la posizione dello storico della scienza Pierre Duhem (1861 – 1916), il quale riteneva che in fisica non è possibile sottoporre al controllo dell'esperienza una singola ipotesi, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. In altre parole, qualsiasi esperimento interessa tutto un insieme teorico. Ciò evidenzia il fatto che in fisica non vi sono esperimenti “cruciali”. La scienza fisica, pertanto, non può essere concepita come un meccanismo che può essere smontato pezzo per pezzo. Deve, invece, essere presa nella sua interezza e totalità, un po' come se fosse un organismo di cui non si può fare funzionare una parte senza che le altre, anche quelle più periferiche, ne siano coinvolte.
Per Quine, quindi, gli enunciati teorici vanno sempre inseriti all'interno di un contesto teorico molto più ampio. Contesto teorico a cui sono correlati.
Per tale motivo la sua filosofia viene definita olistica (dal greco òlos = tutto, intero), dove per “tutto” si intende una relazionalità delle parti. Parti sottoposte a continue innovazioni e revisioni.
A tal riguardo Quine osserva che una teoria o un'ipotesi deve essere necessariamente compresa all'interno di un contesto ben preciso. Cosa questa ampiamente riconosciuta e praticata in fisica. Ad esempio, la teoria relazionale dello spazio implica che non si ha alcuna posizione o velocità assoluta. Ciò chiarisce il fatto che determinate leggi vanno sempre enunciate e verificate all'interno di un quadro di riferimento ben determinato.
Per quanto riguarda il rapporto tra il nostro sapere e l'esperienza, Quine precisa che “la totalità della nostra cosiddetta conoscenza o delle nostre credenze, dagli argomenti più casuali della geografia e della storia alle leggi più profonde della fisica atomica o perfino della matematica e logica pura, è una costruzione dell'uomo che urta nell'esperienza solo marginalmente. O, per cambiare l'immagine, l'intera scienza è come un campo di forza le cui condizioni – limite sono le esperienze”.
Conseguentemente un disaccordo con l'esperienza alla periferia rende necessario tutto un riordinamento all'interno del campo.
Per Quine, però, vi sono due principi cardinali dell'empirismo che rimangono validi. Essi sono:
  1. qualsiasi evidenza che ci sia per la scienza proviene dall'evidenza sensoriale;
  2. il significato delle parole deve basarsi fondamentalmente sull'evidenza sensoriale.
In tale contesto acquisisce un'importanza particolare la nozione di “osservazione”. Nozione applicata non solo al problema dell'esperienza e della scienza, ma utilizzata anche nella polemica dell'analiticità, ossia nella presunta distinzione assoluta da altre forme di pensiero. Quine per enunciati di osservazione intende quelli più vicini ai recettori sensoriali. Tale vicinanza è determinata dal fatto che gli enunciati di osservazione, quando impariamo un linguaggio, sono più condizionati dalle stimolazioni sensoriali concomitanti, piuttosto che da quella informazione collaterale già immagazzinata.
Ovviamente, la veridicità o meno di un enunciato non può essere data solo dalla stimolazione presente, ma, al contrario, necessita anche dell'informazione immagazzinata. Ed infatti, il linguaggio è il frutto di una informazione già immagazzinata, senza la quale non potremmo nemmeno dare verdetti su quegli enunciati basati esclusivamente sull'osservazione. Questo modo di operare evita quel nichilismo epistemologico che ha comportato l'abbandono della vecchia concezione degli enunciati di osservazione. Cosa questa che ha provocato un accentuato relativismo culturale.
Per quanto riguarda la concezione filosofica, Quine, rifacendosi alla concezione naturalistica di Dewey, sostiene che “la conoscenza, la mente e il significato sono parte del medesimo mondo con cui hanno a che fare e che devono esser studiati nel medesimo spirito empirico che anima la scienza naturale. Non c'è posto per una filosofia prima”.
Inoltre, Quine riconosce che “ciascun uomo ha una certa eredità scientifica oltre che una ininterrotta diga di stimoli sensoriali; e le considerazioni che lo guidano a piegare la sua eredità scientifica perché si adatti agli incessanti dettami dei sensi sono, se razionali, di natura pragmatica”.
Il linguaggio, a sua volta, è un'arte sociale che noi tutti acquisiamo solo in base all'evidenza del comportamento degli altri in circostanze pubblicamente riconoscibili. Da ciò sorge la sua polemica contro quella forma di “semantica ingenua” che prende le proprie mosse dal “mito del museo”, ossia dalla convinzione che il linguaggio sia una somma di etichette contrassegnati delle idee bell'e fatte e riposte nella mente, appunto come i quadri esposti in un museo con apposite etichette. In realtà il linguaggio è sempre la risposta ad uno stimolo. Una risposta, però, intersoggettiva, ossia inserita all'interno di un sistema comportamentistico sempre aperto e modificabile. Per tale motivo non può esistere un linguaggio privato o un linguaggio che corrisponda ad una forma di sapere puramente mentale. Infine, per Quine non è possibile tradurre in maniera esatta un termine di una lingua in un'altra, e, al limite, nemmeno nella lingua stessa.
Da tutte queste considerazioni Quine giunge ad una “naturalizzazione dell'epistemologia”. Si è avuto, infatti, un nuovo pensiero che ha portato al rifiuto da parte del neopositivismo della metafisica e la sostituzione della stessa epistemologia filosofica con una sorta di “terapia”, intesa come residuo della vocazione filosofica. Quine, però, non è d'accordo con questa “bancarotta” dell'epistemologia, e afferma che ad essa spetta un nuovo compito, e cioè quello dello studio del soggetto umano fisico tramite la psicologia e la scienza naturale.  

