martedì 29 maggio 2012

La scuola francescana


Con l’insegnamento di Alessandro di Hales e Bonaventura da Bagnoregio, l’agostinismo si affermava nello studio parigino e in tutti gli studi dell’ordine francescano. La posizione della scuola francescana avrà molta parte nelle condanne di tesi aristoteliche del 1270 e del 1277 a Parigi, e nelle successive condanne di Oxford.
Alessandro di Hales (nato nel 1185-morto nel 1245) fu il primo maestro francescano dell’università parigina. Vasta la sua produzione, particolarmente importanti la sua Glossa al Libro delle Sentenze di Lombardo, e a lui è attribuita la Summa Fratris Alexandri. Alessandro fu il primo ad adottare il Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo all’interno dell’insegnamento, in luogo della Bibbia. In suoi insegnamenti si rifanno pedissequamente al tradizionalismo agostiniano, per cui la Trinità è conoscibile per i vestigi impressi nel mondo fisico e nell’anima; la conoscenza certa è fondata sulle regole eterne e nel conoscere l’anima è attiva. Nella Summa vanno segnalati i principi che costituiscono il patrimonio comune di tutta la posteriore tradizione francescana: possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio sia partendo dalle creature, sia dall’analisi delle idee; creazione del tempo senza intermediari; composizione ilemorfica di tutte le creature (tutte le creature sono composte di materia e forma); distinzione nelle creature fra il quo est il quod est ove il primo è l’essenza astratta, mentre il quod est è il soggetto concreto (pluralità delle forme sostanziali in ogni individuo). In gnoseologia resta fondamentale la dottrina delle ragioni eterne irragiate nell’intelletto da Dio.
Bonaventura da Bagnoregio nasce a Bagnoregio presso Viterbo nel 1221, studiò nella facoltà di Parigi. Creato cardinale nel 1273, morì nel 1274. La sua opera più famosa è l’Itinerarium mentis in Deum. Con Bonaventura l’agostinismo raggiunge il suo massimo sviluppo. Egli si impegna in una coerente difesa della sapienza cristiana nella linea disegnata da San Agostino di Ippona, approfondita alla luce dell’insegnamento francescano. Tutta la filosofia di Bonaventura si sviluppa attorno al tema di ascesa dell’anima a Dio: in questo itinerarium, la filosofia e la teologia non si contrappongono, ma si fondono in una progressiva espansione dell’intellectus fidei, fino all’estatica visione di Dio. Ogni momento dell’intendere (intelligere) che muove dalla fede, sorretto dall’illuminazione divina, è preparazione ad un momento più alto e acquista il suo valore nell’essere medio, mai termine, fino alla contemplazione faccia a faccia della verità. L’uomo, nel suo processo di ascesa a Dio, ritrova in sé e sopra di sé l’impronta e l’immagine di Dio e infine, la luce dell’essere Unitrino. L’insieme degli esseri creati si pone così immediatamente come il grande libro attraverso il quale Dio si manifesta agli uomini, la natura, pertanto, non interessa come un contesto di fenomeni retto da leggi necessarie, e la scienza, che nel suo essere mondana denuncia il suo limite, si manifesta per sé vana curiositas: la natura vale perché significa ed esprime Dio che splende in tutto il creato. Per Bonaventura, come per Agostino, l’uomo in quanto essere finito, mutevole, non sarebbe capace di cogliere il vero nella sua assolutezza, se non fosse presente nell’uomo la luce divina che gli dona i principi primi del conoscere, le regole eterne che rendono possibile formulare giudizi universali e necessari. L’uomo dunque in quanto essere privilegiato tra gli esseri creati porta in sé, nella memoria, nell’intelletto e nella volontà, l’immagine di Dio. Bonaventura distingue due tipi di conoscenza: scientia e sapientia: la prima, inferiore, si occupa del mondo sensibile, e il paradigma viene offerto da Aristotele; la seconda, superiore, si fonda invece sui principi universali e necessari e per questo si deve essere sorretti, illuminati