Il
tempio, disegnato da un edificio collocato su un’alta torre non era
una semplice struttura. Era la sede di una forza sovrumana, un luogo
dove avveniva la discesa di un dio. Linda Schele e David Freidel, due
delle massime autorità degli studi maya, scrivono nella loro
monumentale opera “Una foresta di Re” che la stessa pratica di
ricostruire una piramide su un’altra deve spiegarsi con il fatto
che i Maya ritenessero che “quel luogo accumulasse potere con il
passare del tempo. Una volta che la porta con l’Oltremondo era
aperta ed erano stati definiti i punti di potere, il diaframma che
separava i due mondi si assottigliava con l’uso frequente di questi
luoghi di culto”1.
Innalzare una piramide equivaleva, di fatto, per i Maya ad innalzare
una sacra ceiba, il sacro albero che unisce e mette in comunicazione
il mondo delle divinità, il mondo degli uomini ed il mondo dei
defunti. La stessa piramide con la sua struttura sintetizza il suo
ruolo di connessione fra i tre piani di esistenza. Sotto le
fondamenta troviamo
la
sepoltura del re defunto, il quale da qui si fa strada verso Xibalbà,
il regno dei morti. Mentre il tempio si trova elevato sull’alta
piattaforma, proprio a confermare la vicinanza con il cielo ed il
mondo divino. Presso i Maya, inoltre, lavorare alla costruzione di un
tempio era considerato un atto di devozione: gli operai gettavano in
mezzo al materiale di riempimento le macine di mais, i pesi delle
reti e alcuni oggetti personali della loro casa, come offerta agli
dei ancestrali. Non è un caso che sotto la piramide poteva trovare
sepoltura solamente il re di una città.2
Il sovrano infatti, scrivono Linda Schele e David Freidel, che
“era
il perno e il vertice di una piramide umana, la vetta di un
ordinamento gerarchico di famiglie che si estendeva fino ad inglobare
tutti gli abitanti del regno, dal più nobile al più umile. La
persona del re era il canale del sacro, la via di comunicazione con
l’Oltremondo, il mezzo per entrare in contatto con i morti e quindi
per sopravvivere con la morte stessa. Il re era colui che chiariva i
misteri della vita quotidiana, della semina e del raccolto, della
malattia e della salute, che utilizzava la sua conoscenza e la sua
influenza per stipulare accordi commerciali vantaggiosi per il suo
popolo e sapeva leggere nei cieli i segni che indicavano quando
combattere e quando mantenere la pace. Il contadino, il muratore e
l’artigiano potevano essere costretti a pagare un tributo al re, ma
questi li ricompensava dei loro servigi offrendo loro una vita più
ricca, più gradevole, più coerente. La popolazione attingeva ai
benefici spirituali dell’intercessione del re presso il mondo
soprannaturale e condivideva la ricchezza materiale che il suo
successo portava alla comunità ”.3
Una
così alta reputazione del sovrano non poteva non coincidere
con un’altrettanta degna sepoltura. Ecco perché il sovrano,
principio di vita con i suoi riti e autosalassi, veniva sepolto sotto
la piramide. Questa agli occhi dei Maya era una vera e propria
montagna artificiale in cui si convogliavano tutte le energie sacre
del cosmo.I Maya chiamavano il tempio con la parola yotot
“la casa di lui”, o anche ch’ul na,
“edificio sacro”. Le porte di queste costruzioni riproducevano la
bocca di un mostro, spesso un giaguaro, animale associato alla
divinità del sole e rappresentante la terra. Piramidi e templi
venivano spesso decorate con immagini di mostri witz.
I
Maya in tal modo definivano tali edifici come montagne sacre, in
quanto tale termine si traduce in montagna o collina4.
