mercoledì 30 maggio 2012

Simone Porzio, Giacomo Zabarella e Cesare Cremonini


Simone Porzio (1496 – 1554, professore a Pisa), assertore di un coerente aristotelismo, profondo conoscitore dello Stagirita, polemizza contro tutte le interpretazioni dualistiche o spirituali dell'uomo. Interpretazioni che possono avere origine dal platonismo, dalla teologia o dall'averroismo. Centro del suo conformarsi all'aristotelismo è il sinolo di materia – forma. Sinolo costituente, per Porzio, la realtà concreta individuale. Ciò vale anche per l’uomo e per la sua anima, che in quanto atto e perfezione del corpo fisico e organico, non può esistere né separata né eterna. Per tale motivo non si può spiegare la sua origine mediante il concetto di creazione, almeno che non si voglia incorrere, rompendo con la logica del sistema aristotelico, in numerose contraddizioni. Il Porzio afferma nella Riproduzione degli animali che la sorte degli uomini è la medesima di quella degli altri viventi. E quindi “ ridicolo dare agli uomini una rinascita e una morte molto diversa da quella degli altri viventi”. Il destino dell’intelletto per Ponzio è chiarissimo, infatti, egli afferma che “è assolutamente necessario affermare, secondo la filosofia di Aristotele, che l’intelletto in potenza è facoltà dell’anima nostra, generabile e corruttibile”. Resta solo un vis al di sopra dell’uomo che illumina gli intelligibili come la luce si identifica con Dio.
Giacomo Zabarella fu uno dei maggiori esponenti dell’aristotelismo della seconda metà del cinquecento. Professore a Padova dal 1564, muore nel 1589. La sua opera più importante è il De rebus naturalibus libri XXX, in cui Zabarella si mostra perfettamente in linea con l’insegnamento naturalistico dello Stagirita.
Fondamentale nell’interpretazione del pensiero di Aristotele è il concetto di sinolo, al quale Zabarella si riferisce per risolvere il problema del primo motore, che è sempre legato ad un mosso. Zabarella inoltre insiste sulla definizione di anima – forma come un qualcosa di unico, anche per quanto riguarda l’anima razionale. Da ciò anche la polemica verso la filosofia averroista, contro i quali scrive: “ritengo la dottrina di Averroè falsa sia in senso assoluto secondo la verità, sia secondo la filosofia di Aristotele; ritengo invece vera la dottrina di coloro i quali dicono che l’anima razionale umana è veramente forma dell’uomo, per cui l’uomo è uomo, ed è costituito nella specie”.
Zabarella sviluppa ulteriormente il concetto di forma informante affermando che, quando Aristotele dice che l’intelletto è separabile, non vuole sostenere che esista separato, ma semplicemente che esso non è facoltà organica, perché nell’operazione non ha bisogno di organo corporeo. Questa autonomia dell'anima dal sensibile non comporta, però, che esso possa esistere indipendentemente dal corpo di cui è forma, ma semplicemente che nelle sue operazioni è più elevato delle altre parti dell’anima. La logica di Zabarella evidenzia il valore dell’induzione come strumento preliminare ad ogni dimostrazione. Egli distingue il metodo dall’ordine. Il metodo è uno strumento che ci conduce dal conosciuto alla conoscenza di ciò che ancora non è conosciuto, mentre l’ordine serve a “pianificare” le cose che si debbono trattare. Il metodo si sviluppa tra dimostrativo e risolutivo: il primo necessita di definizioni note, il secondo, invece, consiste nell’invetio della definizione.
Cesare Cremonini (1550 – 1631) fu professore a Ferrara e poi a Padova. Egli rappresenta l’aristotelismo nella sua più piena intransigenza. Il suo pensiero nega il concordismo teologico, e non prende in considerazione i problemi avanzati da tutta quella scienza e filosofia che si maturavano fuori degli ambienti universitari.
Il suo pensiero non è altro che la sintesi dell'acquisizione della lezione dell'aristotelismo – scolastico: tutto l'universo è chiuso entro i limiti naturalistici imposti dalla prospettiva dello stagirita: il primo motore, legato al primo cielo muove – come insegnava Aristotele – quale prima causa. L’anima è forma del corpo, esattamente causa corporis, e quindi essa stessa corporea. L’intelletto possibile però è una facoltà dell’anima che in quanto conosce supera la corporeità e attinge l’universale, sicché solo come atto d’intendere l’anima tende all’immortalità che non le compete come forma del corpo. Solo l’intelletto agente, unico e separato, è impassibile e divino.
Giulio Cesare Vanini nasce a Lecce nel 1585 e muore arso sul fuoco per eresia a Tolosa nel 1619. Scrisse il celebre Anphyteatrum aeternae providentiae (1616), il De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis.
Egli, portando all'estrema conseguenza il naturalismo rinascimentale, giunge alla negazione sia dell’immortalità dell’anima, che dell’esistenza di un Dio personale e provvidente, scagliandosi contro tutti i fenomeni religiosi. Nel suo De incantationibus interpreta tutti i fenomeni religiosi, siano essi miracoli, profezie, eventi angelici e demoniaci, a fenomeni spiegabili o nelle facoltà organiche del corpo umano (la fantasia capace di modificare la vera realtà) o all’astuzia dei fondatori delle religioni, che hanno creato e imposto la credenza negli dei e nelle realtà soprannaturali a scopro di lucro e di potere. L’opera di impostura dei religiosi si ricongiunge a quella dei politici. Entrambi creano un mondo di credenze al fine di dominare la plebe. Egli fu grande sostenitore di Pomponazzi, tanto da definirlo principe dei filosofi del loro tempo, ma la sua intransigenza lo porta a superare e a estremizzare le posizioni del maestro. Per Vanini, infatti, le intelligenze celesti, che muoverebbero i cieli, e le religioni tutte sono il frutto della fantasia umana. Esistono, pertanto, solo i fenimeni naturali e necessari.
Infine considera il Machiavelli “il principe degli atei [che sostiene] che tutte le cose religiose sono false e sono finte dai principi per istruire l’ingenua plebe affinché, dove non può giungere la ragione, almeno conduca la religione”.

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