Con
l’insegnamento di Alessandro
di Hales
e Bonaventura
da Bagnoregio,
l’agostinismo si affermava nello studio parigino e in tutti gli
studi dell’ordine francescano. La posizione della scuola
francescana avrà molta parte nelle condanne di tesi aristoteliche
del 1270 e del 1277 a Parigi, e nelle successive condanne di Oxford.
Alessandro
di Hales (nato
nel 1185-morto nel 1245) fu il primo maestro francescano
dell’università parigina. Vasta la sua produzione, particolarmente
importanti la sua Glossa
al Libro
delle Sentenze di Lombardo,
e a lui è attribuita la Summa
Fratris Alexandri.
Alessandro fu il primo ad adottare il Libro
delle Sentenze
di Pietro Lombardo all’interno dell’insegnamento, in luogo della
Bibbia. In suoi insegnamenti si rifanno pedissequamente al
tradizionalismo agostiniano, per cui la Trinità è conoscibile per i
vestigi impressi nel mondo fisico e nell’anima; la conoscenza certa
è fondata sulle regole eterne e nel conoscere l’anima è attiva.
Nella Summa
vanno segnalati i principi che costituiscono il patrimonio comune di
tutta la posteriore tradizione francescana: possibilità di
dimostrare l’esistenza di Dio sia partendo dalle creature, sia
dall’analisi delle idee; creazione del tempo senza intermediari;
composizione ilemorfica di tutte le creature (tutte le creature sono
composte di materia e forma); distinzione nelle creature fra il quo
est il quod est ove il primo è l’essenza astratta, mentre il quod
est è il soggetto concreto (pluralità delle forme sostanziali in
ogni individuo). In gnoseologia resta fondamentale la dottrina delle
ragioni eterne irragiate nell’intelletto da Dio.
Bonaventura
da Bagnoregio nasce
a Bagnoregio presso Viterbo nel 1221, studiò nella facoltà di
Parigi. Creato cardinale nel 1273, morì nel 1274. La sua opera più
famosa è l’Itinerarium
mentis in Deum.
Con Bonaventura l’agostinismo raggiunge il suo massimo sviluppo.
Egli si impegna in una coerente difesa della sapienza cristiana nella
linea disegnata da San Agostino di Ippona, approfondita alla luce
dell’insegnamento francescano. Tutta la filosofia di Bonaventura si
sviluppa attorno al tema di ascesa dell’anima a Dio: in questo
itinerarium, la filosofia e la teologia non si contrappongono, ma si
fondono in una progressiva espansione dell’intellectus
fidei,
fino all’estatica visione di Dio. Ogni momento dell’intendere
(intelligere) che muove dalla fede, sorretto dall’illuminazione
divina, è preparazione ad un momento più alto e acquista il suo
valore nell’essere medio, mai termine, fino alla contemplazione
faccia a faccia della verità. L’uomo, nel suo processo di ascesa a
Dio, ritrova in sé e sopra di sé l’impronta e l’immagine di Dio
e infine, la luce dell’essere Unitrino. L’insieme degli esseri
creati si pone così immediatamente come il grande libro attraverso
il quale Dio si manifesta agli uomini, la natura, pertanto, non
interessa come un contesto di fenomeni retto da leggi necessarie, e
la scienza, che nel suo essere mondana denuncia il suo limite, si
manifesta per sé vana curiositas: la natura vale perché significa
ed esprime Dio che splende in tutto il creato. Per Bonaventura, come
per Agostino, l’uomo in quanto essere finito, mutevole, non sarebbe
capace di cogliere il vero nella sua assolutezza, se non fosse
presente nell’uomo la luce divina che gli dona i principi primi del
conoscere, le regole eterne che rendono possibile formulare giudizi
universali e necessari. L’uomo dunque in quanto essere privilegiato
tra gli esseri creati porta in sé, nella memoria, nell’intelletto
e nella volontà, l’immagine di Dio. Bonaventura distingue due tipi
di conoscenza: scientia
e
sapientia:
la prima, inferiore, si occupa del mondo sensibile, e il paradigma
viene offerto da Aristotele; la seconda, superiore, si fonda invece
sui principi universali e necessari e per questo si deve essere
sorretti, illuminati dalla luce divina. La conoscenza certa per
Bonaventura, come per Agostino, è possibile solo in quanto
l’intelletto è corroborato dalla luce del vero che brilla
nell’uomo con le rationes
aeternae.
