Martin
Hidegger (1889
– 1976) si laurea nel 1913 con una tesi su
La teoria del giudizio nello psicologismo,
pubblicata nel 1914. Nel 1915 pubblica il saggio La
teoria delle categorie e del significato di Duns Scoto.
Nel frattempo diviene docente a Friburgo. Qui conosce Husserl, di cui
diviene allievo. Nel 1927 pubblica il suo capolavoro,
Essere e tempo,
che eserciterà una larga influenza anche al di fuori delle correnti
propriamente esistenzialistiche. Nel 1928 prende la docenza di
Husserl e pubblica Che cos'è la
metafisica,
nel 1929. Dello
stesso anno sono Kant e il problema
della metafisica
e L'essenza del fondamento.
Nel 1933 aderisce al nazionalsocialismo e, nominato rettore
dell'università di Friburgo, pronuncia il discorso inaugurale sulla
Autoaffermazione dell'università
tedesca.
L'anno successivo, però, si dimette da rettore ed abbandona
definitivamente la vita politica. Nel 1950 pubblica Sentieri
interrotti;
nel 1942 La dottrina platonica della
verità;
nel 1943 L'essenza della verità; nel 1947 La
lettera sull'umanesimo;
nel 1953 L'introduzione alla
metafisica;
nel 1954 Che significa pensare?;
nel 1955 Il principio del fondamento;
nel 1957 In cammino verso il
linguaggio;
nel 1961 Nietzsche;
nel 1971 Il trattato di Schelling
sull'essenza della libertà umana.
Il
pensiero di Heidegger si forma all'interno di un ambiente fortemente
permeato dalla filosofia kantiana e dalla fenomenologia. Nonostante
ciò, già
in Essere e tempo, Heidegger matura un proprio personale pensiero che
offre una radicale trasformazione del concetto di uomo, di filosofia,
di esistenza e di Essere.
Heidegger,
infatti, ammette la concezione della limitatezza e finitudine
dell'uomo, ma, al contrario della filosofia kantiana e neokantiana,
afferma l'impossibilità di definire
tale limitatezza
fondandosi su rigide distinzioni e strutture quali quella di
senso,
di
intelletto,
di
ragione,
di
intuizione, di
concetto,
ecc.
Si
deve, quindi, accogliere le istanze della fenomenologia husserliana.
Ciò, però, non per descrivere e definire le “essenze”,
ma per ricercare anzitutto l'uomo, il quale è l'unico ente il cui
modo di essere è propriamente la ricerca. In altre parole, l'uomo è
l'unico ente, tra tutti gli enti che lo circondano e che possono
essere oggetto della sua ricerca, che
interrogando l'essere
interroga se stesso e viceversa.
L'uomo,
pertanto, si configura essenzialmente come esistenza, e non come una
organizzazione strutturale di facoltà o di disposizioni come
volevano le filosofie precedenti.
Ed infatti, l'uomo, mettendosi in questione, autointerrogandosi,
porta alla luce ed interpreta il senso dell'Essere e viceversa.
Heidegger,
quindi, pone l'attenzione sullo studio del rapporto che intercorre
tra i modi progettati e realizzati dall'uomo e il senso dell'Essere,
che si manifesta nell'esistenza. Di tale studio se ne occupa una
nuova scienza che prende il nome di analitica
dell'esistenza.
L'analitica
dell'esistenza ripropone, pertanto, nuovamente il problema
dell'essere, ma in una maniera del tutto nuova rispetto alle
metafisiche parmenidee ed hegeliane. Ed infatti, afferma Heidegger,
l'Essere non è mai oggetto o contenuto di conoscenza. L'esistenza,
infatti,
non è mai chiusa in se stessa, ma è sempre legata all'Essere in
maniera storica ed ontologica.
L'analitica
trascendentale prende le distanze anche da tutte quelle concezioni
trascendentali che pretenderebbero di poter rintracciare delle “forme
a priori”, e focalizza la propria attenzione sulle possibilità
dell'esistenza. Possibilità che si manifestano nel
tempo. L'esistenza si manifesta e si realizza in varie forme. Tra
esse una particolare importanza ha la forma della
morte, ossia il rapporto dell'uomo con la morte. Da essa, o, meglio
ancora, dalla sua “anticipazione”
si genera quel senso di angoscia.