venerdì 24 agosto 2012

Critica della ragione postmoderna

Saggio di Andrea Cusimano
Per una rifondazione della metafisica: critica della ragion postmoderna
Presentazione di Diego Fusaro

Che cos'è il sonno? Il sonno è simile alla morte.
Dunque è meglio vegliare, ed operare in modo
da restar vivi dopo la morte, piuttosto che dormire,
facendosi in vita simili ai morti. Come una giornata
ben spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata
dà lieto morire.
(Leonardo da Vinci, Scritti Letterari, Rizzoli, Milano 1974)


                                                                                    Prefazione di Vincenzo Musso
Il lettore di questo saggio “anomalo” si imbatterà, ad un certo punto, in un dialogo, strutturato proprio come negli scritti filosofici dell'antichità classica. Con la differenza, però, che i due dialoganti non saranno dei simposiasti, bensì, più modernamente e – forse – più prosasticamente, soltanto due amici che prendono amabilmente un caffè espresso insieme e, nel contempo, in un'atmosfera un po' improbabile, discutono della necessità, per l'uomo d'oggi, di un recupero della metafisica. È Andrea, il filosofo tra i due, che avverte questa esigenza, mentre Vincenzo si mostra scettico non tanto e non solo su di essa, ma proprio sulle possibilità di ascolto che un siffatto messaggio oggi potrebbe riscontrare. Vincenzo nel dialogo rimane, al modo di certi scritti platonici o aristotelici, una figura piuttosto sfumata, pressoché esclusivamente finalizzata a permettere all'interlocutore la manifestazione di tutte le sue idee e i suoi ragionamenti, ma la sua opposizione pragmatica e opportunistica alla battaglia donchisciottesca di Andrea risulta dall'autore del saggio adeguatamente tratteggiata.
É trasparente che Andrea sia l'autore stesso. Vincenzo sono io. E io realmente ho manifestato forti perplessità sulla possibile collocazione nel mercato di un'opera del genere, e perplessità ancora più forti sull'utilità – come dire? – spirituale di essa. È veramente necessario per l'umanità il recupero alla e della metafisica? Veramente essa costituisce un risveglio dell'essere umano alla sua più intima natura? E quali sarebbero le modalità e gli strumenti con cui egli attuerebbe questa sua natura e ne fruirebbe?
Ecco, qui si profila una delle novità di questo breve ma intenso testo. L'essere umano ha forse il bisogno di ridefinire le modalità con cui egli si palesa come “metafisico”, ma non quello di individuare gli strumenti per palesarsi tale. Ciò perché egli per se stesso è “metafisico”: se non fosse metafisico, non potrebbe configurarsi nemmeno come uomo o donna, ma sarebbe connotato da una condizione fisica, psichica e psicologica di ferinità. Nel momento in cui perviene alla consapevolezza di possedere una relativa affinità (se non identità) fisio-biologica col mondo animale e nel contempo una diversa forma psico-fisica rispetto allo stesso, a quel punto e non un attimo prima, egli si colloca in una dimensione che è oltre la natura, che è metafisica. La chiave di volta nella propria esistenza, quella che ci consacra esseri metafisici, è l'esperienza della morte altrui, che ci restituisce l'altro come individuo di cui saggiamo drammaticamente e tragicamente la mancanza, e che ci permette di autoidentificare noi stessi come individui. Va da sé che una tale prospettiva costituisce in sé un inno alla fratellanza universale.
