Durante
la conquista spagnola, e nel corso dei decenni successivi, i Maya,
come gli altri Indios del Messico, vennero massacrati e decimati. Il
loro numero diminuì enormemente anche a causa delle varie epidemie a
loro sconosciute portate dai conquistadores,
come il vaiolo. Inoltre, furono durissimi gli
sfruttamenti per i lavori forzati nei secoli successivi, la
popolazione cominciò nuovamente ad aumentare e, probabilmente, oggi
i Maya sono quantitativamente gli stessi dell’epoca precolombiana.
Nonostante
l’influenza degli Iberici sugli Indios e Iberici, e la radicale
trasformazione del sistema sociale, soprattutto nell’ultimo
cinquantennio, numerosi gruppi di Indios hanno saputo conservare la
propria identità, il loro modo di vita e i loro costumi, benché in
modi diversi a seconda delle diverse province. Il mondo maya ha
mantenuto parecchie delle peculiarità dei propri caratteri
originari. Nonostante siano ormai quasi tutti cristianizzati, il loro
credo religioso rappresenta un peculiare sincretismo tra l’originario
politeismo e la religione importata dagli Spagnoli. Il mais, pianta
sacra per i Maya, nell’antichità venne divinizzato, e tutt’oggi
conserva una sorta di sacralità per gli Indios. Eric Thompson, che
trascorse un paio di mesi tra loro, scrive a questo proposito:
“Prima
di cominciare una delle fasi del suo lavoro, il Maya fa un’offerta
agli dei custodi del suo campo. Le cerimonie con cui si apre la
semina del granoturco presso i Maya Mopan del Belize meridionale
illustrano bene l’atmosfera religiosa in cui vivono. La sera prima,
convengono nella capanna del proprietario di un appezzamento di
terreno gli amici che lo aiuteranno. Ad un capo dell’unica stanza
la semente in sacchi è disposta su una tavola innanzi ad una croce.
C’ è una zucca con del cacao misto a farina di granoturco, con
alcune candele accese davanti e ai lati. Prima si incensa la semente
con l’incenso di copale, poi si incensa l’intera capanna dentro e
fuori. Gli uomini che sono giunti ciascuno con la propria amaca, vi
si distendono e passano la notte a conversare e a fare della musica.
A mezzanotte viene servita la cena. Talvolta il gruppo va in chiesa a
pregare per un buon raccolto. Scopo della veglia è di garantirsi che
il raccolto non venga compromesso dall’incontinenza di qualche
membro del gruppo dei seminatori (i Mam, i Chorti, i Kekchi e altri
gruppi maya osservano una stretta continenza anche per tredici giorni
prima della semina) ”1.
Thompson
partecipò ad una di queste riunioni e, proseguendo nel suo studio,
aggiunge:
“All’alba
il padrone del campo parte prima degli altri. Va al centro del suo
campo, e dopo avere bruciato del copale, semina sette manciate di
grano in forma di croce, orientata ai quattro punti cardinali; e
recita la preghiera rituale:
‘Dio
che sei il mio avo e la mia ava, Dio dei monti e delle valli, Dio
santo ti faccio di tutto cuore la mia offerta. Sii paziente con me e
con le mie azioni, mio vero Dio e Beata vergine. E’ indispensabile
che tu mi renda in un bel raccolto tutta la semente che spargo qui
dove ho il mio lavoro, il mio campo. Sorveglialo e proteggilo per me,
che niente di male gli accada da quando semino a quando raccoglierò’
[…]Tipiche
cerimonie agricole sono quelle in onore dei Chac [divinità della
pioggia] che si tengono ancora oggi nei villaggi dello Yucatan per
invocare la fine della siccità. Gli uomini vi partecipano tutti.
Prima di tutto si porta l’acqua per preparare i cibi votivi.
Dev’essere acqua vergine di un sacro cenote che le donne non
avvicinano mai. Portata l’acqua nessuno deve ritornare a casa,
perché se uno avesse contatti con una donna durante la cerimonia la
pioggia non verrebbe più[…]Dopo due giorni di cerimonie
preliminari lo sciamano all’alba del terzo giorno offre ai Chac
e agli dei guardiani delle milpas tredici zucche lunghe e due zucche
basse di balche[…]questi riti, si badi, non devono essere presi per
altrettanti dati etnologici: sono espressione dell’importanza che
hanno per i Maya il mais e gli dei che lo nutrono
e dissetano”.2
Questo
passo illumina sul fatto che, nonostante i vegetali commestibili
portati dal Vecchio Mondo gli permettano di variare la loro dieta, i
Maya fanno ancora nel mais l’80% del loro nutrimento.
I
Maya se ne nutrono durante ogni pasto, per tutto l’anno, sicchè
quando il raccolto va male, non hanno di che cibarsi. Ma questo passo
è soprattutto esplicativo di quella forma di sincretismo su cui
abbiamo già fatto qualche accenno: i Maya, sebbene quasi totalmente
cristianizzati, compiono ancora riti in favore degli dei. Esemplare
di quanto detto sono la persistente adorazione ed il profondo
rispetto religioso per i Chac. La preghiera a Dio e alla Madonna e i
riti arcaici danno l’idea di un popolo che non ha perso del tutto
la sua antica identità, e che è riuscito a coniugare l’antico con
il nuovo portato dagli Iberici. Un popolo che considera ancora il
mais alla stregua di un dio, e che ha conservato la forte originaria
spiritualità, tanto da seguire un periodo di continenza di tredici
giorni prima della semina.