dalla luce divina. La conoscenza certa per Bonaventura, come per Agostino, è possibile solo in quanto l’intelletto è corroborato dalla luce del vero che brilla nell’uomo con le rationes aeternae. Le rationes aeternae, congiunte alla ratio superior, non costituiscono oggetti di conoscenza, ma la fondano come principi a priori del giudizio: “queste regole sono infallibili, indubitabili, in giudicabili, poiché il giudizio è possibile con esse e non su di esse”. Il vero dunque si raggiunge mediante la luce dell’eterna sapienza, del Verbo; ciò porta Bonaventura, come Agostino, ad affermare che “unus est magister noster, Christus”. La luce divina, fondamento ultimo del nostro conoscere, conduce l’uomo a superare se stesso per rivolgersi a Dio. Dio è l’essere che non si può pensare che non sia, esso è il primo vero indubitabile presente in ogni anima: Dio è il vero indubitabile evidentissimo e presentissimo, impresso in tutte le menti razionali, che, come tale, non può non esistere (prova dell’esistenza di Dio). Ma l’essere, non è visto direttamente, bensì in una “somma oscurità che è luce della mente”. Nell’essere l’uomo coglierà anche, con la stessa necessità per cui non può pensare che non sia, il suo essere unitrino; e proprio mentre coglie questa sublime verità, che tuttavia comprende di non comprendere, l’itinerarium giunge al suo termine nella perfetta illuminazione della mente. Con il ritorno dell’anima a Dio si salda il circolo della realtà, secondo quell’unico processo illuminativo per cui la verità richiama a sé gli esseri. Per Bonaventura non esiste una distinzione tra filosofia e teologia, in quanto egli nega la validità di una filosofia autonoma che pretenda di attingere il vero: ciò perché la ragione non può prescindere dal primo vero centrale che è il verbo. Una scienza puramente umana, se non è assistita dalla luce della fede, si chiude nella contemplazione della natura in sé e non vedrà in essa il vestigio di Dio: questo è il limite e il peccato dei filosofi naturali che conoscono la natura delle cose in sé e non come vestigio. Bonaventura critica pertanto Aristotele, la cui filosofia umana è piena di pericoli ed errori, e i propri contemporanei, che antepongono i filosofi ai santi. Compito della teologia è invece quello di leggere il senso dei simboli racchiusi nella Bibbia in modo che sia possibile cogliere il senso della storia e dei suoi destini futuri ( la teologia è lectio historiae). Bonaventura concepisce la materia non come pura passività ma come potenza già in qualche modo attuata dalle ragioni seminali (rationes seminales): “ la ragione seminale è una potenza attiva unita alla materia che ha l’essenza della forma; da essa infatti viene in essere la forma attraverso l’azione della natura che non produce nulla dal nulla”. La luce divina è la natura comune o prima forma di tutti i corpi: “ la luce è la forma sostanziale dei corpi che hanno l’essere in modo più vero e più degno nei gradi degli enti secondo la maggiore o minore partecipazione ad essa”. Bonaventura afferma la dottrina ilemorfica, e afferma che tale natura non è solo delle creature materiali, ma anche di quelle spirituali (materia spirituale). Caratteristica è invece la dottrina della volontà che si svolge parallela alla dottrina dell’intelletto: come questo ha bisogno dell’illuminazione che fondi il naturale iudicatorium, così la volontà ha bisogno di una iniziale spinta al bene, sinderesi. La sinderesi si inserisce nella dottrina del necessario e generale concorso di Dio nell’attività delle creature, cioè in quella gratuita influenza di Dio che conserva e aiuta tutte le cose perché compiano le loro operazioni. Dalla convergenza dell’intelletto e della volontà nasce il libero arbitrio.
Giovanni Peckham (1230-1292) critica aspramente alcune dottrine tomistiche e afferma sia che l’esistenza di Dio è evidente allo spirito, sia è all'impossibilità di una creazione ab aeterno.
