Offerte agli dei
Oltre alle testimonianze del monaco De Landa, i conquistadores hanno lasciato una serie di scritti che ci informano del rituale e della loro forte presenza in territorio mesoamericano.
Bernal Diaz del Castillo registra tra le pagine del suo diario che
“in una piccola isola trovammo due edifici accuratamente costruiti, con scalinate che conducevano in una specie di oratorio dove si adoravano degli idoli malefici, probabilmente i loro dèi. Là vedemmo cinque indios sacrificati il giorno precedente. Avevano il petto squarciato e le braccia e le gambe spezzate; i muri erano imbrattati di sangue appiccicoso. Incredibilmente stupiti da quello spettacolo, chiamammo quell’isola Isola dei Sacrifici. ”
Cortès, in un resoconto indirizzato a Carlo V, afferma che i Maya
“ogni giorno, prima di cominciare a lavorare, bruciano l’incenso nelle moschee, qualche volta sacrificano perfino se stessi tagliandosi chi la lingua, chi le orecchie, chi tagliuzzandosi il corpo con il coltello. Il sangue che cola dalle ferite lo offrono agli idoli, spargendolo sulle loro maschere, o gettandolo verso il cielo, e facendo ogni sorta di cerimonie; alcune di queste non possono cominciare se prima non sono stati fatti quei sacrifici. Del resto, essi hanno un’altra usanza, orribile e abominevole e degna di essere punita: ogni volta che vogliono chiedere qualcosa ai loro idoli, essi prendono delle bambine e dei bambini piccoli, ma talvolta anche delle donne e degli uomini adulti e, davanti a quegli idoli, aprono loro il petto per estrarne il cuore e le viscere che poi bruciano offrendo in fumo in sacrificio. Qualcuno di noi ha assistito a questa cosa, che è la più terribile e la più spaventosa che ci sia mai capitato di vedere ”.
Anche la fabbricazione di idoli di legno era un compito che aveva bisogno di sacrifici, visto che il potere malevolo degli dèi poteva essere funesto quando essi non erano ben disposti. Diego De Landa ci ha conservato il ricordo di come venissero costruite le statuine sacre. Egli scrive che gli scultori, con il corpo spalmato di fuliggine, accompagnati dai sacerdoti e dai Chaci, venivano isolati in una capanna lontana, protetta dagli sguardi per mezzo di un’alta palizzata, il tutto costruito specificatamente per quella circostanza. Dato che si imponeva la purezza dei celebranti, il digiuno e la continenza erano di rigore durante tutta la fabbricazione. Tra spesse fumigazioni di coppale, l’artista operava con precauzione, spalmando continuamente e regolarmente il suo idolo in corso di realizzazione con il sangue che raccoglieva da ferite autoprodotte al naso, alle guance, ai lobi delle orecchie e in tutte le parti del corpo. Quando si riposava, aveva cura di chiudere quegli idoli in uno scrigno, per neutralizzare i loro effetti magici, in attesa del risveglio. Una volta finiti, gli idoli venivano allineati su un altare, purificati e consacrati. Sempre nella sua Relazione sulle cose dello Yucatan, Diego De Landa racconta un altro tipo di sacrificio, questa volta con le frecce. La vittima veniva legata nuda, dipinta di blu, posta tra due pali con le braccia in croce, un’acconciatura conica sulla testa.
Poco prima, aveva dovuto partecipare ad una danza sacra, in mezzo ad uomini mascherati e armati di archi e lance. Poi il sacerdote, vestito con abiti da cerimonia, si avvicinava alla vittima e lo colpiva con un lancio di freccia al sesso, sia che si trattasse di un uomo che di una donna; infine, raccoglieva il sangue della ferita, con cui andava subito ad ungere l’idolo festeggiato in quella circostanza. In seguito, i danzatori facevano un cerchio intorno alla vittima scoccando ciascuno verso di essa una freccia nella regione del cuore, che era stata precedentemente evidenziata con un cerchio bianco sul petto.
Sempre De Landa ci narra un tipo di autosacrificio che aveva luogo nei templi:
“ in certe occasioni poi compivano un osceno e dolorosissimo sacrificio consistente nel fatto che, quelli che lo facevano, si denudavano in un tempio, ivi, tutti in fila, si trafiggevano il pene lateralmente e poi passavano attraverso i fori la più grande quantità di filo che potevano, rimanendo così tutti attaccati l’uno con l’altro.
Imbrattavano col sangue ricavato da questi sacrifici l’immagine dell’idolo e colui che ne spargeva di più era considerato più valoroso; i suoi figli poi cominciavano a dedicarsi a questo genere di sacrifici fin da piccoli ed era spaventoso vedere con quale frequenza li praticassero.”
L’autosacrificio era un mezzo primario per progredire nel sentiero spirituale. Spesso il Maya, dopo essersi punto in più parti, oltre al sangue offriva un occhio smembrato di rana; ciò al fine di simboleggiare il sacrificio della visione esterna, così da ottenere la visione interiore, capace di penetrare la realtà celata dalle forme esteriori. L’autosacrificio avveniva tagliuzzando con un pugnale di selce o con una corda irta di spine varie parti del proprio corpo come la lingua, i lobi delle orecchie, il pene, le mani, le braccia, le gambe, i piedi, ma anche scarnificando il proprio volto, fino a giungere al totale smembramento delle guance. Questo rituale veniva officiato soprattutto dai guerrieri, noi riteniamo probabilmente per rendere il viso simile ad uno scheletro che, come sappiamo, rappresentava il dio della morte. Le vittime, spesso, dopo essergli stato strappato il cuore venivano gettate e fatte rotolare dagli scalini della piramide ove alla base li aspettava un tappeto di pietre aguzze. Quindi venivano scorticate e le parti del loro corpo mangiate tra i sacerdoti. La loro pelle, infine, era utilizzata indossandola per una danza tribale.
Le donne si pungevano soprattutto la lingua: a volte il loro rito poteva comportare la visione del serpente piumato archetipale, dalle cui fauci usciva il viso di un antenato. Il sangue possedeva per i primitivi un forte valore mistico e le tradizioni folcloristiche ad esso legato affondano così profondamente nella coscienza umana da essere filtrate in quasi tutte le religioni del mondo.
I ritrovamenti archeologici hanno provato che venivano sovente uccisi uomini e donne, bambini e bambine al solo scopo di seppellirli sotto il pavimento di tombe di persone importanti. Questo fenomeno ci induce a pensare che in tale occasioni i sacrificati avevano il compito di servire il nobile nell’altra vita.
Ricordiamo infine che l’autosalasso era un obbligo per tutta la classe nobile maya. Il tributo del sangue era loro chiesto da tutto il popolo per il mantenimento del cosmo. Gli aristocratici garantivano, versando il proprio sangue, l’ordine della creazione. In cambio ricevevano i massimi servigi dalle restanti classi sociali.
Il sacrificato era spesso un valoroso, un nobile, ma anche un popolano. Mai un uomo che si fosse macchiato di una colpa grave come l’omicidio; perché si credeva che le divinità, preferendo di gran lunga la linfa energetica di anime pure e vergini, rifiutassero tale offerta. 10
Infine, alcuni sacrifici avvenivano all’interno delle mura dei templi, sulla sommità delle piramidi, e il popolo non poteva assistervi. Le cerimonie che, in questo caso, avvenivano al buio e nel massimo silenzio, dovevano instaurare un colloquio più forte con i signori dell’ultraterreno.
