Soren
Kierkegaard
nasce a Copenaghen il 5 maggio 1813, di famiglia agiata, venne
educato in
un ambiente
fortemente pietistico. Muore a Copenaghen il 2 ottobre del 1855.
Kiekegaard
ha sintetizzato
il
suo pensiero filosofico-religioso in una interessante postilla dal
titolo Postilla
conclusiva non scientifica.
Tappe principali di questo itinerario sono Aut-Aut
(1843),
dove vengono chiariti
il momento estetico e il momento etico dell’esistenza; Timore
e tremore (1843),
dove viene discussa la peculiarità del momento religioso come
sospensione di quello etico; Il
concetto dell’angoscia
(1844), sulla funzione decisiva dell’esperienza del peccato per la
sfera dell’esistenza religiosa; le Briciole
di filosofia (1844)
sul problema socratico della comunicazione e insegnabilità della
verità; gli Stadi
sul cammino della vita
(1845), in cui viene approfondito il carattere peculiare della sfera
religiosa dell’esistenza. Seguono la Postilla
conclusiva non scientifica
(1846), opera volta a chiarire il senso della soggettività e
incomunicabilità della verità; La
malattia mortale (1849)
sulla disperazione come aspetto più profondo e insuperabile del
peccato e L’esercizio
del cristianesimo
(1850) denso di polemiche contro il pensiero religioso contemporaneo.
Importanti
anche le due
raccolte:
Discorsi
edificanti
(1843) e il grande Diario,
disamina
del suo pensiero degli anni che vanno dal
1834 al 1855. Tutto il pensiero di Kirkegaard vive nella tensione
tra due poli avvertiti tra loro come opposti e irriducibili; da un
lato si ha il Cristianesimo autentico, inteso come intervento di Dio
nella storia per la salvezza dell’uomo, e, più esattamente, di
ogni singolo uomo; dall’altro lato si ha la filosofia sistematica e
assoluta, di cui proprio il pensiero hegeliano è l’espressione più
coerente e significativa. Centro della sua filosofia è l’esistenza,
a cominciare da Aut-Aut.
Esistenza
che per Kierkegaard coincide con l’interiorità, che la filosofia
ha soffocato con l’erudizione. Kierkegaard polemizza contro la
filosofia del tempo che ha talmente dimenticato l’esistenza da
creare tutti quei malintesi irrisolti tra la speculazione filosofica
e il Cristianesimo. L’esistere non è un atto unitario o una
disposizione generica, bensì si articola secondo una scala di
possibilità e di stadi, ciascuno dei quali si oppone al precedente e
lo nega. Tra i diversi stadi non vi è mai però un passaggio
necessario, e in tal senso si può parlare di una dialettica
qualitativa
dell’esistenza,
ossia di una dialettica che procede per salti, non per passaggi
mediati come quell’hegeliana. La prima possibilità è quella di
vivere in modo estetico,
che a rigore non è una vera e propria possibilità di esistenza, in
quanto in questo stadio l’uomo non riesce a dominare le
contraddizioni e le passioni della propria esistenza. Nello stadio
estetico l’uomo vive sempre nel momento,
ed è perciò preda di una malinconia profonda e invincibile che si
conclude nella disperazione, che l’esteta cerca di occultare sotto
la maschera della gioia, della frivolezza e della perversità,
simboleggiate dalla figura del Dongiovanni. Lo stadio successivo è
quello etico
simboleggiato
dal matrimonio.