Dio può creare la materia senza la forma poiché in sé la materia non è pura potenzialità ma già qualcosa di attuato, cui la forma conferisce l’essere specifico completo; a questa dottrina si collegano i temi dell’ilemorfismo universale (tutti gli esseri creati sono composti di materia e forma), il corpo umano è formato dall’anima vegetativa e sensitiva, cui si aggiunge come ultima forma l’anima razionale creata da Dio che completa e perfeziona tutte le forme umane. Anche la dottrina della conoscenza di Peckham resta radicalmente agostiniana nell’affermazione dell’incapacità dell’intelletto di raggiungere la verità senza illuminazione divina. La possibilità di conoscere la verità offre la principale prova dell’immortalità dell’anima: “poiché solo la ragione ha per oggetto la verità come immortale, necessariamente è immortale essa stessa”. Al di sopra dell’intelletto agente e dell’intelletto possibile sta la luce divina che irraggia l’intelletto. Questa luce rende possibile la piena e perfetta conoscenza delle cose. Peckham è anche autore di un trattato, Perspectiva communis, scarsamente originale, ma che mostra un’interessante testimonianza della continuità degli interessi matematici e sperimentali della scuola di Oxford.
Guglielmo de La Mare vicino al Pechkam, soprattutto per l’impegno della polemica antitomista, fu maestro a Parigi e poi ad Oxford. Autore di un’opera polemica verso Tommaso D’Aquino, il Correctorium fra tris Thomae.
Matteo d’Acquasparta (1240-1302) è un fedele seguace dell’agostinismo di Bonaventura. E in tal senso si spiega la sua concezione psicologica: l’anima è una sostanza composta dei suoi principi essenziali, cioè di materia e forma; l’anima è indipendente dal corpo nel suo operare; il conoscere è un fenomeno attivo, anche nel suo momento sensibile.
A questa concezione agostiniana dell’anima si ricollega la teoria dell’illuminazione, che mediante le rationaes aeternae fonda le certezze del conoscere: “dico che pur essendovi nell’anima l’intelletto agente che fa ogni cosa, e l’intelletto possibile che diviene ogni cosa, non è tuttavia sufficiente; è infatti necessario un ulteriore e superiore lume”. Matteo nega quindi in maniera radicale ogni autonomia della ragione naturale e critica la tesi della possibilità filosofica di una creazione ab aeterno; così pure respinge la dottrina dell’individuazione attraverso la materia per riaffermare che l’individuazione è causata dalla composizione della materia e della forma.
Pier Giovanni Olivi (1248-1298) rientra, con la sua speculazione, nella tradizione francescana. Al centro della metafisica di Olivi sta la teoria della creazione immediata, nel tempo e non ab aeterno; la composizione ilemorfica di tutti gli esseri creati (anche delle sostanze spirituali), la molteplicità delle forme. Inoltre, respingendo l’individuazione tramite la materia, Olivi ritiene che la realtà sia tutta individuale, così come individuale è per sé la forma che si congiunge alla materia. L’universale esiste solo nell’intelletto, il quale conosce direttamente l’individuale. Tesi che l’Olivi sostiene in polemica dei sostenitori dei filosofi pagani, i quali rutengono che l’intelletto abbia per oggetto immediato solo l’universale.
Nell’Olivi troviamo anche importanti tesi che si venivano facendo strada sulla fine del duecento e che avranno notevoli sviluppi nella filosofia francescana del XIV secolo. Queste concezioni confutano alcune teorie della fisica ristotelica, ed infatti egli afferma l’identità della materia dei corpi terrestri e dei corpi celesti, nega la distinzione tra moto naturale e moto violento, ed elabora il tema dell’impetus, secondo cui ogni moto è impresso dall’agente esterno al mobile, e dura anche una volta cessata l’azione dell’agente: dottrina che rompeva gli schemi della fisica aristotelica.

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