Cerimonia ai Chaci
Una delle cerimonie di maggiore importanza per i Maya era quella officiata in onore delle divinità dei Chaci, esseri che ebbero così tanta presa nell’animo del “popolo di mais” da essere a tutt’ora adorati accanto al Cristo, ai santi e alla Madonna.
La cerimonia era preceduta da un periodo di digiuno e continenza. Di regola il digiuno durava tredici giorni (la durata della settimana per i maya), ma spesso lo si prolungava anche per tre/quatro o addirittura cinque mesi (di venti giorni). Un lungo periodo di preparazione spirituale, che comportava il ritiro degli uomini in una casa comune ove, oltre a digiunare, si offriva agli dei del sangue estratto dal proprio corpo e ci si asteneva dal lavarsi. Le fonti azteche informano che tutto questo periodo era caratterizzato da una condizione di vita rigorosamente disagiata. Ogni mattina mogli e madri portavano ai reclusi l’acqua e la razione di cibo: generalmente una tortilla di mais al giorno senza sale, perché era bandito nei periodi di astinenza. Gli uomini non potevano avere nessun genere di contatto con le donne ed erano tassativamente proibiti i rapporti sessuali. Durante la cerimonia le piazze delle città si riempivano e le persone di alto rango giungevano trasportati da schiavi in portantina. Questa festa in onore ai dèi della pioggia viene ancora oggi praticata nel Belize, con la variante che, al posto dei bambini vengono sacrificati degli uccelli, spesso dei tacchini.
Nel periodo classico e pre-ispanico si immolavano fanciulli o fanciulle, vittime preferite rispetto agli adulti perché considerati dall’animo puro e vergine. Teoricamente, anche gli animali sgozzati dai maya attuali sono vergini.
Dopo il periodo di digiuno, lo sciamano all’alba offriva ai Chaci tredici zucche lunghe e due zucche basse di balche e, intonato un canto da quattro fedeli, personificazioni delle quattro divinità, si distribuiva del balche, che ciascuno doveva bere per purificarsi. Portati alcuni bambini, i quattro sacerdoti li tenevano, a turno, per le braccia e per le gambe. Nel frattempo, lo sciamano faceva cadere nove gocce di balche nella bocca dei fanciulli. Finita tutta questa preparazione, i piccoli venivano uccisi. L’immolazione avveniva squartando il torace della vittima per mezzo di un coltello di ossidiana. La ferita veniva operata nella parte sinistra del torace, a livello delle costole. Il cuore veniva strappato da un gruppo di sacerdoti detti nacom. Quattro ragazzi, che rappresentavano le rane, venivano legati per la gamba destra ai quattro angoli dell’altare, e imitavano il gracidare di questi piccoli animali al fine di annunciare le propiziate piogge. Un anziano scelto per personificare il dio della pioggia dell’est veniva trasportato con ogni tipo di reverenza verso l’altare e gli venivano dati un coltello di legno e una zucca. Ciò perché i Chaci portavano in zucche l’acqua con cui spruzzavano il mondo. Il coltello di legno simboleggiava lo strumento con cui questi esseri producevano il baleno. L’anziano imitava con la voce il tuono e brandiva il coltello di legno. Nel frattempo i sacerdoti danzavano per nove volte attorno all’altare recante i bambini sacrificati. Finita la cerimonia, i partecipanti si ritiravano per permettere ai gli dei di banchettare senza essere disturbati. Passato il tempo che si giudicava sufficiente al loro pasto, lo sciamano ritornava e versava del balche sul capo del vecchio che aveva rappresentato il capo dei Chaci. I cadaveri dei bambini venivano divisi tra i personaggi importanti che avevano preso parte al rito; testa, mani e piedi, parti del corpo ritenute di maggiore importanza, venivano mangiate dai sacerdoti e dagli aiutanti. Il pasto cannibalico aveva luogo poiché le vittime rappresentavano le divinità, conseguentemente nutrirsi della carne dei sacrificati significava assimilare alcune qualità del dio. Le vittime venivano sempre drogate e alcolizzate, in modo da stordirle, sia per limitare così il loro dolore sia per far loro accettare più facilmente la morte mantenendo un comportamento dignitoso, tale da non offendere gli dèi. Lo sciamano faceva invece uso di un fungo, che prende il nome di psilocybe, che gli apriva il mondo delle visioni e le porte dell’ultraterreno. Il culto del fungo (chiamato tra i maya la carne di dio), è fatto risalire all’arrivo dei nomadi paleosiberiani che giunsero dallo stretto di Bering fino all’America latina. Il fungo purificava l’animo e permetteva l’incontro con gli esseri ultraterreni.
I sacerdoti avevano l’obbligo di non tagliare mai i capelli che, sporchi di sangue per l’elevazione dei cuori in cielo, non dovevano mai essere lavati. Agli dèi si offrivano in sacrificio anche animali, carne cotta con spezie, incenso di copale, gomma, fiori, e oggetti preziosi come giada, perle fatte con conchiglie e penne di quetzal. Scrive il monaco De Landa:
“imbrattavano continuamente la faccia ai loro demoni con il sangue di ogni specie di creature, uccelli del cielo, bestie della terra, pesci del mare. E di altre cose che possedevano usavano farne offerta. Ad alcuni animali estraevano il cuore per offrirlo, altri li offrivano interi. Li offrivano morti, crudi o cotti. Facevano anche larghe offerte di pane e di vino, di cibi a base di granoturco, di balche, di ogni cosa commestibile e di ogni bevanda .”
La cerimonia del Fuoco Nuovo
I Maya, ogni 52 anni, credevano che il mondo rischiasse di annichilirsi e di ritornare al caos. La celebrazione del rituale del Fuoco Nuovo aveva pertanto lo scopo di legare gli anni, ossia di scongiurare la fine del cosmo e permetter al tempo il suo normale fluire. I partecipanti dovevano trascorrere un periodo preparatorio di purificazione fisica e spirituale, durante il quale l’autosalasso e l’astinenza al cibo ricoprivano un ruolo di primaria importanza.
Gli inservienti spargevano sulle terrazze dei templi dei tizzoni ardenti in modo da formare un tappeto di fuoco. I quattro sacerdoti, che avrebbero dovuto camminare sul fuoco, recitavano delle preghiere che accompagnavano con offerta di copale e balche agli dei.
Successivamente, venivano vestiti di rosso, di bianco, di nero e di giallo. Il primo ricopriva un ruolo di maggiore importanza, in quanto rappresentava il dio della pioggia dell’est, direzione ove ogni mattina sorgeva il sole. Indossava inoltre un copricapo rappresentante la maschera nasuta del dio Chac, sulla quale sommità si aveva una grande massa di penne di quetzal, piume verdi per rappresentare il granoturco ancora in erba, e foglie nuove di cui gli alberi si sarebbero ricoperti al ritorno delle piogge. Dietro al primo sacerdote si avevano gli altri tre, tutti con il medesimo copricapo ma vestiti dei colori già detti, al fine di personificare i Chaci dei rimanenti punti cardinali. Ciascuno reggeva con la mano destra un’ascia, alla cui estremità era rappresentata la testa del serpente. Nella sinistra impugnavano un bastone simboleggiante il baleno, mentre su una spalla portavano una zucca contenente acqua, teoricamente incontaminata, con cui gli dei spruzzavano la terra. Dopo avere fatto le offerte agli esseri supremi i quattro sacerdoti, l’uno dopo l’altro, attraversavano il tappeto di fuoco.