Le rationes aeternae, congiunte alla ratio superior, non
costituiscono oggetti di conoscenza, ma la fondano come principi a
priori del giudizio: “queste
regole sono infallibili, indubitabili, in giudicabili, poiché il
giudizio è possibile con esse e non su di esse”.
Il vero dunque si raggiunge mediante la luce dell’eterna sapienza,
del Verbo; ciò porta Bonaventura, come Agostino, ad affermare che
“unus
est magister noster, Christus”.
La luce divina, fondamento ultimo del nostro conoscere, conduce
l’uomo a superare se stesso per rivolgersi a Dio. Dio è l’essere
che non si può pensare che non sia, esso è il primo vero
indubitabile presente in ogni anima: Dio è il vero indubitabile
evidentissimo e presentissimo, impresso in tutte le menti razionali,
che, come tale, non può non esistere (prova dell’esistenza di
Dio). Ma l’essere, non è visto direttamente, bensì in una “somma
oscurità che è luce della mente”. Nell’essere l’uomo coglierà
anche, con la stessa necessità per cui non può pensare che non sia,
il suo essere unitrino; e proprio mentre coglie questa sublime
verità, che tuttavia comprende di non comprendere, l’itinerarium
giunge al suo termine nella perfetta illuminazione della mente. Con
il ritorno dell’anima a Dio si salda il circolo della realtà,
secondo quell’unico processo illuminativo per cui la verità
richiama a sé gli esseri. Per Bonaventura non esiste una distinzione
tra filosofia e teologia, in quanto egli nega la validità di una
filosofia autonoma che pretenda di attingere il vero: ciò perché la
ragione non può prescindere dal primo vero centrale che è il verbo.
Una scienza puramente umana, se non è assistita dalla luce della
fede, si chiude nella contemplazione della natura in sé e non vedrà
in essa il vestigio
di Dio: questo è il limite e il peccato dei filosofi naturali che
conoscono la natura delle cose in sé e non come vestigio.
Bonaventura critica pertanto Aristotele, la cui filosofia umana è
piena di pericoli ed errori, e i propri contemporanei, che
antepongono i filosofi ai santi. Compito della teologia è invece
quello di leggere il senso dei simboli racchiusi nella Bibbia in modo
che sia possibile cogliere il senso della storia e dei suoi destini
futuri ( la teologia è lectio
historiae).
Bonaventura concepisce la materia non come pura passività ma come
potenza già in qualche modo attuata dalle ragioni
seminali (rationes seminales):
“ la
ragione seminale è una potenza attiva unita alla materia che ha
l’essenza della forma; da essa infatti viene in essere la forma
attraverso l’azione della natura che non produce nulla dal nulla”.
La luce divina è la natura comune o prima forma di tutti i corpi: “
la
luce è la forma sostanziale dei corpi che hanno l’essere in modo
più vero e più degno nei gradi degli enti secondo la maggiore o
minore partecipazione ad essa”.
Bonaventura afferma la dottrina ilemorfica, e afferma che tale natura
non è solo delle creature materiali, ma anche di quelle spirituali
(materia spirituale). Caratteristica è invece la dottrina della
volontà che si svolge parallela alla dottrina dell’intelletto:
come questo ha bisogno dell’illuminazione che fondi il naturale
iudicatorium,
così la volontà ha bisogno di una iniziale spinta al bene,
sinderesi.
La sinderesi si inserisce nella dottrina del necessario e generale
concorso di Dio nell’attività delle creature, cioè in quella
gratuita influenza di Dio che conserva e aiuta tutte le cose perché
compiano le loro operazioni. Dalla convergenza dell’intelletto e
della volontà nasce il libero arbitrio.
Giovanni
Peckham (1230-1292)
critica aspramente alcune dottrine tomistiche e afferma sia che
l’esistenza di Dio è evidente allo spirito, sia è
all'impossibilità di una creazione ab
aeterno.