Il
gruppo etnico maya, ancora sul posto, conta una popolazione pari a
poco più di sei milioni di individui, suddivisi in parecchi gruppi
consistenti, da Nord a Sud: negli Yucatechi,
nei Chol del bacino
dell’Usumacinta, nei
Contali che si trovano nel delta del Tabasco
ed un po’ anche nel Campeche. Poi vi sono i Tzotzil
i Mam
(300.000), i Tentali.
I Quiquè, i
Cakchiqueli e gli
Zutuhili nelle altre
terre del Guatemala e del Chiapas.
Ogni
comunità costituisce una piccola società chiusa e fortemente
gerarchizzata, dove pure non mancano spinte egualizzatrici, come per
esempio l’usanza di fare elargire ai più ricchi delle somme in
favore della comunità, in particolare in occasioni delle loro
numerose feste. La chiusura e il ripiegamento in se stessi è meno
forte nelle zona dello Yucatan; ove si è diffuso uno stile di vita
iberico, sebbene la lingua maya sia ancora molto usata.
La
maggior parte dei Maya vive ancora in capanne che hanno conservato la
stessa struttura di quelle antiche. Secondo alcuni studiosi, essi
sono normalmente pacifici, (ma possono diventare feroci se
provocati), inclini all’alcol, (usanza risalente a dopo la
conquista spagnola), di media intelligenza e di poca fantasia
artistica. Quest’ultima la si può spiegare come una regressione
causata dal crollo del periodo classico. Il maya yucateco è
estremamente pulito, fa il bagno mattina e sera e sua moglie è una
massaia meticolosa nella pulizia della casa. Intensamente religiosi,
non si potrebbero definire superstiziosi.3
Dopo
la conquista, i rapporti, tra Maya ed Europei si fecero molto ostili,
soprattutto per colpa di questi ultimi, che sfruttarono intensamente
gli Indios nelle loro vaste piantagioni. Verso la metà del
diciottesimo secolo un altro evento contribuì ad inasprire
ulteriormente i rapporti tra le due diverse etnie, e cioè il
fenomeno del cacicchismo:
un sistema di pressione amministrativa e politica nell’ambito del
quale i cacicchi erano incaricati dai grandi proprietari di latifondi
di spremere con imposte e tasse i peones
ed i contadini. La loro tirannia provocò diverse rivolte, che
divennero a volte delle ferocie battaglie, capaci di devastare il
popolo e il territorio per parecchi decenni.
Michael
Coe afferma che:
“Nonostante
la loro apparente docilità, i Maya sono gli indiani più tenaci
della Mesoamerica, e la lotta contro la civiltà da allora non ha mai
avuto fine. Nel 1847, e ancora nel 1860, i Maya yucatechi si
sollevarono contro i loro oppressori bianchi, per la prima volta
giungendo vicinissimi alla liberazione dell’intera penisola. Ancora
nel 1910 i capi indipendenti del Quintana Roo erano in continua
ribellione contro il regime dittatoriale di Porfirio Diaz, e soltanto
negli ultimi decenni questi abitanti di remoti villaggi maya si sono
rassegnati ad accettare il governo del Messico. Al pari di essi si
sono sollevati ripetutamente, in particolare nel 1812 e nel 1868, gli
Tzeltal del Chiapas altopianale[…].4
La
situazione migliorò dopo il 1930 con la riforma agraria che sanciva
la soppressione dei latifondi. Tale iniziativa risorse una delle
maggiori piaghe dei Maya di oggi, e cioè il massacrante sfruttamento
nelle piantagioni di henequen,
(agave rigida), una specie di sisal. I rapporti allora migliorarono e
divennero meno tesi, talchè si potè attuare una politica di
riassorbimento della popolazione nei programmi di industrializzazione
e di modernizzazione. Tuttavia, nonostante gli sforzi del potere
centrale, alcune tribù irriducibili si rifiutarono di abbandonare i
propri usi e costumi ancestrali, arrivando anche a rifiutare
qualsiasi tipo di contributo nazionale al loro sviluppo. La più
famosa di queste tribù è quella dei Lacandoni, un minuscolo gruppo,
ormai quasi del tutto estinto, che conta una popolazione di poco più
di 300 persone.5
Il conflitto comunque non è tutt’ora finito: il popolo maya vive
fondamentalmente in uno stato di sfruttamento, e non vuole piegarsi
alla cultura occidentale, volendo anzi conservare una propria
identità culturale. Magda Wimmer afferma che: “i conquistatori
incominciarono ad inculcare nei popoli indigeni la loro cultura del
profitto e delle norme, poiché credevano di potere condurre una vita
ideale se si fossero diligentemente adoperati a cambiare l’ambiente
straniero e i suoi nativi. Ciò costituì il fattore scatenante del
conflitto culturale, che dura da 500 anni”.6
Un conflitto quindi che non è solo economico ma anche culturale,
elementi strettamente correlati tra loro. Proprio come esempio di
questa difesa di identità degli indios, Magda Wimmer riporta alcuni
brani di protesta dei nativi d’America, come quello di Gene Keluche
che dice:
“La
cultura occidentale ci vuole costringere a seguire un determinato
piano e a procedere secondo qualche schema. Questa è una cosa
insensata! E’ perfettamente lecito non fare nulla, benché in tal
modo gli Occidentali si arrabbiano, credendoci indifferenti a tutto!