Finita questa fase si recavano al tempio del pianeta Venere, e, dopo avere pregato la divinità, si portavano sulla gradinata le vittime sacrificali. Queste, precedentemente drogate, venivano collocate sulla pietra sacrificale e tenuti dai quattro nacom per i piedi e per le mani. Il nacom aveva il compito di compiere il sacrificio, che avveniva grazie ad un lungo coltello di selce, chiamato dai Maya la mano di dio. Dopo aver inciso il petto, il sacerdote introduceva una mano nella ferita al di sotto dello sterno e recideva il muscolo cardiaco, per estrarlo e presentarlo al suo dio. Il cuore veniva deposto in un recipiente, all’interno del quale gli esseri supremi discendevano per bere il sangue. Il chilam e i nacom, con i recipienti in mano, scendevano dal tempio e si trafiggevano lingua, orecchie, pene, braccia, gambe e polpacci; inoltre imbrattavano delle cortecce, che bruciate divenivano cibo per le divinità. I cuori venivano invece strofinati sulle stele. Dopo aver fatto delle buche alla base di queste venivano fatti cadere e ricoperti di terra. Spesso, però, il cuore veniva tagliato a metà: una parte veniva inserita nella bocca della statua indicante il dio del sole, mentre l’altra veniva mangiata dal chilam. Finita la cerimonia il popolo aspettava di vedere comparire la stella di Venere, l’astro che secondo il Popol Vuh aveva partorito il Sole. Se tutto andava per il verso giusto, si accendeva un fuoco sul petto di ogni vittima. Sotto la piramide, invece, se ne accendevano altri, sui quali venivano gettate cortecce impregnate di sangue, recipienti pieni di balche ed animali uccisi.
Il sacro gioco della pelota
Il gioco della pelota ebbe origine presso gli Olmechi, è stato infatti appurato che questa popolazione giocava già ben prima di altre con una pelota di caucciù a El Manati, nel Veracruz, sulla costa del Golfo del Messico. Si calcola che i primi campi da gioco cominciarono ad apparire nel periodo pre-classico medio, e che da allora in poi iniziò a configurarsi un sistema simbolico che si venne arricchendo con il passare dei secoli. Il rituale era diffuso in tutta l’area mesoamericana, e sembra che le regole fossero di poco diverse da regione a regione. I Maya avevano smesso di giocarlo già al tempo di De Landa, sicchè delle partite di questo popolo non ci rimangono descrizioni particolareggiate: vi si accenna infatti solo nel Popol Vuh. Conseguentemente il rituale è meglio conosciuto grazie alle fonti azteche.
La più antica piazza per il gioco della pelota a noi conosciuta venne costruita nel 1000 a.c. circa a La Venta, nel territorio degli Olmechi. Il rituale del gioco è una vera e propria “ri-creazione”, cioè una rinnovata creazione, in quanto rimette in moto sia il tempo che lo spazio dei tempi primordiali. I campi da gioco si trovano nelle città sacre accanto alle piramidi e ai templi. Nell’area maya se ne contano circa quaranta, di cui una dozzina solo a Chichen Itzà. Erano costruzioni rettangolari a forma di H allungata, circondate da mura e con due anelli di pietra conficcati perpendicolarmente a entrambe le due pareti avversarie, ad una altezza che va da un minimo di due metri ad un massimo di cinque metri. I due anelli fungevano da porta attraverso i quali doveva passare il pallone. Venivano chiamati campi da gioco degli dei in quanto la partita era una vera cerimonia in cui gli dèi si affrontavano vicendevolmente.
La pelota era una grossa palla di caucciù del peso di circa 2-3 chilogrammi: massiccia, quindi, ma anche molto elastica, che doveva essere colpita con la giuntura della coscia, del braccio o del gomito. Chiunque la toccava con la mano o col piede, o con qualunque altra parte del corpo perdeva un punto. Il Popol Vuh, però, a differenza degli Aztechi, proibisce l’uso delle braccia. Le cadute della palla per terra, piuttosto frequenti, potevano essere anche mortali, tale era la violenza del gioco. Il giocatore che fosse riuscito a fare passare la palla attraverso l’anello poteva disporre dei vestiti degli spettatori che, eventual-mente, venivano colpiti da essa.
Le testimonianze sono contraddittorie circa la sorte dei giocatori vinti: infatti, alcune fonti affermano che il capitano della squadra vincitrice veniva decapitato al termine della partita, poiché la sua bravura gli dava il privilegio di accedere al mondo cosmico; altre fonti - la maggior parte in verità - al contrario, raccontano che veniva decapitato il capitano della squadra sconfitta. I giocatori, il cui numero sul campo variava da regione a regione, con un minimo di due per squadra ad una massimo di sette, indossavano una spessa cintura ai fianchi con la quale si colpiva la palla, un perizoma e un ginocchiere come protezione. Una delle testimonianze artistiche più ossessionanti e severe che si riferiscono al gioco maya è una statuetta proveniente dal Petèn. Questa figura, da Martin Brennan chiamata l’arbitro, non partecipa attivamente al gioco. Davanti a lui c’è una pietra piatta, strumento, questo, usato per il compito essenziale di tenere la palla sospesa in aria. Di fatto il gioco inizia e si conclude proprio qui, in quanto la palla non deve mai, in nessun caso, venire a contatto con il terreno. La gestualità delle mani della statua è di grande importanza: la mano destra chiusa è la mano della morte, la sinistra, aperta, è la mano della vita. La prima sta a significare, pertanto, il sacrificio dei perdenti; la seconda la vita dei vincitori. Il gioco, legato ad un antico mito tramandato dal Popol Vuh, racconta la lotta tra le divinità terrestri e solari e i demoni dell’inframondo; la pelota, oggetto sacro, rappresenta anche il sole e i pianeti in movimento.
Il rituale aveva una connessione astronomica ben precisa ed era associato al culto del sole, che doveva rinascere ogni giorno abbandonando il mondo delle tenebre: il campo da gioco rappresentava la terra, mentre la palla simboleggia l’astro, per cui il giocatore che lasciava cadere la pelota, senza prima averla infilata nel canestro, doveva essere sacrificato, poiché aveva impedito al sole di rinascere. Nel gioco della pelota di Chichèn Itzà si fronteggiavano due squadre di sette giocatori ciascuna. Sui limiti nord e sud del campo vennero costruiti due edifici sacri dedicati al sole e alla luna. Il senso profondo del gioco sta, dunque, nel suo senso mistico: rimettere in moto il sole, sempre in pericolo di cadere nell’inerzia, rinnovando ritualmente il gesto del serpente piumato archetipale, Tepeu-Gugumatz, che crea il cosmo e mette in moto il tempo, lo spazio e le stelle. Gli anelli di pietra recavano frequentemente l’immagine del sole e della luna o simboli celesti sui due lati. Il gioco simboleggiava nei due schieramenti due forze contendenti: le virtù contro i vizi. Le forze delle tenebre venivano fatte trionfare nell’equinozio d’autunno, e perdere definitivamente nell’equinozio di primavera, associato universalmente alla resurrezione, alla rinascita della luce e del dio solare nell’uomo. La sconfitta della tenebra comportava l’assimilazione delle sue energie attraverso il taglio della testa dei sette atleti che la rappresentavano. L’uccisione dei perdenti era un potentissimo simbolo della vittoria della vita, quella eterna, vincolata all’eterno ciclo delle reincarnazioni. Il rito si connette anche alla mitologia del Popol Vuh, talchè la testa di Hunaphù diviene metafora della pelota. La testa rappresenta il cielo, è l’espressione della divinità che domina la materia, cioè il corpo. E il gioco ha proprio tale funzione di dominio materiale del cosmo e di sua perpetuazione.Ai giocatori venivano allacciate delle corde, dal significato simbolico, ai bicipidi, agli avambracci, alle mani e ai polpacci.