Dio
può creare la materia senza la forma poiché in sé la materia non è
pura potenzialità ma già qualcosa di attuato, cui la forma
conferisce l’essere specifico completo; a questa dottrina si
collegano i temi dell’ilemorfismo universale (tutti gli esseri
creati sono composti di materia e forma), il corpo umano è formato
dall’anima vegetativa e sensitiva, cui si aggiunge come ultima
forma l’anima razionale creata da Dio che completa e perfeziona
tutte le forme umane. Anche la dottrina della conoscenza di
Peckham resta radicalmente agostiniana nell’affermazione
dell’incapacità dell’intelletto di raggiungere la verità senza
illuminazione divina. La possibilità di conoscere la verità offre
la principale prova dell’immortalità dell’anima: “poiché solo
la ragione ha per oggetto la verità come immortale, necessariamente
è immortale essa stessa”. Al di sopra dell’intelletto agente e
dell’intelletto possibile sta la luce divina che irraggia
l’intelletto. Questa luce rende possibile la piena e perfetta
conoscenza delle cose. Peckham è anche autore di un trattato,
Perspectiva
communis,
scarsamente originale, ma che mostra un’interessante testimonianza
della continuità degli interessi matematici e sperimentali della
scuola di Oxford.
Guglielmo
de La Mare vicino
al Pechkam, soprattutto per l’impegno della polemica antitomista,
fu maestro a Parigi e poi ad Oxford. Autore di un’opera polemica
verso Tommaso D’Aquino, il Correctorium
fra tris Thomae.
Matteo
d’Acquasparta (1240-1302)
è un fedele seguace dell’agostinismo di Bonaventura. E in tal
senso si spiega la sua concezione psicologica: l’anima è una
sostanza composta dei suoi principi essenziali, cioè di materia e
forma; l’anima è indipendente dal corpo nel suo operare; il
conoscere è un fenomeno attivo, anche nel suo momento sensibile.
A
questa concezione agostiniana dell’anima si ricollega la teoria
dell’illuminazione, che
mediante le rationaes aeternae fonda le certezze del conoscere: “dico
che pur essendovi nell’anima l’intelletto agente che fa ogni
cosa, e l’intelletto possibile che diviene ogni cosa, non è
tuttavia sufficiente; è infatti necessario un ulteriore e superiore
lume”.
Matteo nega quindi in maniera radicale ogni autonomia della ragione
naturale e critica la tesi della possibilità filosofica di una
creazione ab aeterno; così pure respinge la dottrina
dell’individuazione attraverso la materia per riaffermare che
l’individuazione è causata dalla composizione della materia e
della forma.
Pier
Giovanni Olivi (1248-1298)
rientra, con la sua speculazione, nella tradizione francescana. Al
centro della metafisica di Olivi sta la teoria della creazione
immediata, nel tempo e non ab aeterno; la composizione ilemorfica di
tutti gli esseri creati (anche delle sostanze spirituali), la
molteplicità delle forme. Inoltre, respingendo
l’individuazione tramite la materia, Olivi ritiene che la realtà
sia tutta individuale, così come individuale è per sé la forma che
si congiunge alla materia.
L’universale esiste solo nell’intelletto, il quale conosce
direttamente l’individuale. Tesi che l’Olivi sostiene in polemica
dei sostenitori dei filosofi pagani, i quali rutengono che
l’intelletto abbia per oggetto immediato solo l’universale.
Nell’Olivi
troviamo anche importanti tesi che si venivano facendo strada sulla
fine del duecento e che avranno notevoli sviluppi nella filosofia
francescana del XIV secolo. Queste
concezioni confutano alcune teorie della fisica ristotelica, ed
infatti egli afferma l’identità
della materia dei corpi terrestri e dei corpi celesti, nega la
distinzione tra moto naturale e moto violento, ed elabora il tema
dell’impetus,
secondo cui ogni moto è impresso dall’agente esterno al mobile, e
dura anche una volta cessata l’azione dell’agente: dottrina che
rompeva gli schemi della fisica aristotelica.
Nessun commento:
Posta un commento