”.7
Un
altro esempio di difesa delle proprie tradizioni è dato da Corn
Tassel, rappresentante dei Cherokee, che nel 1785 scrisse:
“Voi
dite: perché gli indiani non coltivano la Terra e vivono come noi?
Noi abbiamo, da parte nostra, lo stesso diritto di rispondere: perché
i bianchi non vanno a caccia e non vivono come noi?” .
Allo
stesso fine si muovono le parole dell’anziano dei Guajiero,
Columbia, che afferma:
“La
resistenza indigena fu maggiormente di natura culturale che fisica.
Le indigene preferiscono difendersi con astuzia, piuttosto di cercare
un confronto aperto. Anche le donne, perciò, furono addirittura
predestinate ad essere in prima linea e divennero “custodi della
cultura.[...]Il paese significa identità passata, presente e futura.
La terra è, in senso letterale e in senso figurato, la casa degli
antenati, che diedero vita alle odierne generazioni; perciò, essi
devono essere venerati con i riti e le usanze della tradizione[…]”.8
Un
ruolo importante nell’impegno e nella salvaguardia del patrimonio
culturale e dell’identità degli indios lo ha svolto e lo svolge
tutt’ora Rigoberta Menchù Tum, premio Nobel per la pace nel 1992.
Essa è ambasciatrice di buona volontà dell’UNESCO per una cultura
della pace, e si è prodigata per una lotta pacifica in difesa delle
proprie tradizioni. Rigogerta Menchù Tum nell’introduzione al
libro di Magda Wimmer, scrive:
“Noi
siamo esortati a portare un contributo ad una cultura della pace. Noi
siamo esortati a non dimenticare mai i vecchi del passato. Noi siamo
esortati a rendere giustizia e dignità a coloro che hanno bagnato
con il loro sangue la nostra madre Terra”.
A
tal proposito, Patrizia Bertolotti, ritiene che:
“I
Maya sono, in realtà, una popolazione ancora viva e rigogliosa,[…]i
cui capi vengono spesso perseguitati e incarcerati, come è successo
[alla sopraccitata] Rigoberta Menchù, ma che continua a mantenere
vive le proprie tradizioni, e ora vuole incorporarle al presente e
trovare loro un posto nel futuro. La rinascita di questa cultura
coincide con il massacro di Tlatelolco, avvenuto nel 1968. In
quell’occasione l’esercito messicano sparò senza pietà su una
folla di migliaia di manifestanti: tra di loro studenti, lavoratori e
indigeni. Da allora, in modo quasi clandestino al principio, i capi
spirituali dei nativi cominciarono lentamente a recuperare le
conoscenze dei loro popoli e rivendicarono l’orgoglio di essere ciò
che erano. Si organizzarono politicamente e il governo non potè fare
altro che ascoltare le loro rivendicazioni[…]Il popolo Maya ha
avuto sin dal principio un ruolo attivo nella lotta indigena. Dopo il
massacro di Tlatelolco9
questo popolo fondò il Consiglio degli Anziani Maya, che continua
ancora oggi a portare avanti il proprio messaggio di tolleranza e di
recupero delle tradizioni”10.
Un
popolo, quindi, con un grande senso storico, che sa che perdere la
tradizione significa perdere la propria identità; un popolo che non
si è fatto piegare da 500 anni di violenza, e che gelosamente si è
conservato agli attacchi culturali degli occidentali. I Maya sono
alla ricerca della loro sapienza, del significato del loro
calendario; gli anziani cercano di mantenere il senso storico, e, pur
non rifiutando qualsiasi apertura alla cultura occidentale, ma anzi
sempre propensi al dialogo e al cercare di capire e di farsi capire,
educano i loro giovani a non obliare il passato, a credere e a
rispettare il proprio patrimonio culturale. Chiarificante della
voglia di fare di questo popolo è un’intervista fatta a due membri
del Consiglio degli Anziani Maya che visitata la Spagna, hanno
risposto alle domande della rivista iberica Màs
Allà. Ci piace riportare parte
dell’intervista a conclusione di questo paragrafo.
- Voi affermate che portate la sapienza maya in Spagna è parte del vostro destino. Ma non provate rancore verso gli spagnoli?
R) Nella cultura maya pratichiamo
quello che comunemente viene detto “io sono te e tu sei me”. Ciò
che accadde con gli Spagnoli fu molto triste, ma se i loro
conquistatori avessero davvero compreso la cultura maya, sarebbero
ancora al potere. Fu il fenomeno di un’epoca: questi spagnoli
provenivano da una società malata. Per i Maya la sapienza non è un
possedimento, ma un dono del Datore, e il nostro dovere è
condividerla. Per questo siamo qui. E il nostro contributo
all’elevazione della coscienza dell’umanità e del Pianeta.
D) Come si arriva a diventare guardiani della
tradizione maya ?
R) Un guardiano non è uno sciamano, ma un
rappresentante del Consiglio degli Anziani e dei Sacerdoti Maya del
Messico e del Guatemala. Anche se gli storici lo negano, la
conoscenza dei Maya non è stata completamente rivelata. Noi
apparteniamo alla tradizione e l’autorità ci viene conferita da un
maestro alla nona mezzanotte, dopo che siamo stati tra i tre e dieci
anni suoi apprendisti e abbiamo imparato tutto ciò che sa. Il
Consiglio conserva tutto ciò che fa parte della nostra cultura e
cerca il modo migliore per tramandarlo alle generazioni future.
