Simone
Porzio
(1496
– 1554, professore a Pisa), assertore di un coerente aristotelismo,
profondo conoscitore dello Stagirita, polemizza contro tutte le
interpretazioni dualistiche o spirituali dell'uomo. Interpretazioni
che possono avere origine dal platonismo, dalla teologia o
dall'averroismo. Centro del suo conformarsi all'aristotelismo è il
sinolo di materia – forma. Sinolo costituente, per Porzio, la
realtà concreta individuale. Ciò vale anche per l’uomo e per la
sua anima, che in quanto atto e perfezione del corpo fisico e
organico, non può esistere né separata né eterna. Per tale motivo
non si può spiegare la sua origine mediante il concetto di
creazione, almeno che non si voglia incorrere, rompendo con la logica
del sistema aristotelico, in numerose contraddizioni. Il Porzio
afferma nella Riproduzione
degli animali
che la sorte degli uomini è la medesima di quella degli altri
viventi. E quindi “ ridicolo
dare agli uomini una rinascita e una morte molto diversa da quella
degli altri viventi”.
Il destino dell’intelletto per Ponzio è chiarissimo, infatti, egli
afferma che “è
assolutamente necessario affermare, secondo la filosofia di
Aristotele, che l’intelletto in potenza è facoltà dell’anima
nostra, generabile e corruttibile”.
Resta solo un vis al di sopra dell’uomo che illumina gli
intelligibili come la luce si identifica con Dio.
Giacomo
Zabarella
fu uno dei maggiori esponenti dell’aristotelismo della seconda metà
del cinquecento. Professore a Padova dal 1564, muore nel 1589. La sua
opera più importante è il De
rebus naturalibus libri XXX,
in cui Zabarella si mostra
perfettamente in linea con l’insegnamento naturalistico dello
Stagirita.
Fondamentale
nell’interpretazione del pensiero di Aristotele è il concetto di
sinolo, al quale Zabarella si riferisce per risolvere il problema del
primo motore, che è sempre legato ad un mosso. Zabarella inoltre
insiste sulla definizione di anima
– forma
come un qualcosa di unico, anche per quanto riguarda l’anima
razionale. Da ciò anche la polemica verso la filosofia averroista,
contro i quali scrive: “ritengo
la dottrina di Averroè falsa sia in senso assoluto secondo la
verità, sia secondo la filosofia di Aristotele; ritengo invece vera
la dottrina di coloro i quali dicono che l’anima razionale umana è
veramente forma dell’uomo, per cui l’uomo è uomo, ed è
costituito nella specie”.
Zabarella
sviluppa ulteriormente il concetto di forma
informante
affermando che, quando Aristotele dice che l’intelletto è
separabile, non vuole sostenere che esista separato, ma semplicemente
che esso non è facoltà organica, perché nell’operazione non ha
bisogno di organo corporeo. Questa autonomia dell'anima dal sensibile
non comporta, però, che esso possa esistere indipendentemente dal
corpo di cui è forma, ma semplicemente che nelle sue operazioni è
più elevato delle altre parti dell’anima. La logica di Zabarella
evidenzia il valore dell’induzione come strumento preliminare ad
ogni dimostrazione. Egli distingue il metodo
dall’ordine.
Il metodo è uno strumento che ci conduce dal conosciuto alla
conoscenza di ciò che ancora non è conosciuto, mentre l’ordine
serve a “pianificare” le cose che si debbono trattare. Il metodo
si sviluppa tra dimostrativo e risolutivo: il primo necessita di
definizioni note, il secondo, invece, consiste nell’invetio
della definizione.
Cesare
Cremonini
(1550
– 1631) fu professore a Ferrara e poi a Padova. Egli rappresenta
l’aristotelismo nella sua più piena intransigenza. Il suo pensiero
nega il concordismo teologico, e non prende in considerazione i
problemi avanzati da tutta quella scienza e filosofia che si
maturavano fuori degli ambienti universitari.
Il
suo pensiero non è altro che la sintesi dell'acquisizione della
lezione dell'aristotelismo – scolastico:
tutto l'universo è chiuso entro i limiti naturalistici imposti dalla
prospettiva dello stagirita: il primo motore, legato al primo cielo
muove – come insegnava Aristotele – quale prima causa. L’anima
è forma del corpo, esattamente causa
corporis,
e quindi essa stessa corporea. L’intelletto
possibile
però è una facoltà dell’anima che in quanto conosce supera la
corporeità e attinge l’universale, sicché solo come atto
d’intendere l’anima tende all’immortalità che non le compete
come forma del corpo. Solo l’intelletto agente, unico e separato, è
impassibile e divino.
Giulio
Cesare
Vanini
nasce a Lecce nel 1585 e muore arso sul fuoco per eresia a Tolosa nel
1619. Scrisse il celebre Anphyteatrum
aeternae providentiae (1616), il De admirandis naturae reginae
deaeque mortalium arcanis.
Egli,
portando
all'estrema conseguenza il naturalismo rinascimentale, giunge alla
negazione sia dell’immortalità dell’anima, che dell’esistenza
di un Dio personale e provvidente, scagliandosi contro tutti i
fenomeni religiosi. Nel suo De
incantationibus
interpreta tutti i fenomeni religiosi, siano essi miracoli, profezie,
eventi angelici e demoniaci, a fenomeni spiegabili o nelle facoltà
organiche del corpo umano (la
fantasia capace di modificare la vera realtà)
o all’astuzia dei fondatori delle religioni, che hanno creato e
imposto la credenza negli dei e nelle realtà soprannaturali a scopro
di lucro e di potere. L’opera di impostura dei religiosi si
ricongiunge a quella dei politici. Entrambi creano un mondo di
credenze al fine di dominare la plebe. Egli fu grande sostenitore di
Pomponazzi, tanto da definirlo principe
dei filosofi del loro tempo,
ma la sua intransigenza lo porta a superare e a estremizzare le
posizioni del maestro. Per Vanini, infatti, le intelligenze celesti,
che muoverebbero i cieli, e le religioni tutte sono il frutto della
fantasia umana. Esistono, pertanto, solo i fenimeni naturali e
necessari.
Infine
considera il Machiavelli “il
principe degli atei [che
sostiene]
che tutte le cose religiose sono false e sono finte dai principi per
istruire l’ingenua plebe affinché, dove non può giungere la
ragione, almeno conduca la religione”.
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