L'angoscia non si definisce come un timore di fronte ad un qualcosa
di determinato, ma come ciò che si prova di fronte alla
consapevolezza del completo annientamento dell'esistenza. L'angoscia
si genera, quindi, da quella perenne minaccia che incombe sugli enti
e che fa scoprire nella morte la possibilità estrema e decisiva
dell'esistenza.
L'anticipazione
della morte, pertanto,
fa scoprire il senso autentico dell'esistenza, che si configura come
temporale e storica. L'esistenza, conseguentemente,
si scopre come tale nel momento in cui ci si rende conto che non è
qualcosa di impersonale, ma di un profondo
significato che si manifesta, che si svela nel momento in cui capiamo
che nessuno può morire al posto di un altro. Può sì morire per un
altro, ma non può in alcun modo sottrarre l'altro alla sua personale
e propria morte. La dimensione del tempo e della storia perdono
quelle caratteristiche impersonali e oggettive, e divengono in
Heidegger delle condizioni personali ed esistenziali.
Ed infatti, il tempo dell'uomo acquisisce un senso del tutto nuovo,
perché
tale tempo genera la propria storicità con l'anticipazione della
morte. Il sapere
di morire ci obbliga a prendere delle decisioni rispetto alla morte.
Il presente e il passato ci pongono il futuro come termine di
qualificazione significativa della nostra esistenza, perché
il futuro è quel limite insuperabile che si configura come
annientamento dell'esistenza.
L'angoscia
data dal senso del nulla e dell'annientamento non acquisisce
rilevanza solo per la comprensione dell'esistenza, ma incide anche
sul concetto che Heidegger sviluppa di verità.
Concetto che si configura in aperta polemica contro la logica
e la filosofia tradizionali. L'errore della logica tradizionale è
stato, afferma Heidegger, quello di considerare la negazione come una
semplice operazione del giudizio, mentre al contrario anche la più
semplice operazione logica
presuppone già la nozione del nulla, e, conseguentemente,
la presenza dell'angoscia. La critica verso la logica tradizionale si
viene a definire in Heidegger come critica verso tutta quanta la
metafisica occidentale sviluppatasi da Platone a Hegel, che ha
preteso di fondare il modello della verità nel giudizio come
rapporto tra soggetto e predicato.
Heidegger,
infatti, opera un rovesciamento del significato del mito della
caverna. Secondo tale mito, l'uomo si stacca dall'opinione e si
innalza alla verità quando si rivolge alle idee attraverso il
passaggio intermedio della matematica. Facendo ciò, Platone
introduce un concetto di verità come esattezza.
L'autentico concetto di verità è, invece, da ricercare nel termine
greco alètheia
= verità che vuol dire dis
– velamento,
e quindi disvelamento
dell'Essere.
La
posizione di Heidegger, però, si discosta da quelle tradizionali per
cui Dio si svela nella natura, nella storia e nella Scrittura.
L'Essere di Heidegger non può esser inteso né come il Dio
aristotelico, intelletto puro, né come il Dio creatore cristiano, né
come la sostanza spinoziana, né come lo Spirito hegeliano. L'Essere
heideggeriano è legato al concetto di nulla
e ha un destino, una storia connessa alla “differenza
ontologica”,
ossia alla differenza ineliminabile tra l'Essere e gli enti (le cose
finite e transeunti), continuamente minacciati dall'annientamento e,
quindi, condizionati dall'unità originaria di Essere e nulla.
L'errore
consiste
nel credere che gli enti abbiano un'essenza che è compito
dell'uomo andare ad individuare
e definire in proposizioni matematiche, scientifiche
o filosofiche. L'unico vero fondamento ontologico degli enti non è
la loro struttura determinata, ossia l'essere questa o quell'altra
cosa, ma il loro stagliarsi sullo sfondo dell'Essere, dal quale sono
sorretti e rispetto al quale verranno annientati. Per tale motivo
Heidegger dà molta importanza al detto di Anassimandro secondo cui
tutte le cose devono finire là dove hanno tratto origine.