D) La tradizione gode di buona salute tra i Maya
moderni o essi hanno dimenticato i loro antenati per sempre?
R) Gli interessati alla tradizione sono una
minoranza. Abbiamo firmato il Consiglio per preservare ciò che
sappiamo in un tempo in cui i nostri fratelli non sono interessati.
Questa è la conseguenza di 600 anni di colonialismo che ancora
continua, una terribile invasione che ha modificato le nostre
credenze. Nel passato il popolo maya aveva raggiunto una conoscenza
profonda che non venne compresa dall’umanità. Ma le cose sono
cambiate, questa umanità si è evoluta e cerca ciò che i Maya già
conoscono. Nulla succede per caso e stiamo assistendo a un nuovo
ciclo.11
Convinti
che vi sarà, come prevede il loro calendario, una nuova glaciazione,
i Maya spiegano l’abbandono degli antichi centri religiosi come
conseguenza di una perdita di magnetismo favorevole. Infatti, le
posizioni delle piramidi nascevano in base a calcoli planetari ben
precisi. Tali calcoli permettevano di decidere di innalzare una città
se il magnetismo era favorevole o di abbandonarla se diveniva
funesto: Per questo i centri maya sono
abbandonati e ricostruiti diverse volte”.
Non credono alla profezia del 2012, infatti sostengono che: “Per i
Maya quella profezia del 2012 non esiste. Si tratta di una creazione
dello studioso Eric Thompson, che arrivò a quella conclusione dopo
aver visitato i luoghi maya di potere. Ma noi, gli anziani, non la
riconosciamo”.12
Noi,
a difesa di Eric Thompson, possiamo dire che questa data, indicante
la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo, l’abbiamo ritrovata
in tutti i testi consultati, anche nei più moderni e anche Magda
Wimmer, molto vicina ai Maya,13
e la cui introduzione del suo libro è scritta da Rigoberta Menchù,
è d’accordo con Thompson. Rimasti in non più di 6 milioni, i Maya
parlano ancora la loro lingua. Oggi, grazie a molte importanti
personalità come Rigoberta Menchù, Hunbatz Man, Pedro Pablo, Chuc
Pech, il processo di riscoperta delle tradizioni è cominciato, ed è
portato avanti nonostante le tante difficoltà date sia dalle
conoscenze lacunose, che da una politica governativa inefficace ed
inadatta.14
Un esempio di resistenza culturale: i Lacandoni del
Chiapas
Chiapas
Nonostante
siano ormai assai poco numerosi e in via di estinzione, i Lacandoni
hanno attirato l’interesse di etnologi ed antropologi per via del
loro stile di vita ancora conforme agli usi e costumi dell’antichità.
Vero fossile vivente, il popolo Lacandone continua a parlare il maya
classico, e non usa il Tzetal diffuso invece nei dintorni. I
Lacandoni, che hanno conservato una religione politeista, fino agli
anni ’70 vivevano totalmente in disparte, dispersi in piccoli
gruppi situati su un territorio di circa 10.000 chilometri quadrati.
Vivono in non più di una decina di villaggi, formati da capanne
talvolta prive di pareti a causa del clima caldo e soffocante della
zona.
Il
loro territorio, scrive Paul Gendrop,15
si estende su una superficie che va dal Messico al Guatemala,
dall’Usumacinta al Jatatè. Si tratta di un territorio montuoso,
aspro, coperto dalla giungla, umido, attraversato da qualche corso
d’acqua e punteggiato da lagune. Molti antropologi ed etnologi
negli anni trenta si sono dedicati allo studio di questa minuscola
comunità, assai interessante perché in essa sopravvivevano molti
tratti del passato. Lo studioso che più si è distinto nello studio
di questa cultura fu Jacques Soustelle, oltre che Alfred M. Tozzer,
Frans Blom, Gertrude Duby, Eric Thompson, ecc. I Lacandoni riescono a
vivere giorno dopo giorno, anno dopo anno, senza ricevere nulla
dall’esterno. Coltivano per il proprio sostentamento il mais, la
manioca, la patata dolce, il peperone, il fagiolo, il pomodoro.