Mentre nel Dongiovanni la donna è soltanto
il momento,
nel matrimonio la bellezza
della donna cresce con gli anni,
ossia è la concezione del tempo e della sua funzione a cambiare
radicalmente. Lo stadio etico, infatti, si ha nella misura in cui il
tempo è posto a servizio della storia, ossia di una continuità
universale di azione, di intenti e di criteri. L’etica è quindi lo
stadio dell’universalità, dove la contraddizione è accolta e
riconosciuta per essere superata. L’individuo, infatti,
sottoponendosi ad una regola e ad un fine trionfa sulla passione
illusoria e incostante, e, quindi anche sulla disperazione. Alla fine
si ha lo stadio religioso,
dove
la serenità raggiunta in quello etico viene bruscamente infranta. Lo
stadio religioso è simboleggiato da Abramo e dalla sua esperienza
tremenda
che attesta il carattere paradossale
della fede. Carattere paradossale che si sintetizza nella sospensione
dell’etica, il singolo, infatti, si trova con questo stadio al di
sopra dell’universalità della legge morale, perché si trova in un
rapporto assoluto con Dio. La situazione di Abramo è infatti del
tutto diversa a quella della tragedia greca, dove
l’eroe opera sì in un contrasto di doveri, ma dove si trova ancora
ad operare su un piano etico, in quanto subordina un precetto morale
ad uno più alto. Ad Abramo viene, invece, chiesto il sacrificio del
figlio Isacco in maniera assurda e assolutamente insostenibile. Tale
episodio biblico dischiude il senso fondamentale del rapporto
religioso come contraddizione assoluta rispetto a tutto ciò che è
immanenza e razionalità. Nello stadio religioso notevole importanza
riveste l’analisi del concetto di angoscia.
Poiché la religione svincola dall’immanenza e razionalità etica,
da tale orrenda
liberazione
si ha il peccato. L’angoscia
non nasce dalla trasgressione momentanea o occasionale di questo o
quel precetto, ma è il punto di partenza dell’esistenza religiosa.
Quindi l’esistenza religiosa in quanto è condizionata dal peccato,
ha come condizione fondamentale l’angoscia. L’angoscia non è il
timore verso qualcosa di determinato, ma è il timore verso il nulla,
ma a differenza della filosofia hegeliana che ha nel nulla un momento
fondamentale della dialettica, in Kierkegaard l’angoscia di fronte
al nulla è una sorta di vertigine
insuperabile, connessa alla libertà. La libertà
non deve essere intesa in maniera riduttiva come scelta tra un bene o
un male, ma come un qualcosa di più profondo e cioè la possibilità
infinita
di
potere
(possibilità
di potere che ci rende liberi di peccare o di darci alle tentazioni).
Ora, l’uomo con questo potere si contrappone a Dio.
Kierkegaard
rifiuta l’interpretazione del peccato originale come un qualcosa
compiuto da Adamo e poi ereditato dal genere umano, infatti, se fosse
veramente così il peccato sarebbe un qualcosa di esteriore e
anteriore alla storia del genere umano e dell’uomo. Il peccato
originale è invece un qualcosa di inseparabile dall’esistere del
singolo davanti a Dio, dal suo essere non-verità rispetto a Dio che
è verità. Pertanto, non vi è alcuna differenza tra il peccato di
Adamo e il peccato di ogni altro uomo. Il rapporto con Dio è perciò
un rapporto paradossale e impossibile, e i due termini non possono
mai essere conciliati mediante passaggi logici, ma solo mediante la
fede in senso cristiano. Il momento più paradossale è dato dal
fatto che la nascita e morte di Cristo ha fondato una verità
universale. Infatti nessun fatto storico può fondare delle verità
universali, ma questo non vale nel caso della passione di Cristo che
è un fatto
assoluto.
L’interpretazione esistenziale del cristianesimo e la concezione
cristiana dell’esistenza comportano il rifiuto del sapere
sistematico in campo filosofico-religioso e la rivendicazione del
carattere soggettivo del pensiero autenticamente umano. Il pensiero
oggettivo pretende infatti di risolvere il singolo nella specie,
l’individuo nel genere e di attingere verità universali e
necessarie identiche per tutti, ma perciò stesso non pertinenti ne
significative per nessuno in particolare. Il pensiero soggettivo,
invece, nasce e vive nello sforzo di comprendere non l’essenza
universale dell’uomo, ma la sua esistenza individuale e per ciò
nasce e vive dalla contraddizione e nella
contraddizione. Di qui, in fondo, il contrasto tra il pensiero
speculativo che intende la verità come oggettività e il pensiero
cristiano che intende invece la verità come paradosso dell’esistenza
in rapporto con Dio. Di qui ancora la ripresa da parte di
Kierkegaard, del tema secondo cui la verità non è propriamente
insegnabile né comunicabile, giacché la verità autentica non è
questo o quel sistema di argomentazioni che si possano provare o
dimostrare, ma è il manifestarsi di Dio all’uomo in un processo
effettivo di salvezza.
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