L'individuo dunque nasce insieme al sorgere della consapevolezza di sé, la quale scaturisce dal rispecchiamento del singolo nel pietrificarsi del volto di chi muore, e si traduce in coscienza. Quando la coscienza viene addormentata svanisce insieme la consapevolezza di sé, e con essa quella dell'altro che mi sta vicino o che è da me lontano. Questa perdita di consapevolezza riporta l'essere umano ad uno stadio di ferinità, perché lo priva dell'unico metro di valutazione che possedeva: la conoscenza della morte. Egli non mantiene più così la padronanza della propria vita, che diventa soltanto un esserci senza protagonismo. Su questo, l'Andrea-autore non è esente da una disillusione, delicata e drammatica, che a tratti assurge alla dimensione di rabbia, la quale è temperata da una forte tensione morale che non la fa tracimare mai in ira: è nient'altro che il decadimento delle illusioni coltivate dagli animi che vorrebbero essere nobili, che vorrebbero volare alto. Essi, tuttavia, ineluttabilmente conoscono l'attrito greve e sanguinoso di una realtà – sociale, economica, culturale – che ha voluto rifiutare la poesia, la metafisica, per ricercare un bello che acquisisce senso quasi esclusivamente (o forse del tutto) nel possesso. Questo viene considerato, in modo volgare e ferino, la concretazione più genuina del potere.
Il messaggio dell'autore, a questo punto, sembrerebbe essere che solo la metafisica ci può salvare. Realmente però egli si lascia sedurre dal desiderio di lanciare un proclama che nulla ha di profetico, ma solo di malinconico, di deja vu e, pertanto, trattandosi di pensiero esistenzialista, di deficitario e di stolto? No.
È vero che il filosofo-autore traspone a personaggio della sua opera colui che nella vita è il suo più grande amico, e lo elegge a oppositore delle sue tesi. Ma l'operazione che egli conduce è analoga a quella che Petrarca effettuò nel Secretum. Ivi il poeta poneva a dialogare due soggetti, Francesco e Agostino. Tuttavia, pur facendo riferimento Francesco a Petrarca stesso e Agostino al santo omonimo, i due personaggi altro non erano che due parti, tra loro anche contraddittorie, costituenti l'unità della persona del poeta. Nel nostro caso, Andrea è l'autore e Vincenzo il suo amico. Entrambi, però, in verità, nella trasposizione si traducono in due immagini simmetriche e opposte di Andrea: l'Andrea che intuisce e l'Andrea che frena, l'Andrea che sviluppa un'ipotesi e pone una tesi e l'Andrea che falsifica i risultati raggiunti e oppone un'antitesi. In questo processo di dialettica interna al soggetto pensante stesso e di polarizzazione delle parti dell'io intellettuale, peraltro credo poco o nient'affatto consapevole, c'è spazio anche per l'autoridimensionamento, quindi per una nota sottilmente ironica: si tratta dell'Andrea che si prende sul serio al punto da esaltarsi e farsi possedere dal démone, e dell'Andrea che rintuzza, sminuisce, indica con apparente flagranza le debolezze.
Alla fine, però, prevale l'Andrea della lucida visionarietà, quello che indica l'orizzonte e che vi si vuole dirigere a vele spiegate, nella precisa volontà di raggiungere il senso, che è la padronanza del proprio tempo e del proprio spazio, il protagonismo nella propria vita, il coraggio e – in modo forse un po' ingenuo – la distanza netta dal compromesso.