danno la caccia agli uccelli della foresta, alle scimmie, al tapiro e al maiale selvatico: i loro archi sono costruiti con legno di guaiaco, canne, selce, e piume di pappagallo che si producono sempre da sé. Costruiscono le loro case e i loro templi con rami e foglie. Coltivano anche il cotone, con cui poi le donne grazie alla tessitura confezionano indumenti, ed anche il tabacco da cui ricavono, arrotolando le foglie secche, dei grossi sigari. Abbattono grossi tronchi di mogano da cui costruiscono le proprie piroghe scavandoli. Tutto quello che hanno, dal nutrimento allo svago, dalle armi al divertimento, viene ricavato dalla terra, e quindi lavorato, costruito, o tessuto dalle loro mani.16
danno la caccia agli uccelli della foresta, alle scimmie, al tapiro e al maiale selvatico: i loro archi sono costruiti con legno di guaiaco, canne, selce, e piume di pappagallo che si producono sempre da sé. Costruiscono le loro case e i loro templi con rami e foglie. Coltivano anche il cotone, con cui poi le donne grazie alla tessitura confezionano indumenti, ed anche il tabacco da cui ricavono, arrotolando le foglie secche, dei grossi sigari. Abbattono grossi tronchi di mogano da cui costruiscono le proprie piroghe scavandoli. Tutto quello che hanno, dal nutrimento allo svago, dalle armi al divertimento, viene ricavato dalla terra, e quindi lavorato, costruito, o tessuto dalle loro mani.16
I
Lacandoni ottengono la loro bevanda rituale facendo fermentare la
scorza di balche con il mais; ottengono i colori delle proprie vesti
solo da fibre vegetali o animali; usano delle piume multicolori per
decorare e ornare i capelli, utilizzano fibre che intrecciano per
costruirsi corde, reti e amache. Impiegano le zucche come recipienti
mentre dalle canne ottengono flauti che usano sia per svago sia nelle
cerimonie sacre.17
L’isolamento
dei Lacandoni si è affievolito solo negli ultimi 40 anni,
permettendo loro in tal modo di conservare la propria autonomia
culturale. Essi hanno adottato il machete
di acciaio, sciabola molto più adatta per aprirsi un varco nella
giungla della loro tradizionale ascia di pietra. Arrostiscono le
scimmie, per cibarsene, con tutto il pelo e la pelle. Queste vengono
cacciate con archi e frecce dentate, rigorosamente tenute lontane
dalle donne, poiché un semplice contatto basterebbe a toglierne
tutta l’efficacia.18
Prevalentemente
agricoltore, il Lacandone coltiva il mais, e integra la sua dieta con
la selvaggina e con la pesca. Rimasti politeisti, una loro divinità,
il dio della pioggia, prende il nome di Metsaboc.
Questo dio
ha un aspetto più temibile che benefico, e ciò perché le piogge,
essendo quasi quotidiane, possono essere letali per il loro raccolto.
Come scrivono Jacques e Georgette Soustelle
“il loro santuario non è altro che una caverna poco profonda che
si apre, quasi a livello di un lago, ai piedi di rocce coperti da
glifi rupestri, disegni misteriosi che evocano quelli tracciati,
sette o ottomila anni fa, nel cuore del Sahara, sulle muraglie dei
camminamenti di Tassili di Ajjer. I Lacandoni li considerano opera
della divinità. Nella grotta moltissimi turiboli, e masse di gomma
di coppale bruciate come incenso, oltre a crani umani, indubbiamente
quelli dei Caribi [altro nome dato ai Lacandoni], ai quali i parenti
hanno dato quest’ultima sepoltura”.1
Gli etnologi hanno potuto inoltre osservare la tecnica assolutamente arcaica di accensione del fuoco, mantenuto vivo giorno e notte nelle capanne affumicate. Il fuoco viene acceso facendo girare tra i palmi delle mani un organetto di legno duro, la cui punta entra nella cavità di un secondo pezzo di legno duro, tenuto fermo con i piedi; il riscaldamento dato dallo sfregamento accende lo stoppino di cotone sistemato vicino alla cavità. Prima però di potere accendere il fuoco bisogna rivolgersi al dio di questo elemento, K’ ak’.
Gli etnologi hanno potuto inoltre osservare la tecnica assolutamente arcaica di accensione del fuoco, mantenuto vivo giorno e notte nelle capanne affumicate. Il fuoco viene acceso facendo girare tra i palmi delle mani un organetto di legno duro, la cui punta entra nella cavità di un secondo pezzo di legno duro, tenuto fermo con i piedi; il riscaldamento dato dallo sfregamento accende lo stoppino di cotone sistemato vicino alla cavità. Prima però di potere accendere il fuoco bisogna rivolgersi al dio di questo elemento, K’ ak’.
Prima
della coltivazione, invece, va implorato il dio della foresta e poi
quello del sole, che prende il nome di K’in.
L’osservazione dei riti, delle cerimonie, delle feste e delle
credenze per i Lacandoni è di notevole importanza, poichè permette
la ricostruzione della religione dei Maya del primo millennio,
riguardo alla quale abbiamo tutt’ora molte lacune. Tale religione
sembra sia stata caratterizzata da un dualismo: i medesimi dèi
possono essere sia malevoli che benevoli, in quanto ognuno di loro
poteva manifestarsi sia favorevole che nefasto. Gli dèi abitavano il
cielo, la terra e le montagne sotterranee, infatti le grotte o gli
anfratti cavernosi hanno da sempre esercitato sui Maya un fascino
particolare. Jacques Soustelle ha constatato che in queste grotte vi
sono delle ceramiche antiche di più pregiata fattura di quelle di
oggi, circostanza che gli ha fatto pensare che un tempo la
popolazione dovesse essere molto più evoluta di quella di oggi.
Alcuni centri cerimoniali sono rimasti tutt’ora centri religiosi: è
il caso del centro di Yaxchilan, ove, ogni anno, i Lacandoni si
dirigono in processione carichi di turiboli e di resina di coppale
pom. Essi depongono le
loro offerte e i loro vasi rituali davanti agli architravi scolpiti,
ai piedi delle statue, sui gradini dei palazzi e dei templi
semidiroccati, bruciano l’incenso e cantano preghiere.
I
Lacandoni non fanno alcuna differenza tra le caverne del dio Metsaboc
e questi edifici che, per essi, infatti, rappresentano entrambi delle
costruzioni in pietra dal valore sacro. Prima di iniziare un
pellegrinaggio, i Lacandoni, o Caribi,
compiono un periodo di digiuno e di castità
della durata di quaranta giorni.