La
concezione di verità offerta da Platone non ha interessato solo lo
sviluppo della storia della filosofia, della cultura e del sapere
dell'occidente, ma ha comportato
l'affermazione
del primato della tecnica nel mondo moderno.
Il
primato della tecnica è il risultato di un processo per cui l'uomo
ha dimenticato l'Essere e si è attaccato sempre di più agli enti.
Ciò ha fatto sì che la mente dell'uomo abbia rappresentato, abbia
reso presente e posto davanti
a sé la realtà come puro oggetto da dominare e sfruttare. Ciò ha
reso la tecnica come un qualcosa di totalitario a cui tutto va
sacrificato e subordinato.
Heidegger
ritiene che la storia non può dare garanzie di progresso. In ciò si
avvicina a Nietzche, da cui, però, si
discosta perché non auspica un “rovesciamento
dei valori”.
Non può auspicare ciò perché
il concetto stesso di valore è un concetto appartenente alla
metafisica platoniana. In altre parole, Nietzsche
è rimasto ancorato alle antiche prospettive umanistiche, e la sua
critica ai valori tradizionali
non ha comportato una critica al concetto stesso di valore. Ed è per
questo che la filosofia
di Heidegger non può essere considerata una filosofia umanistica
o esistenziale. Cosa questa che lui spiega in maniera chiara nella
sua Lettera
all'umanesimo.
Qui afferma che l'esistenzialismo non è altro che un rovesciamento
di una posizione metafisica, che tuttavia a sua volta è
ancora una posizione metafisica. Ed infatti, la filosofia greca aveva
posto a fondamento del suo sapere le essenze, a cui può aggiungersi
o meno l'esistenza. Per superare questo modo di pensare greco non
basta affermare il fondamento dell'esistenza. Ciò perché
è proprio la distinzione stessa tra essenza ed esistenza che deve
scomparire.
In
un quadro nichilistico di tale genere, dove, come dice lo stesso
Heidegger, sono scomparsi gli dèi del passato, ma ancora non si
intravedono quelli del futuro, l'unico spiraglio di luce si può
avere nella poesia,
o, in maniera generale, nell'arte, la quale è l'unico termine che
può rilevare la verità all'uomo.
Per
Heidegger l'arte si configura come il “porsi
in opera della verità”,
e non ha tutte quelle caratteristiche, predicate dalle filosofie
precedenti, di incontro intemporale o sopratemporale con una verità
in sé intemporale. L'arte, infatti, non è una rappresentazione
universale dell'essenza di una data realtà. Un tempio greco, per
esempio, non riproduce nulla, ma “si
erge, semplicemente, nel mezzo di una valle dirupata. Il tempio
racchiude la statua del dio e in questo racchiudamento protettivo fa
sì che attraverso il colonnato risplenda nel sacro recinto”.
Ciò
non significa che il tempio e la sua sacralità perdono di
significato. Ed infatti, è
nell'opera
d'arte
che la
verità si storicizza in un processo continuamente rivolto
all'interpretazione dell'uomo e
reale soltanto in essa.
Questo
pensiero diviene più comprensibile e chiaro se si pone l'accento
sulla concezione “ermeneutica”
dell'esistenza e della filosofia predicata da Heidegger.
L'ermeneutica nei secoli precedenti era stata la scienza che indicava
le leggi, le regole, le norme e i procedimenti per interpretare un
teso. Già nell'ottocento, però, la sua funzione si era allargata,
soprattutto grazie alle scienze dello spirito, a qualcosa di molto
più vasto, come l'interpretazione della storia, che, essendo sempre
diversa ed individuale, non può esser interpretare mediante leggi e
concetti generici ed universali, ma può essere soltanto compresa.
In
Essere e tempo l'importanza dell'ermeneutica diviene ancora più
incisiva perché
si giunge alla constatazione che le proposizioni e gli enunciati
della logica e di tutte le scienze sono possibili solo perché
vengono precomprese, ossia derivate
da forme di sapere e di parlare che ne anticipano i significati,
i quali, a loro volta, vengono definiti esatti o meno all'interno un
ambito circoscritto. Ciò significa che tali proposizioni sono
“derivate”
e non originarie e primordiali. L'esistenza, infatti, è sempre
storicamente collocata, e, pertanto, si trova sempre in una
situazione già data, in una situazione progettata e progettante; e
mai in una forma di sapere intuitivo o puramente speculativo. Da ciò
si ha la circolarità
dell'interpretazione.