La testa di Hunaphù, nel racconto del Popol Vuh, viene collocata sull’albero e feconda con la sua saliva la vergine degli inferi. Entrambi sono i progenitori della coppia divina Xbalanquè e Hunaphù, cioè i fratelli che, giocando alla pelota, sconfiggono la morte. La corda, nel libro sacro, sostiene la testa di Xbalanquè sopra il campo da gioco, dopo che questa gli fu tagliata dagli dei degli inferi. Questo simbolo allude probabilmente alla continuità della successione sacerdotale e della conservazione della conoscenza sacra, che permette il rinnovamento del mondo attraverso il gioco della pelota.
Gerard Van Russel analizza la coincidenza tra le parole “sangue” e “caucciù” nella lingua maya, cioè K’ik, e tra “sangue” e “caucciù” e “seme”, cioè K’ik’el. Da ciò afferma che il gioco della pelota è un’allegoria della vita. Mediante il gioco, quindi, si consumava l’offerta di sangue e di morte, in quanto la morte per sacrificio, perpetuava la vita. Come accade con il sole, che a ogni alba vince sulla notte, l’offerta di sangue del giocatore sacrificato permetteva alle piante di potere germogliare di nuovo e assicurava il sostentamento del popolo. Così il gioco si rapporta all’universo tramite l’immolazione, la decapitazione e la mutilazione, aspetti rappresentati nei rilievi di El Tajin, Chichen Itzà, Izap, tra gli altri luoghi. Nelle miniature dei codici preispanici, infine, i giocatori sacrificati sono associati alla fertilità, alla pioggia, alla vegetazione con la vittoria del sole sulle tenebre.
Anche il gioco della pelota, pertanto, riunisce in sé i due contrari della vita (morte e vita; morte e rinascita), al fine di rivitalizzazione il cosmo. Per tale motivo, le iconografie che accompagnano le rappresentazioni del gioco e gli oggetti in relazione con la pratica mostrano tutti quegli animali e piante dalla vita duale come i coccodrilli, le tartarughe, le rane, i serpenti, i giaguari e le ninfee. La rana, come il serpente e la farfalla, diviene simbolo della trasformazione e dell’innalzamento ad uno stadio superiore per la capacità della sua pelle anfibia di cambiare colore.
La cerimonia, pertanto, si inseriva nel tempo sacro, e ritualmente lo ri-creava. La vita combatteva per vincere il male, il sole (la palla) doveva entrare nel canestro, simbolo della sua ricomparsa ad est, e mai fermarsi o cadere. Il giocatore, il campo, i canestri divenivano simboli degli astri che, con il loro movimento, portavano avanti il tempo, lo spazio e la creazione. Ad ogni partita venivano sacrificati i vinti sia per ricordare che il sole ogni giorno nel suo viaggio notturno combatteva e sconfiggeva gli dei inferi, sia per ridare le forze energetiche alle divinità astronomiche. La partita, che per i Maya, portava e ri-creava in campo la perenne lotta tra le forze ordinatrici e le forze distruttive, nasceva dalla forte paura mesoamericana che la creazione potesse in ogni momento ritornare al caos. L’uomo, con il suo sacro gioco, non doveva fare altro che scongiurare questo pericolo, sconfiggendo ritualmente le tenebre e sacrificando i perdenti per impossessarsi delle energie del male e fornirle alle divinità benevoli.
Nel periodo classico e pre-ispanico si immolavano fanciulli o fanciulle, vittime preferite rispetto agli adulti perché considerati dall’animo puro e vergine. Teoricamente, anche gli animali sgozzati dai maya attuali sono vergini.
Dopo il periodo di digiuno, lo sciamano all’alba offriva ai Chaci tredici zucche lunghe e due zucche basse di balche e, intonato un canto da quattro fedeli, personificazioni delle quattro divinità, si distribuiva del balche, che ciascuno doveva bere per purificarsi. Portati alcuni bambini, i quattro sacerdoti li tenevano, a turno, per le braccia e per le gambe. Nel frattempo, lo sciamano faceva cadere nove gocce di balche nella bocca dei fanciulli. Finita tutta questa preparazione, i piccoli venivano uccisi. L’immolazione avveniva squartando il torace della vittima per mezzo di un coltello di ossidiana. La ferita veniva operata nella parte sinistra del torace, a livello delle costole. Il cuore veniva strappato da un gruppo di sacerdoti detti nacom. Quattro ragazzi, che rappresentavano le rane, venivano legati per la gamba destra ai quattro angoli dell’altare, e imitavano il gracidare di questi piccoli animali al fine di annunciare le propiziate piogge. Un anziano scelto per personificare il dio della pioggia dell’est veniva trasportato con ogni tipo di reverenza verso l’altare e gli venivano dati un coltello di legno e una zucca. Ciò perché i Chaci portavano in zucche l’acqua con cui spruzzavano il mondo. Il coltello di legno simboleggiava lo strumento con cui questi esseri producevano il baleno. L’anziano imitava con la voce il tuono e brandiva il coltello di legno. Nel frattempo i sacerdoti danzavano per nove volte attorno all’altare recante i bambini sacrificati. Finita la cerimonia, i partecipanti si ritiravano per permettere ai gli dei di banchettare senza essere disturbati. Passato il tempo che si giudicava sufficiente al loro pasto, lo sciamano ritornava e versava del balche sul capo del vecchio che aveva rappresentato il capo dei Chaci. I cadaveri dei bambini venivano divisi tra i personaggi importanti che avevano preso parte al rito; testa, mani e piedi, parti del corpo ritenute di maggiore importanza, venivano mangiate dai sacerdoti e dagli aiutanti. Il pasto cannibalico aveva luogo poiché le vittime rappresentavano le divinità, conseguentemente nutrirsi della carne dei sacrificati significava assimilare alcune qualità del dio. Le vittime venivano sempre drogate e alcolizzate, in modo da stordirle, sia per limitare così il loro dolore sia per far loro accettare più facilmente la morte mantenendo un comportamento dignitoso, tale da non offendere gli dèi. Lo sciamano faceva invece uso di un fungo, che prende il nome di psilocybe, che gli apriva il mondo delle visioni e le porte dell’ultraterreno. Il culto del fungo (chiamato tra i maya la carne di dio), è fatto risalire all’arrivo dei nomadi paleosiberiani che giunsero dallo stretto di Bering fino all’America latina. Il fungo purificava l’animo e permetteva l’incontro con gli esseri ultraterreni.