I
Lacandoni immaginano gli dèi simili agli uomini, che, quindi sono
poligami come i loro capi. Hanno un paradiso, dopo la loro morte,
fatto di belle foreste senza cespugli e giaguari, ricche di
selvaggina e con mais in grande quantità.
Il
mayanista Paul Arnold sostiene che dopo la morte
“le
anime degli adulti, contrariamente a quelli dei piccoli, non lasciano
subito la dimora. Restano vicine alla loro famiglia e continuano la
loro vita come se nulla fosse cambiato e senza quasi infastidire i
vivi. Questo può durare fino ad un limite massimo di 80 giorni. E
prendono coscienza del loro stato non prima del terzo giorno,
soprattutto quando la famiglia veglia e accende ceri per pregare con
loro. Una parte delle credenze miste maya-tolteche ha, inoltre
alterato la fede dei Lacandoni: il cuore spirituale ascende al cielo
dal dio principale, salvo i cattivi che rimangono a soffrire nel
Mitnal (o Metal), l’inferno dei Toltechi Aztechi20.”
Di
natura quieta, sobria e buona, il Lacandone di tanto in tanto
combatte conflitti brutali con gli altri clan o con gli altri uomini,
e capita che si rapiscono le donne, cosa questa che porta alla
violenza e talvolta all’omicidio.
Le
donne indossano delle lunghe tuniche e semplici collane di semi; gli
uomini, invece, portano una piuma che gli attraversa la parete
nasale, capelli lunghi e in disordine, e camminano a piedi nudi
fumando spesso un grosso sigaro.
Ogni
clan, (in tutto una decina), pensa di provenire e discendere da un
animale–patrono come la scimmia, il maiale selvatico, il giaguaro,
il fagiano, ecc. Un Lacandone sposa generalmente una donna del suo
stesso clan, ma, se non vi riesce, parte in spedizione per rubarne
una a qualche altro clan; cosa questa che provoca episodi molto
violenti, i quali, come abbiamo detto su, possono sfociare in
uccisioni per vendetta. Il Lacandone, quindi una volta poteva
sposare o una donna del proprio clan o rubarne una ad un altro clan,
era comunque impensabile sposare una donna tzeltal. Oggi ciò non
avviene più.
Le
indagini storiche indicano che, quando gli spagnoli arrivarono in
Messico, alcune popolazioni maya preferirono evitare il confronto e
si ritirarono nella foresta. Via via che i conquistadores
procedevano, i Lacandoni si ritirarono sempre più verso l’interno,
fin dove gli europei non osarono seguirli, perché spaventati dalla
malaria e soprattutto perché poco attratti da un popolo fuggiasco
che doveva possedere ben pochi tesori. Questa ricostruzione storica è
confermata in parte dal fatto che i Lacandoni di oggi conservano una
tradizione per molti aspetti simile a quella dei Maya del periodo
classico. I Lacandoni, per esempio, chiamano se stessi Halach
uinìk, “i veri uomini”: espressione
questa usata dalle caste sacerdotali di 1500 anni fa.21
Ruolo fondamentale nella spiritualità di questo popolo lo riveste lo
sciamanesimo e la divinazione, certamente di origine maya. Come i
loro antenati, i Lacandoni leggono il futuro nei sogni. Il destino
predetto può essere comunque modificato dagli uomini e per questo
motivo l’interpretazione dei sogni riveste un ruolo cruciale per il
popolo della foresta. Il sogno riveste un così importante ruolo per
la visione del futuro che i Lacandoni si augurano la buonanotte
dicendo “dormi bene” e poi “fai attenzione a quello che sogni”.
Al mattino gli studiosi sentono i Lacandoni
rivolgersi insistentemente la stessa domanda: “che sogno hai
fatto?”22.
Capire
il sogno è, però, un compito non facile. Infatti, ha osservato
l’etnologo Robert Bruce, studioso che ha vissuto per anni con
questo popolo, che per i Lacandoni i sogni sono una specie di bugia. In pratica, pre-dicono il futuro, ma non
dicono sempre la verità. Spesso, anzi, vanno interpre-tati al
contrario. Ad esempio, so-gnare molto mais può indicare che il
raccolto sarà scarso. Mentre sognare un ani-male piccolo può
significare che se ne incontrerà uno molto grande.
L’acqua
sta, invece, ad indicare che qualcuno morirà, perché essa
simboleggia le lacrime versate dai parenti. Infine, sognare
un’eclisse, predice, anch’esso, un lutto. Ciò perché per i
Lacandoni, come per i Maya, questa era finirà con l’oscuramento
del sole, e per estensione, sognare l’astro oscurato, significa
che presto un parente lascerà il mondo dei vivi.23
Le
somiglianze tra la tradizione dei Maya classici e la tradizione
lacandone sono evidenti nella religione e nei riti sacri. Con poche
differenze il mito cosmogonico delle origini è rimasto lo stesso:
Hunab Ku è il creatore del mondo, del sole e della pietra di giada,
da cui sono pio nati tutti gli dei. Itzamna ha poi reso ospitale la
terra ricoprendola di foreste e animali, e la moglie (Ixquel) ha
creato, con il suo aiuto, gli uomini e le donne da un impasto di
mais.24
Non si praticano più sacrifici umani, i quali sono stati sostituiti
da offerte di cibo o di animali. È rimasto però il rito di bruciare
incenso, il quale salendo in cielo si trasforma in tortilla di mais
per le divinità. È rimasto anche l’uso, durante le cerimonie, di
bere balché. Questa bevanda viene ottenuta dalla fermentazione di
una base di mais con zucchero e con corteccia. Il tutto viene
preparato all’interno di canoe usate solo per tale scopo. Molte
cerimonie si svolgono tutt’ora in alcuni antichi centri sacri maya.
