venerdì 25 maggio 2012

Lo spazio sacro maya: il tempio


Il tempio, disegnato da un edificio collocato su un’alta torre non era una semplice struttura. Era la sede di una forza sovrumana, un luogo dove avveniva la discesa di un dio. Linda Schele e David Freidel, due delle massime autorità degli studi maya, scrivono nella loro monumentale opera “Una foresta di Re” che la stessa pratica di ricostruire una piramide su un’altra deve spiegarsi con il fatto che i Maya ritenessero che “quel luogo accumulasse potere con il passare del tempo. Una volta che la porta con l’Oltremondo era aperta ed erano stati definiti i punti di potere, il diaframma che separava i due mondi si assottigliava con l’uso frequente di questi luoghi di culto”1. Innalzare una piramide equivaleva, di fatto, per i Maya ad innalzare una sacra ceiba, il sacro albero che unisce e mette in comunicazione il mondo delle divinità, il mondo degli uomini ed il mondo dei defunti. La stessa piramide con la sua struttura sintetizza il suo ruolo di connessione fra i tre piani di esistenza. Sotto le fondamenta troviamo
la sepoltura del re defunto, il quale da qui si fa strada verso Xibalbà, il regno dei morti. Mentre il tempio si trova elevato sull’alta piattaforma, proprio a confermare la vicinanza con il cielo ed il mondo divino. Presso i Maya, inoltre, lavorare alla costruzione di un tempio era considerato un atto di devozione: gli operai gettavano in mezzo al materiale di riempimento le macine di mais, i pesi delle reti e alcuni oggetti personali della loro casa, come offerta agli dei ancestrali. Non è un caso che sotto la piramide poteva trovare sepoltura solamente il re di una città.2 Il sovrano infatti, scrivono Linda Schele e David Freidel, che

“era il perno e il vertice di una piramide umana, la vetta di un ordinamento gerarchico di famiglie che si estendeva fino ad inglobare tutti gli abitanti del regno, dal più nobile al più umile. La persona del re era il canale del sacro, la via di comunicazione con l’Oltremondo, il mezzo per entrare in contatto con i morti e quindi per sopravvivere con la morte stessa. Il re era colui che chiariva i misteri della vita quotidiana, della semina e del raccolto, della malattia e della salute, che utilizzava la sua conoscenza e la sua influenza per stipulare accordi commerciali vantaggiosi per il suo popolo e sapeva leggere nei cieli i segni che indicavano quando combattere e quando mantenere la pace. Il contadino, il muratore e l’artigiano potevano essere costretti a pagare un tributo al re, ma questi li ricompensava dei loro servigi offrendo loro una vita più ricca, più gradevole, più coerente. La popolazione attingeva ai benefici spirituali dell’intercessione del re presso il mondo soprannaturale e condivideva la ricchezza materiale che il suo successo portava alla comunità ”.3


Una così alta reputazione del sovrano non poteva non coincidere con un’altrettanta degna sepoltura. Ecco perché il sovrano, principio di vita con i suoi riti e autosalassi, veniva sepolto sotto la piramide. Questa agli occhi dei Maya era una vera e propria montagna artificiale in cui si convogliavano tutte le energie sacre del cosmo.I Maya chiamavano il tempio con la parola yotot “la casa di lui”, o anche ch’ul na, “edificio sacro”. Le porte di queste costruzioni riproducevano la bocca di un mostro, spesso un giaguaro, animale associato alla divinità del sole e rappresentante la terra. Piramidi e templi venivano spesso decorate con immagini di mostri witz.
I Maya in tal modo definivano tali edifici come montagne sacre, in quanto tale termine si traduce in montagna o collina4. Secondo questa metafora la porta del tempio è anche la caverna che, snodando il suo cunicolo, porta nel cuore della montagna. All’interno di questa caverna artificiale cresceva l’albero del mondo che contrassegnava il luogo della porta, sul modello degli alberi di ceiba che spesso spuntano all’ingresso delle caverne nel mondo naturale. Un gruppo di templi rappresentava pertanto una catena di montagne circondate dalla foresta. In tal modo lo spazio rituale sintetizzava e riproduceva gli elementi della natura sacra: la foresta, la montagna e la caverna.5

I Maya utilizzavano questi templi, da loro costruiti, allo stesso modo delle caverne naturali. Questi luoghi divenivano teatro del rito del salasso, il quale serviva a materializzare l’albero del mondo come via per raggiungere il soprannaturale.6
Per i Maya, la geografia del mondo umano comprendeva pianure, montagne, caverne, cenotes, fiumi, laghi e paludi, oltre alle località e agli edifici costruiti dall’uomo: città piccole e grandi, composte di case, palazzi, templi e corti per il gioco della palla. Linda Schele e David Freidel chiariscono che

“per i Maya, questo mondo era vivo e imbevuto di una sacralità che si concentrava soprattutto in alcuni punti speciali, come caverne e montagne. Lo schema fondamentale dei punti di forza era stabilito dagli dei al momento della creazione del mondo. In questa matrice di paesaggio sacro, gli esseri umani costruivano comunità che si fondevano con lo schema generato dalle comunità, creando nello stesso tempo un’altra matrice di punti di forza generata dall’uomo. Questi due sistemi erano considerati complementari, e non separati.[…]Il mondo degli esseri umani era collegato all’Oltremondo attraverso l’asse del wacah chan, che correva al centro dell’esistenza. Questo asse non era situato in un luogo terreno ben preciso, ma si poteva materializzare -grazie al rito- in qualsiasi punto del paesaggio naturale e umano. Ciò che più contava, era materializzato nella persona del re, che lo faceva esistere quando cadeva in trance, nelle visioni estatiche di cui godeva in cima alla piramide-montagna 7

Non bisogna comunque pensare che i Maya non sapessero che il tempio, le piramidi, i campi da gioco erano solo un edificio. La forza spirituale che ne derivava proveniva dai riti, dalle cerimonie, dai sacrifici ed dagli autosalassi. Solo in questo modo la dimora del dio diveniva luogo di incontro con l’altro, e solo con tutte le pratiche rituali le divinità sarebbero scese nel tempio e avrebbero ascoltato le richieste del popolo. L’efficacia mistica concentratesi nel tempio, e la sua conseguente apertura a portale verso l’altro era pertanto conseguente alla devozione umana. Ciò viene confermato dal monaco Diego De Landa quando scrive che

“[i Maya] sapevano perfettamente che gli idoli erano opera loro, cose morte e senza nessun potere divino, ma li veneravano per ciò che rappresentavano e perché li avevano costruiti con tante cerimonie[…]”.8

Lo spazio sacro, il tempio, permetteva all’uomo maya di potere entrare in contatto con gli esseri supremi e di potere dialogare con essi. Sebbene al tempo dei messicani la religione maya sia degenerata in un culto atrocemente sanguinario il tempio rimase sempre un luogo di rinnovamento fecondo della terra. Le religioni mesoamericane infatti furono sempre delle religioni di vita, di fertilità e di rinascita.9
1 Linda Schele-David Freidel, op. cit., pag. 136.
2 Cfr. ibidem, pag. 136.
3 Ibidem, pag. 110.
4 Il primo studioso ha individuare il glifo witz e ad interpretarlo come montagne è stato il dottore David Stuart. Cfr. Ibidem, pag 100.
5Ibidem., pag 73.
6 Ibidem, pag. 100.
7 Ibidem, pag. 74.
8 Diego De Landa, op. cit., pag. 130.
9Cfr. F. Jimenez del Olso, op. cit., pag. 20

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