I sacerdoti avevano l’obbligo di non tagliare mai i capelli che, sporchi di sangue per l’elevazione dei cuori in cielo, non dovevano mai essere lavati. Agli dèi si offrivano in sacrificio anche animali, carne cotta con spezie, incenso di copale, gomma, fiori, e oggetti preziosi come giada, perle fatte con conchiglie e penne di quetzal. Scrive il monaco De Landa:
“imbrattavano continuamente la faccia ai loro demoni con il sangue di ogni specie di creature, uccelli del cielo, bestie della terra, pesci del mare. E di altre cose che possedevano usavano farne offerta. Ad alcuni animali estraevano il cuore per offrirlo, altri li offrivano interi. Li offrivano morti, crudi o cotti. Facevano anche larghe offerte di pane e di vino, di cibi a base di granoturco, di balche, di ogni cosa commestibile e di ogni bevanda .”
La cerimonia del Fuoco Nuovo
I Maya, ogni 52 anni, credevano che il mondo rischiasse di annichilirsi e di ritornare al caos. La celebrazione del rituale del Fuoco Nuovo aveva pertanto lo scopo di legare gli anni, ossia di scongiurare la fine del cosmo e permetter al tempo il suo normale fluire. I partecipanti dovevano trascorrere un periodo preparatorio di purificazione fisica e spirituale, durante il quale l’autosalasso e l’astinenza al cibo ricoprivano un ruolo di primaria importanza.
Gli inservienti spargevano sulle terrazze dei templi dei tizzoni ardenti in modo da formare un tappeto di fuoco. I quattro sacerdoti, che avrebbero dovuto camminare sul fuoco, recitavano delle preghiere che accompagnavano con offerta di copale e balche agli dei.
Successivamente, venivano vestiti di rosso, di bianco, di nero e di giallo. Il primo ricopriva un ruolo di maggiore importanza, in quanto rappresentava il dio della pioggia dell’est, direzione ove ogni mattina sorgeva il sole. Indossava inoltre un copricapo rappresentante la maschera nasuta del dio Chac, sulla quale sommità si aveva una grande massa di penne di quetzal, piume verdi per rappresentare il granoturco ancora in erba, e foglie nuove di cui gli alberi si sarebbero ricoperti al ritorno delle piogge. Dietro al primo sacerdote si avevano gli altri tre, tutti con il medesimo copricapo ma vestiti dei colori già detti, al fine di personificare i Chaci dei rimanenti punti cardinali. Ciascuno reggeva con la mano destra un’ascia, alla cui estremità era rappresentata la testa del serpente. Nella sinistra impugnavano un bastone simboleggiante il baleno, mentre su una spalla portavano una zucca contenente acqua, teoricamente incontaminata, con cui gli dei spruzzavano la terra. Dopo avere fatto le offerte agli esseri supremi i quattro sacerdoti, l’uno dopo l’altro, attraversavano il tappeto di fuoco.
Finita questa fase si recavano al tempio del pianeta Venere, e, dopo avere pregato la divinità, si portavano sulla gradinata le vittime sacrificali. Queste, precedentemente drogate, venivano collocate sulla pietra sacrificale e tenuti dai quattro nacom per i piedi e per le mani. Il nacom aveva il compito di compiere il sacrificio, che avveniva grazie ad un lungo coltello di selce, chiamato dai Maya la mano di dio. Dopo aver inciso il petto, il sacerdote introduceva una mano nella ferita al di sotto dello sterno e recideva il muscolo cardiaco, per estrarlo e presentarlo al suo dio. Il cuore veniva deposto in un recipiente, all’interno del quale gli esseri supremi discendevano per bere il sangue. Il chilam e i nacom, con i recipienti in mano, scendevano dal tempio e si trafiggevano lingua, orecchie, pene, braccia, gambe e polpacci; inoltre imbrattavano delle cortecce, che bruciate divenivano cibo per le divinità. I cuori venivano invece strofinati sulle stele. Dopo aver fatto delle buche alla base di queste venivano fatti cadere e ricoperti di terra. Spesso, però, il cuore veniva tagliato a metà: una parte veniva inserita nella bocca della statua indicante il dio del sole, mentre l’altra veniva mangiata dal chilam. Finita la cerimonia il popolo aspettava di vedere comparire la stella di Venere, l’astro che secondo il Popol Vuh aveva partorito il Sole. Se tutto andava per il verso giusto, si accendeva un fuoco sul petto di ogni vittima. Sotto la piramide, invece, se ne accendevano altri, sui quali venivano gettate cortecce impregnate di sangue, recipienti pieni di balche ed animali uccisi.
Il sacro gioco della pelota
Il gioco della pelota ebbe origine presso gli Olmechi, è stato infatti appurato che questa popolazione giocava già ben prima di altre con una pelota di caucciù a El Manati, nel Veracruz, sulla costa del Golfo del Messico. Si calcola che i primi campi da gioco cominciarono ad apparire nel periodo pre-classico medio, e che da allora in poi iniziò a configurarsi un sistema simbolico che si venne arricchendo con il passare dei secoli. Il rituale era diffuso in tutta l’area mesoamericana, e sembra che le regole fossero di poco diverse da regione a regione. I Maya avevano smesso di giocarlo già al tempo di De Landa, sicchè delle partite di questo popolo non ci rimangono descrizioni particolareggiate: vi si accenna infatti solo nel Popol Vuh. Conseguentemente il rituale è meglio conosciuto grazie alle fonti azteche.
La più antica piazza per il gioco della pelota a noi conosciuta venne costruita nel 1000 a.c. circa a La Venta, nel territorio degli Olmechi. Il rituale del gioco è una vera e propria “ri-creazione”, cioè una rinnovata creazione, in quanto rimette in moto sia il tempo che lo spazio dei tempi primordiali. I campi da gioco si trovano nelle città sacre accanto alle piramidi e ai templi. Nell’area maya se ne contano circa quaranta, di cui una dozzina solo a Chichen Itzà. Erano costruzioni rettangolari a forma di H allungata, circondate da mura e con due anelli di pietra conficcati perpendicolarmente a entrambe le due pareti avversarie, ad una altezza che va da un minimo di due metri ad un massimo di cinque metri. I due anelli fungevano da porta attraverso i quali doveva passare il pallone. Venivano chiamati campi da gioco degli dei in quanto la partita era una vera cerimonia in cui gli dèi si affrontavano vicendevolmente.
La pelota era una grossa palla di caucciù del peso di circa 2-3 chilogrammi: massiccia, quindi, ma anche molto elastica, che doveva essere colpita con la giuntura della coscia, del braccio o del gomito. Chiunque la toccava con la mano o col piede, o con qualunque altra parte del corpo perdeva un punto. Il Popol Vuh, però, a differenza degli Aztechi, proibisce l’uso delle braccia. Le cadute della palla per terra, piuttosto frequenti, potevano essere anche mortali, tale era la violenza del gioco. Il giocatore che fosse riuscito a fare passare la palla attraverso l’anello poteva disporre dei vestiti degli spettatori che, eventual-mente, venivano colpiti da essa.