Come gia detto, ogni anno si recano a Yaxchilan, dai Lacandoni
considerata la dimora terrena di Itzamna. Il dio della pioggia dei
Lacandoni è Metsaboc. Il suo nome significa “colui che fa la
polvere”. Essere quadruplice, come i Chaci dei Maya classici. Deve
il suo nome al fatto che, secondo il credo lacandone, esso sparge
sulle nuvole una polvere di colore scuro, facendo diventare le nuvole
nere e piene di pioggia. Il dio della pioggia è anche colui che
forma i tuoni e i fulmini.
Il
tempo e la storia hanno introdotto anche nuove divinità. Come
Akyanthò, un dio degli stranieri e del commercio con la pelle
bianca, indossante un cappello e armato di pistola. Fortemente
politeisti, sono stati vani i tentativi di cristianizzarli, anche se
oggi adorano una divinità dal nome HesuKlistos, il quale rimane però
una divinità minore.25I
Lacandoni di oggi mancano di uno sciamano. Figura di fondamentale
importanza in quanto ricopre per loro il ruolo di guida spirituale,
oltre che essere mezzo reale di congiunzione della terra con il cielo
e con l’infrarregno. L’ultimo sciamano è morto il 23 dicembre
del 1996 e ancora i Lacandoni non sono riusciti a sostituirlo.28
Chan K’in, l’ultimo sciamano lacandone, le cui
battaglie hanno fatto sì che il suo popolo potesse continuare a
vivere secondo le antiche tradizioni all’interno di una zona
protetta, negli ultimi anni della sua vita ripeteva che sapeva che il
giorno dello xu-tan,
il giorno ultimo, era ormai prossimo. In questo giorno le divinità
concluderanno questo ciclo del mondo e, secondo lo sciamano, la terra
diverrà secca, la luna diverrà rossa e i giaguari e i coccodrilli,
nella notte, mangeranno gli uomini e le donne. Lo sciamano affermava
che suo nonno gli aveva detto che questo giorno era ancora lontano,
mentre suo padre, gli aveva confidato, che non era ancora vicino. Ma
lo sciamano affermava che gli dei gli avevano detto che lo xu-tan
sta per arrivare. Questa visione apocalittica la spieghiamo con il
fatto che, come afferma Didier Boremanse, etnologo dell’Università
della Valle in Città del Messico, “per un popolo la cui mitologia
descrive la terra abitata dagli uomini come un luogo ricoperto dalla
foresta, la deforestazione equivale alla distruzione del mondo”.29
Circa l’origine dei Lacandoni, Eric Thompson ritiene, in un suo studio del 1938, che siano discendenti di emigrati della penisola dello Yucatan30; Soustelle non si trova d’accordo, e sfuma un poco questa affermazione, notando che si trovano tre tipi diversi di fisici in questo gruppo etnico residuo: un tipo dal lungo naso convesso e dagli zigomi alti, che ricorda quello che si osserva nei bassorilievi di Yaxchilan e negli affreschi di Bonapak, (due località che si trovano nel territorio dei Lacandoni); un secondo tipo dal naso piccolo e sottile e dalle labbra fini; e infine un terzo, dal viso piatto e con il naso molto schiacciato, che somiglia a dei prigionieri rappresentati nella stelle numero 40 di Pietras Negras. Non si è riusciti a stabilire se questi prigionieri siano dei Maya e se abbiano fatto progenie e discendenza in terra lacandone. J. Soustelle conclude quindi che i Lacandoni “sono essenzialmente discendenti della classe inferiore della
società maya civilizzata, ma che altri elementi indigeni sono venuti nel corso dei secoli a sovrapporsi ed a mescolarsi a quell’antico substrato”. 31
Ogni uomo ha un proprio animale guida. I Lacandoni di oggi vestono molto più semplicemente dei Maya classici e non usano più acconciarsi i capelli.26 Il “mondo civile” minaccia sempre più fortemente questo popolo. I contadini messicani infatti invadono il loro territorio che sfruttano con un’agricoltura intensiva. Impoverendo, conseguentemente, il loro suolo. Minacciati prima dagli spagnoli in cerca di oro, oggi invece sono minacciate dalle compagnie di legname che hanno strappato e distrutto ettari ed ettari di foresta per ottenere il pregiato legno di mogano. Infine le compagnie petrolifere hanno iniziato a cercare l’oro nero nelle loro foreste. Ciò ha comportato la perdita, nell’ultimo mezzo secolo, dell’80-90% della foresta lacandone.27Lo studioso Jeremi Marret pensa che i Lacandoni siano antenati di servi della gleba che lavoravano per padroni che fecero costruire Bonampak nel 700 d.c.32