Potete richiederlo a
http://www.ilprato.com/
http://www.centotalleri.eu.org/cusimano.html
http://www.lafeltrinelli.it/libri-scienze-umane-cusimano-andrea/c-1101/1246271/1/

John Langshaw Austin


John Langshaw Austin (1911 – 1960), filosofo inglese, fu autore dello scritto Come fare delle cose con le parole, del 1965; del saggio Sensa e sensibilia, del 1962 e degli Scritti filosofici, del 1961.
Austin matura una delle posizioni più originali all'interno della filosofia analitica. Ed infatti, egli sposta l'analisi del linguaggio dal piano, per così dire, terapeutico, ad una più sistematica analisi delle forme e delle implicazioni dell'atto linguistico.
Per Austin, il problema del linguaggio non è solo quello della verità o falsità delle proposizioni, ma anche quello del carattere performativo di esso, ossia il fatto che le preposizioni non sempre devono indicare una constatazione, ma anche un atto o l'anticipazione di un atto. Ciò avviene quando, ad esempio, dico “prometto che”. In tal caso non è importante l'enunciazione, quanto l'impegno che assumo in essa.
Pertanto, il compito essenziale dell'analisi del linguaggio è quello di studiare le diverse implicazioni o dimensioni dell'atto linguistico . Da tale punto di vista, a dire di Austin, si devono distinguere tre aspetti fondamentali nelle proposizioni: quello locutorio, per cui si enuncia qualcosa; quello illocutorio, per cui l'azione è intrinseca alla proposizione (ad esempio: “prometto”) e quello perlocutorio, ossia gli effetti che l'atto linguistico in quanto tale consegue. 

Gilbert Ryle


Gilbert Ryle (1900-1976), filosofo inglese, fu autore del saggio Lo spirito come comportamento, del 1945.
Ryle focalizza l'attenzione sugli aspetti più caratteristici della filosofia analitica e si interessa dei problemi generali del linguaggio, il cui studio copre interessi che vanno al di là del mero uso scientifico di esso. Ryle si differenzia dagli altri esponenti delle correnti analitiche per l'attenzione che pone alla storia della filosofia e, in particolare, alla filosofia greca.
Egli considera come compito primario della filosofia stabilire una “geografia dei concetti”. In altre parole, il problema principale della sua opera non è quello di determinare le regole formali del linguaggio, bensì quello di vedere in concreto come nel linguaggio si sia configurato il rapporto tra i diversi concetti e a quali problemi e pseudo problemi abbia dato luogo.
In questo tentativo di chiarificare il linguaggio diviene necessario sottolineare gli errori che derivano da uno “scambio di categorie”, ossia dal fatto che un concetto è stato classificato sotto una categoria in cui invece non rientra, oppure dal fatto che non sono stati precisati in maniera adeguata i presupposti in base a cui si è dato via alla costruzione di un discorso filosofico. In tal senso, ha avuto un'influenza particolarmente negativa e nefasta il dogma dello “spettro nella macchina”, come egli chiama il dualismo anima – corpo, che ha avuto in Cartesio il teorizzatore più drastico ed esplicito. In realtà, invece, per intendere, interpretare e spiegare i comportamenti “spirituali” non è necessario ricorrere ad un dualismo di tal genere, ma basta, soltanto, analizzare correttamente le “disposizioni” e le loro “manifestazioni” senza classificarle in entità misteriose.
Inoltre, per Ryle, mediante un'attenta analisi del linguaggio è possibile risolvere quei “dilemmi” in cui si è imbattuta la filosofia attraverso una serie di argomentazioni contrastanti (basta pensare ai paradossi di Zenone) di cui sembra inoppugnabile la soluzione pratica, ma, al contempo, inaccessibile quella teorica. Ciò avviene perché si sono confusi universi diversi di discorso.
Ovviamente, una filosofia che ha come presupposto di base quello di operare un'analisi concreta del linguaggio, non può essere spiegata alla stessa maniera di come vengono esposte le altre posizioni teoriche e dottrinali. Ed infatti, la consistenza e l'efficacia di una filosofia analitica di tal genere non si misura in presupposti o in principi, bensì nel concreto lavoro di chiarificazione dei problemi linguistici.