Le testimonianze sono contraddittorie circa la sorte dei giocatori vinti: infatti, alcune fonti affermano che il capitano della squadra vincitrice veniva decapitato al termine della partita, poiché la sua bravura gli dava il privilegio di accedere al mondo cosmico; altre fonti - la maggior parte in verità - al contrario, raccontano che veniva decapitato il capitano della squadra sconfitta. I giocatori, il cui numero sul campo variava da regione a regione, con un minimo di due per squadra ad una massimo di sette, indossavano una spessa cintura ai fianchi con la quale si colpiva la palla, un perizoma e un ginocchiere come protezione. Una delle testimonianze artistiche più ossessionanti e severe che si riferiscono al gioco maya è una statuetta proveniente dal Petèn. Questa figura, da Martin Brennan chiamata l’arbitro, non partecipa attivamente al gioco. Davanti a lui c’è una pietra piatta, strumento, questo, usato per il compito essenziale di tenere la palla sospesa in aria. Di fatto il gioco inizia e si conclude proprio qui, in quanto la palla non deve mai, in nessun caso, venire a contatto con il terreno. La gestualità delle mani della statua è di grande importanza: la mano destra chiusa è la mano della morte, la sinistra, aperta, è la mano della vita. La prima sta a significare, pertanto, il sacrificio dei perdenti; la seconda la vita dei vincitori. Il gioco, legato ad un antico mito tramandato dal Popol Vuh, racconta la lotta tra le divinità terrestri e solari e i demoni dell’inframondo; la pelota, oggetto sacro, rappresenta anche il sole e i pianeti in movimento.
Il rituale aveva una connessione astronomica ben precisa ed era associato al culto del sole, che doveva rinascere ogni giorno abbandonando il mondo delle tenebre: il campo da gioco rappresentava la terra, mentre la palla simboleggia l’astro, per cui il giocatore che lasciava cadere la pelota, senza prima averla infilata nel canestro, doveva essere sacrificato, poiché aveva impedito al sole di rinascere. Nel gioco della pelota di Chichèn Itzà si fronteggiavano due squadre di sette giocatori ciascuna. Sui limiti nord e sud del campo vennero costruiti due edifici sacri dedicati al sole e alla luna. Il senso profondo del gioco sta, dunque, nel suo senso mistico: rimettere in moto il sole, sempre in pericolo di cadere nell’inerzia, rinnovando ritualmente il gesto del serpente piumato archetipale, Tepeu-Gugumatz, che crea il cosmo e mette in moto il tempo, lo spazio e le stelle. Gli anelli di pietra recavano frequentemente l’immagine del sole e della luna o simboli celesti sui due lati. Il gioco simboleggiava nei due schieramenti due forze contendenti: le virtù contro i vizi. Le forze delle tenebre venivano fatte trionfare nell’equinozio d’autunno, e perdere definitivamente nell’equinozio di primavera, associato universalmente alla resurrezione, alla rinascita della luce e del dio solare nell’uomo. La sconfitta della tenebra comportava l’assimilazione delle sue energie attraverso il taglio della testa dei sette atleti che la rappresentavano. L’uccisione dei perdenti era un potentissimo simbolo della vittoria della vita, quella eterna, vincolata all’eterno ciclo delle reincarnazioni. Il rito si connette anche alla mitologia del Popol Vuh, talchè la testa di Hunaphù diviene metafora della pelota. La testa rappresenta il cielo, è l’espressione della divinità che domina la materia, cioè il corpo. E il gioco ha proprio tale funzione di dominio materiale del cosmo e di sua perpetuazione.Ai giocatori venivano allacciate delle corde, dal significato simbolico, ai bicipidi, agli avambracci, alle mani e ai polpacci.
La testa di Hunaphù, nel racconto del Popol Vuh, viene collocata sull’albero e feconda con la sua saliva la vergine degli inferi. Entrambi sono i progenitori della coppia divina Xbalanquè e Hunaphù, cioè i fratelli che, giocando alla pelota, sconfiggono la morte. La corda, nel libro sacro, sostiene la testa di Xbalanquè sopra il campo da gioco, dopo che questa gli fu tagliata dagli dei degli inferi. Questo simbolo allude probabilmente alla continuità della successione sacerdotale e della conservazione della conoscenza sacra, che permette il rinnovamento del mondo attraverso il gioco della pelota.
Gerard Van Russel analizza la coincidenza tra le parole “sangue” e “caucciù” nella lingua maya, cioè K’ik, e tra “sangue” e “caucciù” e “seme”, cioè K’ik’el. Da ciò afferma che il gioco della pelota è un’allegoria della vita. Mediante il gioco, quindi, si consumava l’offerta di sangue e di morte, in quanto la morte per sacrificio, perpetuava la vita. Come accade con il sole, che a ogni alba vince sulla notte, l’offerta di sangue del giocatore sacrificato permetteva alle piante di potere germogliare di nuovo e assicurava il sostentamento del popolo. Così il gioco si rapporta all’universo tramite l’immolazione, la decapitazione e la mutilazione, aspetti rappresentati nei rilievi di El Tajin, Chichen Itzà, Izap, tra gli altri luoghi. Nelle miniature dei codici preispanici, infine, i giocatori sacrificati sono associati alla fertilità, alla pioggia, alla vegetazione con la vittoria del sole sulle tenebre.
Anche il gioco della pelota, pertanto, riunisce in sé i due contrari della vita (morte e vita; morte e rinascita), al fine di rivitalizzazione il cosmo. Per tale motivo, le iconografie che accompagnano le rappresentazioni del gioco e gli oggetti in relazione con la pratica mostrano tutti quegli animali e piante dalla vita duale come i coccodrilli, le tartarughe, le rane, i serpenti, i giaguari e le ninfee. La rana, come il serpente e la farfalla, diviene simbolo della trasformazione e dell’innalzamento ad uno stadio superiore per la capacità della sua pelle anfibia di cambiare colore.
La cerimonia, pertanto, si inseriva nel tempo sacro, e ritualmente lo ri-creava. La vita combatteva per vincere il male, il sole (la palla) doveva entrare nel canestro, simbolo della sua ricomparsa ad est, e mai fermarsi o cadere. Il giocatore, il campo, i canestri divenivano simboli degli astri che, con il loro movimento, portavano avanti il tempo, lo spazio e la creazione. Ad ogni partita venivano sacrificati i vinti sia per ricordare che il sole ogni giorno nel suo viaggio notturno combatteva e sconfiggeva gli dei inferi, sia per ridare le forze energetiche alle divinità astronomiche. La partita, che per i Maya, portava e ri-creava in campo la perenne lotta tra le forze ordinatrici e le forze distruttive, nasceva dalla forte paura mesoamericana che la creazione potesse in ogni momento ritornare al caos. L’uomo, con il suo sacro gioco, non doveva fare altro che scongiurare questo pericolo, sconfiggendo ritualmente le tenebre e sacrificando i perdenti per impossessarsi delle energie del male e fornirle alle divinità benevoli.