Secondo questa metafora la porta del tempio è anche la caverna che,
snodando il suo cunicolo, porta nel cuore della montagna. All’interno
di questa caverna artificiale cresceva l’albero del mondo che
contrassegnava il luogo della porta, sul modello degli alberi di
ceiba che spesso spuntano all’ingresso delle caverne nel mondo
naturale. Un gruppo di templi rappresentava pertanto una catena di
montagne circondate dalla foresta. In tal modo lo spazio rituale
sintetizzava e riproduceva gli elementi della natura sacra: la
foresta, la montagna e la caverna.5
I
Maya utilizzavano questi templi, da loro costruiti, allo stesso modo
delle caverne naturali. Questi luoghi divenivano teatro del rito del
salasso, il quale serviva a materializzare l’albero del mondo come
via per raggiungere il soprannaturale.6
Per
i Maya, la geografia del mondo umano comprendeva pianure, montagne,
caverne, cenotes, fiumi, laghi e paludi, oltre alle località e agli
edifici costruiti dall’uomo: città piccole e grandi, composte di
case, palazzi, templi e corti per il gioco della palla. Linda Schele
e David Freidel chiariscono che
“per
i Maya, questo mondo era vivo e imbevuto di una sacralità che si
concentrava soprattutto in alcuni punti speciali, come caverne e
montagne. Lo schema fondamentale dei punti di forza era stabilito
dagli dei al momento della creazione del mondo. In questa matrice di
paesaggio sacro, gli esseri umani costruivano comunità che si
fondevano con lo schema generato dalle comunità, creando nello
stesso tempo un’altra matrice di punti di forza generata dall’uomo.
Questi due sistemi erano considerati complementari, e non
separati.[…]Il mondo degli esseri umani era collegato
all’Oltremondo attraverso l’asse del wacah chan, che correva al
centro dell’esistenza. Questo asse non era situato in un luogo
terreno ben preciso, ma si poteva materializzare -grazie al rito- in
qualsiasi punto del paesaggio naturale e umano. Ciò che più
contava, era materializzato nella persona del re, che lo faceva
esistere quando cadeva in trance, nelle visioni estatiche di cui
godeva in cima alla piramide-montagna 7”
Non
bisogna comunque pensare che i Maya non sapessero che il tempio, le
piramidi, i campi da gioco erano solo un edificio. La forza
spirituale che ne derivava proveniva dai riti, dalle cerimonie, dai
sacrifici ed dagli autosalassi. Solo in questo modo la dimora del dio
diveniva luogo di incontro con l’altro, e solo con tutte le
pratiche rituali le divinità sarebbero scese nel tempio e avrebbero
ascoltato le richieste del popolo. L’efficacia mistica
concentratesi nel tempio, e la sua conseguente apertura a portale
verso l’altro era pertanto conseguente alla devozione umana. Ciò
viene confermato dal monaco Diego De Landa quando scrive che
“[i
Maya] sapevano perfettamente che gli idoli erano opera loro, cose
morte e senza nessun potere divino, ma li veneravano per ciò che
rappresentavano e perché li avevano costruiti con tante
cerimonie[…]”.8
Lo
spazio sacro, il tempio, permetteva all’uomo maya di potere entrare
in contatto con gli esseri supremi e di potere dialogare con essi.
Sebbene al tempo dei messicani la religione maya sia degenerata in un
culto atrocemente sanguinario il tempio rimase sempre un luogo di
rinnovamento fecondo della terra. Le religioni mesoamericane infatti
furono sempre delle religioni di vita, di fertilità e di rinascita.9
1
Linda Schele-David Freidel, op. cit., pag. 136.
2
Cfr. ibidem, pag. 136.
3
Ibidem, pag. 110.
4
Il primo studioso ha individuare il glifo witz e ad
interpretarlo come montagne è stato il dottore David Stuart. Cfr.
Ibidem, pag 100.
5Ibidem.,
pag 73.
6
Ibidem, pag. 100.
7
Ibidem, pag. 74.
8
Diego De Landa, op. cit., pag. 130.
9Cfr.
F. Jimenez del Olso, op. cit., pag. 20
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