giovedì 23 agosto 2012

Karl Raimund Popper


Karl Raimund Popper (1902 – 1994), filosofo austriaco, autore della Logica della scoperta scientifica, del 1935; de La miseria dello stoicismo, del 1944; de La società aperta e i suoi nemici, del 191944 – 1945; delle Congetture e confutazioni, del 1963; della Epistemologia senza soggetto conoscente, del 1968 e della Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, del 1972.
Popper polemizza contro le istanze poste in essere dal neopositivismo tanto da essere considerato “l'oppositore ufficiale” del Circolo di Vienna. Popper critica la convinzione di Wittgenstein e di tanti esponenti del neopositivismo circa il fatto che alla filosofia non apparterrebbero proposizioni propriamente vere o false, bensì prive di senso. Inoltre, Popper si discosta da coloro che ritengono che la filosofia sia una forma di arte e di poesia. Ritiene, invece, che sia il frutto e l'espressione di una reale ed autentica razionalità. E ciò viene affermato nel senso che ogni uomo è in una certa misura filosofo, anche se a ciò non deve seguire una sottovalutazione di quelle elaborazioni più complesse dei problemi che ogni uomo sente essenziali. Si tratta, invece, di affermare e di rivendicare, contro le costruzioni speculative e dogmatiche che trovano sempre il modo di ricondurre in maniera più o meno forzata i fatti ai loro schemi, “l'audacia intellettuale” come capacità di rivedere in maniera continua le proprie posizioni. Da ciò consegue un rovesciamento sul piano logico – metodologico dell'induzione e della verifica, nel senso che non si tratta di risalire da proposizioni particolari a proposizioni universali, ma di mettere continuamente in confronto le ipotesi generali con i fatti particolari, che per la loro natura potrebbero darne l'eventuale confutazione.
Popper, quindi, introduce il principio di falsicabilità. L'unico principio che permette di operare una distinzione certa tra proposizioni scientifiche, ossia quelle di cui è possibile indicare fatti tali da falsificarle, da quelle fantastiche, mitiche e dogmatiche, ossia da quelle che possono ricondurre nei loro schemi ogni fatto, ma non ammettono nessun fatto specifico che possa andarli a invalidare.
Il principio di falsicabilità necessita, quindi, che si proceda con particolare cura e preoccupazione nella “demarcazione” dei fatti che possono risultare in conflitto con certi enunciati o con un certo insieme di enunciati. Il criterio della falsicabilità può essere applicato anche alla storia, che, a dire di Popper, troppo spesso è stata mitizzata e considerata criterio di se stessa. In realtà, la storia non giustifica nulla, ma anzi è lei che ha bisogno di essere giustificata. Ciò significa prendere partito sia contro le costruzioni dialettiche della storia, sia contro tutti i “nemici della società aperta” che, presupponendo di possedere il senso della storia, credono di potere chiudere la vita umana dentro organizzazioni totalitarie sottratte al continuo processo autocorrettivo della ragione. 