Ciò non nel senso che l'ermeneutica cada in un “circolo
vizioso”,
ma anzi “in
esso si nasconde una possibilità del conoscere più originario,
possibilità che è afferrata nel modo più genuino solo se
l'interpretazione ha compreso che il suo compito primo ed ultimo è
quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza
e pre-coglizione dal caso, ma di farle emergere dalle cose stesse,
garantendosi così la scientificità del proprio tema...”
L'ermeneutica
è una scienza fondamentale e necessaria perché
la storia non è qualcosa di esterno al mondo, ma è il modo in cui
si realizza e costituisce l'esistenza e coinvolge lo stesso Essere
che nell'esistenza viene interrogato. L'essere, però, non ha né una
struttura logico – matematica né idee di tipo platonico, e per
tale motivo non può essere interpretato dalla dialettica e dalla
logica. L'Essere non ha alcun senso, se non quello che di volta in
volta si manifesta nell'esistenza, e, conseguentemente, il discorso
umano sull'Essere stesso non può avere altra regola e criterio del
proprio continuo sviluppo e confronto. Ora, il modello di un discorso
che non ha nessun criterio se non se stesso, è la poesia, la quale è
il modo in cui si manifesta e si rivela l'Essere. Un modo che è
discorso sempre per via, ossia mai concluso. Per tale motivo, il
linguaggio assume in Heidegger un'importanza ontologica sempre
maggiore. Ed infatti, è esso che ci permette di ascoltare
l'Essere, giacche
non è l'uomo a governare la storia dell'Essere, ma è piuttosto
l'Essere a governarla.
Quando
Heidegger parla di distruzione
della metafisica
non intende annientare e seppellire il passato. Ed infatti, Heidegger
vuole decostruire, destrutturare la metafisica, ossia portare alla
luce e alla consapevolezza quanto è stato nascosto nel corso della
storia del pensiero metafisico con l'oblio dell'Essere dai Greci a
noi. Per destrutturare e decostruire la metafisica bisogna percorrere
un cammino
a ritroso, mostrando come, sia pur in maniera inconsapevole
e inintenzionale, nello sviluppo del pensiero filosofico si siano
fatte valere le conseguenze del suo “inizio”
quale si è configurato in Grecia. Questo inizio
non è stato però un errore o una decisione arbitraria, bensì un
modo necessario di manifestarsi dell'Essere. Pertanto, la distruzione
della metafisica coincide con la ricostruzione di tutto ciò che è
rimasto impensato
nel corso del suo sviluppo storico.
Questo
discorso riporta alla concezione nichilista di Heidegger, il quale
distingue tra un
nichilismo inautentico
e un nichilismo
autentico.
Il primo trova spiegazione nel secondo, nel senso che i due termini
sono indissolubilmente legati e dialetticamente connessi. Ed infatti,
il nichilismo autentico ha comportato un oblio ed occultamento
dell'Essere e della differenza ontologica che non è casuale,
frutto di un errore o atteggiamento dell'uomo, ma che ha le sue
radici nella storia stessa dell'Essere.
L'odierna
situazione nichilistica dell'uomo (nichilismo inautentico, ossia
concepito come fenomeno culturale e, quindi, superabile) è, quindi,
ontologicamente fondata, perché
trova origine nel suo rapporto originario con l'Essere. Pertanto, può
essere superata soltanto con l'instaurazione
di un nuovo rapporto con l'Essere. Un rapporto
che sia diverso da quello che si è avuto in origine
con i Greci e che ha portato ad una metafisica che ha ridotto
l'Essere all'ente, la temporalità alla presenza. Ad
una metafisica da cui è scaturita
un'esistenza di dominio, che ha trasformato
la storia in giornalismo, quale prevaricazione assoluta
dell'attualità e sull'attualità.
Detto
ciò appare chiaro che perché
il nichilismo inautentico e quello autentico non sono un'alternativa,
ma due poli strettamente interconnessi tra loro e facenti parte della
processo
di svelamento
dell'Essere nella storia.
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