Circa l’origine dei Lacandoni, Eric Thompson ritiene, in un suo studio del 1938, che siano discendenti di emigrati della penisola dello Yucatan30; Soustelle non si trova d’accordo, e sfuma un poco questa affermazione, notando che si trovano tre tipi diversi di fisici in questo gruppo etnico residuo: un tipo dal lungo naso convesso e dagli zigomi alti, che ricorda quello che si osserva nei bassorilievi di Yaxchilan e negli affreschi di Bonapak, (due località che si trovano nel territorio dei Lacandoni); un secondo tipo dal naso piccolo e sottile e dalle labbra fini; e infine un terzo, dal viso piatto e con il naso molto schiacciato, che somiglia a dei prigionieri rappresentati nella stelle numero 40 di Pietras Negras. Non si è riusciti a stabilire se questi prigionieri siano dei Maya e se abbiano fatto progenie e discendenza in terra lacandone. J. Soustelle conclude quindi che i Lacandoni “sono essenzialmente discendenti della classe inferiore della
società maya civilizzata, ma che altri elementi indigeni sono venuti nel corso dei secoli a sovrapporsi ed a mescolarsi a quell’antico substrato”. 31
Ogni uomo ha un proprio animale guida. I Lacandoni di oggi vestono molto più semplicemente dei Maya classici e non usano più acconciarsi i capelli.26 Il “mondo civile” minaccia sempre più fortemente questo popolo. I contadini messicani infatti invadono il loro territorio che sfruttano con un’agricoltura intensiva. Impoverendo, conseguentemente, il loro suolo. Minacciati prima dagli spagnoli in cerca di oro, oggi invece sono minacciate dalle compagnie di legname che hanno strappato e distrutto ettari ed ettari di foresta per ottenere il pregiato legno di mogano. Infine le compagnie petrolifere hanno iniziato a cercare l’oro nero nelle loro foreste. Ciò ha comportato la perdita, nell’ultimo mezzo secolo, dell’80-90% della foresta lacandone.27Lo studioso Jeremi Marret pensa che i Lacandoni siano antenati di servi della gleba che lavoravano per padroni che fecero costruire Bonampak nel 700 d.c.32
Herbert
Wilhelmy, nel suo Welt und Umvelt der Maya
afferma che
“non
è ancora del tutto chiaro il ceppo di appartenenza dei Lacandoni. Li
si annovera tra i Maya Chol[…],
presumibilmente sono originari del Campeche e dello Yucatan, e si
sono stabiliti nella foresta pluviale del sud un momento non definito
(all’inizio della conquista?)”.33
Essi
comunque, come già detto, parlano tutti la lingua maya in uso nello
Yucatan.
2
Ibidem, pagg. 292-294.
3
Ibidem, passim.
4
Michael D. Coe, op. cit, pag.155
7
Ibidem, pag. 245.
8
Ibidem, pag. 7.
9
In tale conflitto perse la vita il Leader spirituale Regina, la
quale, designata alla sapienza antica, venne educata in Tibet con la
missione di risvegliare il “paese delle aquile“ (Messico), la
grande Tenochtitlan.
10
“Hera, Civiltà scomparse, Misteri archeologici”, Hera Edizioni,
mensile n. 57, Anno V, Roma Ottobrfe 2004, Articolo di Massimo
Nardi, Il risveglio dei maya e la profezia del 2012., pag.
84.
11
Ibidem.
12
Ibidem.
13
Magda Wimmer, I Maya, Tessitori del tempo,
giocolieri dell’universo, Newton e Compton
Editori, Roma, Dicembre 2003. Titolo originale: Die
Maya. Il suo libro è un viaggio alla
riscoperta della sapienza, in parte perduta, dei Maya. Una
testimonianza della ricchezza culturale di questo popolo anche se
trattato in maniera un po’ idealizzato. Il fatto che anche questa
mayanista, che spiega passo passo il significato recondito di ogni
simbolo maya, accetti la data del 2012 come segnante il passaggio
tra il vecchio è il nuovo ciclo, è indicativo del fatto che
Thompson e praticamente tutti gli altri studiosi non hanno avanzato
una teoria errata.
14
Cfr. pag. 20, Adrian Gilbert - Maurice M. Cotterell, Le profezie
dei Maya, Corbaccio, Milano, Giugno 2000. 1.a. ed. Mandala.
Titolo originale: The Maya Prophecies. Il generale clima di
soverchiamente verso gli indios ha comportato nel 1994 un’altra
rivolta scoppiata nello stato del Chiapas. La città di Cristobal de
las Casas è stata occupata dai guerrieri “zapatisti”, così
chiamati in onore del loro eroe messicano Emiliano Zapatero, uomo
che si è contraddistinto per le sue lotte per la libertà. Vi sono
state molte vittime e l’insurrezione è stata repressa con molte
difficoltà. La popolazione che ha scatenato la rivolta era composta
da maya cholan, un tempo appartenenti ad una delle più raffinate
civiltà pre-colombiane.
15
Paul Gendrop, op.cit., pag. 27
16
Cfr. Guy Annequin, op. cit., pagg. 119-130.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
Ibidem, pag. 124.
21
“Focus Storia”, Numero Speciale n. 2, Mondadori, Milano 2005,
Articolo di Margherita Fronte, I Maya siamo noi, cit.,
pagg. 87-88.
24
Ibidem, pag 89.
25
Ibidem.
26
Ibidem, pag. 90.
27
Ibidem, pag. 91.
28
Ibidem.
29
Ibidem.
32
I Popoli della Terra, Messico e America centrale, cit.,
pagg. 85-89.
33
Herbert Wilhelmi, op. cit., pagg. 605-606.
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