Rudolf Carnap


Rudolf Carnap (1891 – 1970), filosofo tedesco, professore a Vienna, fu autore de La costruzione logica del mondo, del 1928; de La sintassi logica del linguaggio, del 1934; de La fondazione della logica e della matematica, del 1939; de I fondamenti logici della probabilità, del 1950 e de I fondamenti filosofici della fisica, del 1966.
L'opera di Carnap intende risolvere la filosofia nella logica della scienza e, in maniera più specifica, vuole dissolvere qualsiasi pretesa di riportare la scienza e i suoi procedimenti a problematiche di tipo metafisico. Queste argomentazioni vengono affrontate e chiarite nel saggio Il superamento della metafisica, del 1932, mediante l'analisi logica del linguaggio. In esso Carnap sostiene che vi sono due specie di proposizioni dotate di senso:
  1. quelle proposizioni che sono sempre vere in virtù della sola forma. Tali proposizioni non asseriscono nulla intorno alla realtà, e si configurano essenzialmente come formule della logica e della matematica;
  2. quelle proposizioni empiriche che appartengono al campo delle scienze sperimentali e che sono riconducibili alle proposizioni che registrano i singoli fatti dell'esperienza (le cosiddette “proposizioni protocollari).
La metafisica non vuole limitarsi ad enunciare né proposizioni analitiche né proposizioni appartenenti alla scienza empirica. Per tale motivo si trova costretta ad utilizzare parole prive di ogni tipo di controllo. Parole che Carnap definisce “gusci vuoti”. Ciò perché hanno perso il loro contenuto originario senza che sia possibile darne uno nuovo. La metafisica, quindi, rimane un'attività impossibile, le cui proposizioni sono prive di senso perché mirano al raggiungimento di una impresa impossibile, ossia quella di acquisire una conoscenza per principio inaccessibile alla scienza sperimentale.
La filosofia, pertanto, può continuare ad esistere solo come metodo di analisi logica del linguaggio. Ciò che va al di là dell'analisi logica è solo un modo errato di esprimere sentimenti. Le emozioni e i moti dell'animo, infatti, hanno come corretta forma di espressione l'arte, e soprattutto la musica, la quale è la forma di espressione artistica più di ogni altra affrancata da ogni tipo di riferimento oggettivo.
Per tali motivi Carnap giudica i metafisici come “musicisti privi di capacità musicali”.
Nell'opera La costruzione logica del mondo, del 1928, Carnap afferma la necessità di valorizzare in filosofia (al fine di darle lo statuto di disciplina scientifica) i risultati della nuova logica, ossia di quella logica nata in seno alla profonda crisi dei fondamenti della matematica. Questo vuol dire impostare il problema della gnoseologia come problema della progressiva riduzione di una conoscenza all'altra. In altre termini, bisogna “costituire” dei concetti derivandoli da pochi concetti fondamentali. Concetti che bisogna collocare in un “albero genealogico”, dove ogni concetto trova il suo posto determinato. Alla base della “costituzione” si ha il presupposto (più tardi da Carnap rifiutato) del “solipsismo metodologico”, ossia il fatto che il controllo di un qualsiasi enunciato veniva ricondotto, in ultima analisi, alla esperienza vissuta da ciascuno; sulla base della quale soltanto è possibile comprendere quella altrui. In seguito Carnap adotta il fisicalismo ed risolve il problema dell'analisi del linguaggio con l'analisi delle sue strutture intersoggettive. Si sviluppa in tal modo il programma di una “sintassi logica” del linguaggio della scienza. Tale programma interessa totalmente la filosofia, la quale deve stabilire le regole formali di un certo linguaggio precisando le loro conseguenze circa la formazione e la trasformazione delle proposizioni. Tutto questo lavoro deve sottostare al quadro convenzionalistico rispondente al  principio di tolleranza”, secondo cui il compito del logico non è quello di porre divieti, bensì quello di stabilire delle convenzioni. In altre parole, come afferma Carnap, “in logica non vi sono morali”, ognuno è libero di costruire la propria logica, purché sappia indicare in maniera chiara il proprio metodo e suggerisca regole sintattiche, e non argomenti filosofici. Carnap stesso, nell'opera Sintassi logica del linguaggio, costruisce due tipi diversi di linguaggio.
Gli ultimi lavori di Carnap indagano sempre il problema del metodo, focalizzando l'attenzione su quello induttivo in logica e sul diverso significato del concetto di probabilità, a seconda che sia fondato matematicamente in modo statitistico o induttivamente in base a ipotesi fondate su elementi probatori.

