sabato 26 maggio 2012

Il signore del sole maya: Kinich Ahau


Il sole, poiché veniva considerato come un aspetto di Itzamna, rappresentò la deità suprema. Secondo il Popol Vuh il titolo di divinità del sole dovrebbe toccare solo a Hunahpu, ma i Maya si preoccuparono sempre di rendere giustizia agli antenati.1
Senza le due divinità originarie Xmucane e Xpiyacoc, non ci sarebbe stato Hunahpu, pertanto tutto ciò che è venuto dopo deriva da essi. Anche per questo motivo alla dea Xmucane spetta il titolo di Signora della Luna e al suo sposo di dio del sole. Il sole costituiva per i Maya un astro di rilevante importanza, perchè grazie ad esso si sviluppava la vita. Il sole, per i Maya, era il generatore della vita, l’origine del divenire in generale e delle quattro stagioni. La rilevanza che assumeva il suo culto ci viene suggerita anche dal fatto che egli era il signore del numero quattro. Veniva rappresentato per mezzo di un fiore con quattro petali, e il profilo della sua testa veniva usato come variante di tale numero.2 Il quattro assumeva grande importanza, in particolare nel calendario solare: quattro portatori dell’ anno si danno il cambio nella signoria sull’anno Haab, il quale è il prodotto di quattro per 90 giorni. I noltre il quattro è il risultato della differenza tra i tredici cieli e i nove livelli degli inferi; infine, quattro sono i cieli, quattro i punti cardinali e quattro i colori sacri che vi vengono associati. Ricordiamo che il numero associato al dio del mais è l’otto, mentre il dio della pioggia viene assciato al sei. Le tre divinità sono quindi molto legate le une alle altre, in quanto il sole e la pioggia sono due elementi che non possono mancare affinché si abbia un buon granoturco. Le tre divinità hanno ciascuna dei compiti che non potrebbero essere espletati senza l’ aiuto dell’ altro dio successivo. Tutto questo porta ad una crescita numerica che diviene metafora del fluire della vita: dal quattro al sei, dal sei all’ otto, e quindi dal sole alla pioggia e da queste due al mais.3
Il suo ciclo giornaliero gli conferisce attributi contraddittori e ambivalenti: quando si innalza nel cielo è vita, fonte di luce, ordine e bene, quando si inabissa negli inferi diventa energia di morte, distruzione, e prende le sembianze del giaguaro. Nella iconografia classica viene rappresentato con grandi occhi quadrangolari e stra-bici, dente limato, lingua sporgente e zanne spilariformi agli angoli della bocca. A volte sulla fronte ha presente un simbolo simile al nostro otto, rappresentante il corpo di un serpente.4 Il dio solare è relazionato a molti animali che ne sintetizzano alcuni suoi aspetti sacri, come il giaguaro (sole morto del mondo sotterraneo), il cervo, il colibrì (il potere sessuale del sole), e l’aquila (l’aspetto guerriero del sole). Vi sono altri animali che entrano in contatto con questa divinità per discendere sulla terra e comunicare la sua natura divina ad alcuni uomini, inviare messaggi, ricevere offerte oppure solo per comunicare la comparsa dell’astro. Questi animali sono per la maggior parte uccelli: la gallinella selvatica, la gazza e l’ara. Nello Yucatan si pensava che in quest’ultimo animale si incarnasse il sole per scendere a Izamal e ricevere le offerte degli uomini. Questa città era dedita al culto di Itzamna, cosa che pertanto proverebbe l’identificazione delle due divinità. Nella sua relazione con la terra, il drago personifica sia la superficie terrestre sia la forza generatrice che essa racchiude, pertanto è connesso con le divinità della morte che vi risiedono, e naturalmente, con il giaguaro, che, come già detto, è portatore di una forte simbologia, in quanto personifica sia il sole morto che il mondo sotterraneo e il cielo notturno.
Nella stele di Copan esso viene raffigurato come un grande mascherone, a volte dai tratti scarniti, congiuntamente a simboli relativi all’acqua e al mondo vegetale. Nei testi coloniali è rappresentato sotto forma di grande caimano o di coccodrillo fantastico.

1 Cfr ibiem, pag. 61.
2 Cfr. ibidem.
3 Cfr. Martin Brennan, op. cit., passim.
4 Cfr Pietro Bandini, op. cit., pagg. 61-62.

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