I Voladores
Un altro gioco, tutt’ora in uso in Messico, è quello della “danza del volador”, che consisteva nel fissare sopra un alto palo una piattaforma girevole, alla quale erano agganciate quattro corde, cui si legavano i voladores. Con l’aiuto del capitano, che stava in cima, i voladores si mettevano in moto, volteggiando nell’aria con un ritmo sempre più vorticoso. Ognuno prima di giungere per terra compiva tredici giri, per una somma totale di 52. La sacralità della danza del volador è suggerita dal ricorrere dei numeri sacri quattro e tredici. I voladores erano quattro, come l’aspetto quadruplice delle divinità; quattro come il numero dei cieli e le ceibe che li sostengono e come le creazioni narrate nel Popol Vuh. Il tredici invece si riconnetteva ai i cieli e le divinità che li presiedono, nonché alla settimana maya.
Il rituale viene interpretato dagli studiosi come una rappresentazione del del grande dramma mistico che rievoca la nascita del mais. Il moto dell’aria prodotto dai voladores rappresenta il vento favorevole alla pioggia, e i voladores stessi rappresentano gli dei del mais nel loro movimento creativo.
La cerimonia, inoltre, rappresenta la discesa sulla terra dei guerrieri morti in combattimento e, per questo motivo, trasformati in stelle.
Un altro gioco, tutt’ora in uso in Messico, è quello della “danza del volador”, che consisteva nel fissare sopra un alto palo una piattaforma girevole, alla quale erano agganciate quattro corde, cui si legavano i voladores. Con l’aiuto del capitano, che stava in cima, i voladores si mettevano in moto, volteggiando nell’aria con un ritmo sempre più vorticoso. Ognuno prima di giungere per terra compiva tredici giri, per una somma totale di 52. La sacralità della danza del volador è suggerita dal ricorrere dei numeri sacri quattro e tredici. I voladores erano quattro, come l’aspetto quadruplice delle divinità; quattro come il numero dei cieli e le ceibe che li sostengono e come le creazioni narrate nel Popol Vuh. Il tredici invece si riconnetteva ai i cieli e le divinità che li presiedono, nonché alla settimana maya.
Il rituale viene interpretato dagli studiosi come una rappresentazione del del grande dramma mistico che rievoca la nascita del mais. Il moto dell’aria prodotto dai voladores rappresenta il vento favorevole alla pioggia, e i voladores stessi rappresentano gli dei del mais nel loro movimento creativo.
La cerimonia, inoltre, rappresenta la discesa sulla terra dei guerrieri morti in combattimento e, per questo motivo, trasformati in stelle.
La guerra fiorita
Il sacrificio umano aveva presso i Maya un valore altamente sociale, come si evince, tra l’altro, dalla partecipazione convinta e gioiosa di tutto il popolo a questo tipo di celebrazione.
Come dice Westermack,
“il sacrificio umano è essenzialmente un’assicurazione sulla vita. Viene sacrificato la vita di qualcuno per salvare quella di molti”.
Il valore sociale del sacrificio umano, attraverso il banchetto sacro, era un fattore di comunione fraterna non soltanto tra i viventi, ma anche con i morti e con i sacrificati. Il valore sociale salvifico del sangue spiega la rilevante importanza ricoperta dalla guerra sacra. Le guerre avvenivano con delle furibonde battaglie, nelle quali i guerrieri si impegnavano in furiose lotte corpo a corpo. Essi tenevano in mano una spada ornata di punte di selce, la macana, e nell’altra uno scudo rotondo o quadrato, ornato di simboli solari. Questi scudi erano spesso ricoperti di pelli di giaguaro o di cervo, alcuni erano fatti di canne intrecciate, risultando pertanto molto flessibili negli urti ravvicinati. Gli eserciti si dividevano in squadre, dei giaguari, dei puma, delle aquile, ed erano riconoscibili dalle insegne e dagli elmi, che spesso formavano caschi a forma di maschere di animali. Un secondo scudo dorsale, fisso, proteggeva dalle sorprese. Inoltre, il soldato indossava una giubba di cotone imbottita e indurita con sale. Questa giubba, di grande efficacia, venne in seguito adottata dagli spagnoli. Alcuni guerrieri portavano come braccialetti le mascelle dei nemici uccisi.
Contrariamente all’opinione, diffusa tra gli studiosi, secondo la quale il primo millennio fu poco bellicoso, le prove archeologiche date dagli affreschi di Bonampak, le stele di Pietras Negras e le numerose figurine di argilla rappresentanti temibili guerrieri, in atteggiamento di sfida, ci suggeriscono una vita non certo bucolica e pacifica.Con la discesa messicana in territorio maya i costumi divennero più bellicosi, sicchè Cortès trovò nel Petèn molte città fortificate, cinte da fossati artificiali pieni d’acqua, da palizzate e da torrette di controllo.
Durante le battaglie il guerriero maya utilizzava delle sorte di bombe di terra, contenenti un alveare, che, tirata addosso agli avversari, si rivelavano micidiali. Di esse fecero esperienza diretta i conquistadores.
Con l’avvento tolteco-messicano si ebbe certamente un militarismo sistematico e, pertanto, la tecnica militare potè perfezionarsi ulteriormente.
Creata per necessità religiosa, la guerra divenne, nel post-classico, una specie di sport indispensabile. In tutta la meso-america la guerra aveva quasi sempre origine dalla necessità di procurarsi dei prigionieri da sacrificare agli dèi.Una campagna vittoriosa permetteva di fare scorta di sangue per il sole, senza incidere troppo sulla popolazione del paese. Questa usanza comportò, specialmente dopo il primo millennio, la formazione di una categoria militare potente, che costò a quella sacerdotale il declino e la conseguente perdita della sapienza sacra, di cui solo loro, fino a quel momento, erano i depositari.
Il condottiero non veniva considerato un grande guerriero perchè uccideva quante più persone possibili, ma se riusciva a catturarne una grande quantità, assicurando in tal modo il sangue agli dèi.
I conquistadores, dopo aver fatto esperienza di ciò, il 25 gennaio del 1518, si imbarcarono con i capelli tagliati molto corti, per evitare di essere presi in ostaggio dato che i combattenti maya catturavano le loro vittime prendendole per i capelli.
La guerra aveva, quindi, un duplice aspetto politico-sacrale, quello cioè di espansione della propria potenza e quello religioso; due motivi che venivano a fondersi e che rendevano, di fatto, la guerra santa e, in quanto tale, la rendevano un dovere verso il cosmo. Facendo la guerra i Maya si conformavano alla volontà degli dei, fin dalle origini del mondo, cioè si procuravano quegli indispensabili prigionieri di guerra per le morti sacrificali. Siccome tali prigionieri divenivano i “fiori” da offrire alle loro divinità, ecco il motivo del nome di “guerra fiorita”. Il valore mistico-religioso della guerra venne affermato dal re azteco Montemhzoma, che alla domanda del marchese del Valle sul perché gli Aztechi non avessero sottomesso la provincia di Tlaxcola così vicina e invece amassero sottomettere le province lontane, diede la seguente risposta: “ primo, per tenere esercitata la gioventù, perché non cresca nell’ozio e nel lusso; secondo, risparmiandola, possiamo procurarci vittime per il sacrificio quando vogliamo ”.
Secondo Cortès stesso,
“la ritualità del sacrificio dei prigionieri sostituiva ed eliminava il massacro sul campo di battaglia”.