mercoledì 22 agosto 2012

Otto Neurath


La scoperta delle geometrie non – euclidee, la teoria della relatività, il pragmatismo, il convenzionalismo, il contingentismo, l'intuizionismo, hanno comportato notevoli critiche al positivismo, che, seppur non hanno smontato in toto il movimento, ne hanno fatto modificare molte delle sue istanze. Nonostante ciò, il positivismo si presenta nuovamente, anche se in forma nuova e mutata, conservando, però, il suo presupposto di base, ossia la necessità di adeguare la filosofia alla scienza, con la conseguente critica e polemica verso la metafisica. Il neopositivismo riprende alcuni motivi dell'empiriocriticismo (in special modo di Mach) come quelli del rifiuto di qualsiasi forma di metafisica e di apriori. Motivi che vengono riletti alla luce dell'opera di Frege, Russel e Wittgenstein. Ciò al fine di costruire una scienza che tenesse seriamente in considerazione la funzione della matematica e della logica.
Questi sono i motivi principali del neopositivismo, che, sviluppatosi tra la prima e la seconda guerra mondiale, ha come suo nucleo principale un gruppo di scienziati e di filosofi che si raccolsero nel Circolo di Vienna e che iniziarono tutto un lavoro di ricerca basandosi sulla fiducia nella capacità e funzione unificatrice del metodo scientifico rispetto a tutte le branche del sapere fino ad allora rimaste contrastanti ed isolate.
Questo lavoro comune confluì in una rivista chiamata “Conoscenza” e si interruppe nel 1938, quando l'Austria venne annessa alla Germania e gli addetti ai lavori del Circolo furono costretti ad emigrare negli USA.
Il Circolo di Vienna, quindi, si spostò in un terreno fertile. Ed infatti, gli Stati Uniti d'America erano un paese giovane che aveva avuto un enorme sviluppo scientifico e tecnologico. Conseguentemente era ben disposto ad accogliere le istanze logicistiche e scientificizzanti del neopositivismo, anche perché, in quel periodo, aveva avuto larga diffusione il pragmatismo. Lo stesso J. Dewey e C. Morris collaborarono all'Enciclopedia internazionale della scienza unificata, promossa da Neurath.
Otto Neurath (1882 – 1945), filosofo austriaco, dottore in sociologia, fu autore di Fondamenti di scienza sociale, del 1944; di Fisicalismo, del 1931; de La sociologia nel fisicalismo, del 1931; delle Proposizioni protocollari, del 1932; del Fisicalismo radicale del “mondo reale”; del 1934 e di Sociologia empirica, del 1931. Inoltre, fu il maggiore organizzatore della già citata Enciclopedia internazionale della scienza unificata.
La dottrina principale dei neopositivisti si sintetizza nell'affermazione che il pensiero filosofico si è perduto per secoli in una serie di problemi metafisici senza senso. Problemi metafisici che altro non erano che il frutto di atteggiamenti sentimentali ed emotivi.
Ad una concorde polemica verso la metafisica, però, non corrisponde l'elaborazione di un solo metodo di verifica e di controllo della scienza sperimentale. Su questo argomento si svilupparono una serie di complessi dibattiti. In essi si inserisce Neurath, sostenitore di una posizione detta “fisicalista”.
Secondo Neurath noi siamo un po' come i marinai che devono riparare la propria nave in mare aperto senza poterla smontare all'interno di un bacino per ricostruirla con materiali migliori. Ciò significa che non possiamo formulare “proposizioni protocollari” pure, che possano essere adottate come base definitiva della scienza sperimentale.
Diversamente, dobbiamo operare nel linguaggio e con il linguaggio per stabilire delle connessioni sempre più coerenti tra le diverse proposizioni. Queste connessioni devono essere effettuate secondo criteri mutuati dal linguaggio della fisica. Da ciò deriva il nome di fisicalismo data alla posizione di Neurath.
Ed infatti, non esiste alcuna proposizione del linguaggio quotidiano che non può essere tradotta nel linguaggio della fisica. Ed è proprio questa la funzione della scienza, ossia quella di trasformare gli enunciati della vita quotidiana in un linguaggio fisicalistico. Ciò può raggiungersi eliminando da esso non solo i residui metafisici, ma, anche, tutte le componenti prefisicalistiche. In tal modo si avranno espressioni che vanno confrontate solo con altre espressioni, e non con esperienze o con il mondo o con qualsiasi altra cosa di tal genere. Ed infatti, il confronto con l'esperienza verrebbe effettuato secondo schemi risultanti dai residui di dualismi metafisici privi di senso. In tal modo non si avrà più un linguaggio privato soggettivo o proposizioni originarie inverificabili. Si avrà, invece, come dice Neurath nell'Enciclopedia internazionale della scienza unificata, una scienza unificata con un linguaggio unificato aperto a correzioni, rettifiche e integrazioni. 