Noi riteniamo che la guerra fiorita sia un rituale per molti aspetti simile al gioco della pelota. I due riti, infatti, garantivano la conservazione delle forze e delle energie alle divinità, ma con la sostanziale differenza che la guerra assicurava all’animo maya una sorta di sicurezza nel futuro se il bottino si fosse rivelato particolarmente ricco.
Per la sensibilità occidentale è difficile accettare o anche solo comprendere i sacrifici cruenti, non si può comunque negare che essi venissero compiuti per motivi superiori, tra i quali era escluso ogni sadismo, cioè ogni desiderio di fare soffrire gratuitamente. Al contrario, la vittima era circondata da grande rispetto, e dopo la sua morte veniva considerata addirittura santa; c’era della barbarie, senza dubbio, ma mai odio. Si aveva anzi una strana complicità tra la vittima e il sacrificatore, nonché l’accettazione, che definiremmo ‘stoica’, di una sorte giudicata gloriosa. Vi sono racconti storici nei quali si vedono i prigionieri rifiutare la proposta di aver salva la vita e andare a piazzarsi da soli sotto il coltello. Si stabiliva pertanto una strana relazione tra il prigioniero e colui che, avendolo catturato, doveva condurlo a morte. Il primo si rivolgeva al secondo chiamandolo “padre venerato”, e poi, per fargli accettare meglio la fine, veniva drogato con sostanze stupefacenti in grado di attenuare le sofferenze.
Dobbiamo tenere presente inoltre che la nozione stessa di crudeltà è estremamente variabile a seconda dei luoghi e delle epoche, e il corso della storia è pieno di massacri, di supplizi, di città rase al suolo, di popolazioni passate a fil di spada, di eretici bruciati, di prigionieri torturati in centinaia di modi. I Maya e i mesoamericani, secondo il nostro modo di vedere, non furono certamente più barbari degli europei e, in quanto a massacri, l’occidente si è molto contraddistinto durante la sua storia, basta pensare alle crociate, all’inquisizione e al nazismo.
Lascia pensare i filo-occidentali la domanda posta dal re azteco Montecuhzoma a H.Cortès: “se voi prendete il diritto di uccidere i vostri nemici in guerra, perché non possiamo noi sacrificarli ai nostri dèi?”.
Durante le battaglie il guerriero maya utilizzava delle sorte di bombe di terra, contenenti un alveare, che, tirata addosso agli avversari, si rivelavano micidiali. Di esse fecero esperienza diretta i conquistadores.
Con l’avvento tolteco-messicano si ebbe certamente un militarismo sistematico e, pertanto, la tecnica militare potè perfezionarsi ulteriormente.
Creata per necessità religiosa, la guerra divenne, nel post-classico, una specie di sport indispensabile. In tutta la meso-america la guerra aveva quasi sempre origine dalla necessità di procurarsi dei prigionieri da sacrificare agli dèi.Una campagna vittoriosa permetteva di fare scorta di sangue per il sole, senza incidere troppo sulla popolazione del paese. Questa usanza comportò, specialmente dopo il primo millennio, la formazione di una categoria militare potente, che costò a quella sacerdotale il declino e la conseguente perdita della sapienza sacra, di cui solo loro, fino a quel momento, erano i depositari.
Il condottiero non veniva considerato un grande guerriero perchè uccideva quante più persone possibili, ma se riusciva a catturarne una grande quantità, assicurando in tal modo il sangue agli dèi.
I conquistadores, dopo aver fatto esperienza di ciò, il 25 gennaio del 1518, si imbarcarono con i capelli tagliati molto corti, per evitare di essere presi in ostaggio dato che i combattenti maya catturavano le loro vittime prendendole per i capelli.
La guerra aveva, quindi, un duplice aspetto politico-sacrale, quello cioè di espansione della propria potenza e quello religioso; due motivi che venivano a fondersi e che rendevano, di fatto, la guerra santa e, in quanto tale, la rendevano un dovere verso il cosmo. Facendo la guerra i Maya si conformavano alla volontà degli dei, fin dalle origini del mondo, cioè si procuravano quegli indispensabili prigionieri di guerra per le morti sacrificali. Siccome tali prigionieri divenivano i “fiori” da offrire alle loro divinità, ecco il motivo del nome di “guerra fiorita”. Il valore mistico-religioso della guerra venne affermato dal re azteco Montemhzoma, che alla domanda del marchese del Valle sul perché gli Aztechi non avessero sottomesso la provincia di Tlaxcola così vicina e invece amassero sottomettere le province lontane, diede la seguente risposta: “ primo, per tenere esercitata la gioventù, perché non cresca nell’ozio e nel lusso; secondo, risparmiandola, possiamo procurarci vittime per il sacrificio quando vogliamo ”.
Secondo Cortès stesso,
“la ritualità del sacrificio dei prigionieri sostituiva ed eliminava il massacro sul campo di battaglia”.
Noi riteniamo che la guerra fiorita sia un rituale per molti aspetti simile al gioco della pelota. I due riti, infatti, garantivano la conservazione delle forze e delle energie alle divinità, ma con la sostanziale differenza che la guerra assicurava all’animo maya una sorta di sicurezza nel futuro se il bottino si fosse rivelato particolarmente ricco.
Per la sensibilità occidentale è difficile accettare o anche solo comprendere i sacrifici cruenti, non si può comunque negare che essi venissero compiuti per motivi superiori, tra i quali era escluso ogni sadismo, cioè ogni desiderio di fare soffrire gratuitamente. Al contrario, la vittima era circondata da grande rispetto, e dopo la sua morte veniva considerata addirittura santa; c’era della barbarie, senza dubbio, ma mai odio. Si aveva anzi una strana complicità tra la vittima e il sacrificatore, nonché l’accettazione, che definiremmo ‘stoica’, di una sorte giudicata gloriosa. Vi sono racconti storici nei quali si vedono i prigionieri rifiutare la proposta di aver salva la vita e andare a piazzarsi da soli sotto il coltello. Si stabiliva pertanto una strana relazione tra il prigioniero e colui che, avendolo catturato, doveva condurlo a morte. Il primo si rivolgeva al secondo chiamandolo “padre venerato”, e poi, per fargli accettare meglio la fine, veniva drogato con sostanze stupefacenti in grado di attenuare le sofferenze.
Dobbiamo tenere presente inoltre che la nozione stessa di crudeltà è estremamente variabile a seconda dei luoghi e delle epoche, e il corso della storia è pieno di massacri, di supplizi, di città rase al suolo, di popolazioni passate a fil di spada, di eretici bruciati, di prigionieri torturati in centinaia di modi. I Maya e i mesoamericani, secondo il nostro modo di vedere, non furono certamente più barbari degli europei e, in quanto a massacri, l’occidente si è molto contraddistinto durante la sua storia, basta pensare alle crociate, all’inquisizione e al nazismo.
Lascia pensare i filo-occidentali la domanda posta dal re azteco Montecuhzoma a H.Cortès: “se voi prendete il diritto di uccidere i vostri nemici in guerra, perché non possiamo noi sacrificarli ai nostri dèi?”.
Come sempre e dovunque, è il clero quale che sia a inventare le cose più strampalate: anche se guardiamo in casa nostra, ce ne sono a iosa di idee e di pratiche bizzarre e senza senso.
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