martedì 21 agosto 2012

G.E. Moore.


G.E. Moore.
A cavallo tra ottocento e novecento la filosofie maggiormente affermate sono quelle neopositiviste e quelle analitiche. In tale contesto si inserisce la filosofia anglosassone, che riprende le istanze hegeliane e sviluppa un pensiero affermante la supremazia dello spirito rispetto a quelle correnti materialistiche e positivistiche. L'egelismo viene spesso interpretato come “idealismo gnoseologico”, ossia come negazione della realtà sensibile o, comunque, sua riduzione alla coscienza o a stati mentali.
Una delle figure più importanti dell'idealismo anglosassone è quella di Francis Herbert Bradley (1846 – 1924), autore degli Studi di etica, del 1876; dei Principi di logica, del 1883 e dell'Apparenza e realtà, del 1893. Bradley, muovendo dalla tesi hegeliana “il vero è l'intero”, giunge ad una forma di radicale scetticismo nei confronti dell'esperienza. Ed infatti, se la verità può trovarsi solo nella completa armonizzazioni delle contraddizioni, tale requisito è sempre assente nel mondo dell'“apparenza”, che deve essere, pertanto, giudicato come inconsistente e privo di coerenza logica, oltre che di effettiva realtà.
Contro questa posizione scettica, che in qualche maniera riprende la dottrina berkeleyana “esse est percipi”, si muove la filosofia realistica di G.E. Moore (1873 - 1958), autore del saggio La confutazione dell'idealismo. Importanti sono anche i Principia ethica, del 1902; gli Studi filosofici, del 1922 e il saggio Alcuni problemi essenziali della filosofia, del 1953.
Per Moore tutte le sensazioni hanno la caratteristica comune di appartenere alla coscienza. Al contempo, però, ciascuna di essa ha qualcosa di diverso (la sensazione del giallo, ad esempio, differisce da quella del verde), che è il loro “oggetto”. Avere una sensazione significa, pertanto, essere già fuori dalla propria coscienza e conoscere qualcosa che non fa parte soltanto della mia personale esperienza. Inoltre, uno scetticismo ed un idealismo che volessero essere realmente coerenti dovrebbero negare sia la materia che lo spirito. Ciò perché entrambi sono ugualmente dotati o privi di evidenza. Per tale motivo, Moore sostiene la validità del “senso comune” nella dimensione in cui viene accettata l'esistenza di un numero enorme di oggetti materiali anche quando non li vediamo o non ne siamo consapevoli. Importante è, anche, il metodo dell'“analisi filosofica”. Metodo che si ricollega alla sua posizione teorica sempre aperta e problematica. L'analisi filosofica viene applicata soprattutto ai problemi morali e interpreta la filosofia come lo strumento per mettere in luce le ambiguità e le difficoltà inerenti al linguaggio ordinario della vita e di individuarne con esattezza il significato.