martedì 10 luglio 2012

Friedrich D.E. Schleiermacher


Nasce in Breslavia nel 1768. Il suo primo scritto prende il titolo di Sulla religione: Discorso alle persone colte che la disprezzano, seguiti dai Monologhi. Nel 1803 si hanno i Lineamenti fondamentali di una critica dell’etica fino ad oggi. Infine, si hanno i due volumi de La dottrina della fede. Muore a Berlino nel 1834.
Nella sua formazione incidono interessi teologici, filologici e filosofici. Forti furono gli influssi di Spinoza, Kant, Jacobi, Fichte e Schelling, oltre che dell’antico Platone. Collaborò con lo Schlegel e insieme a lui sperava in un forte rinnovamento spirituale che desse largo spazio all’immaginazione e al sentimento. Schleiermacher fa valere questa esigenza soprattutto in campo religioso: si tratta, infatti, di uno sforzo grandioso di rivendicare la peculiarità e l’irriducibilità della dimensione religiosa nella vita spirituale dell’uomo, in polemica contro ogni tentativo riduzionistico di fondarla su argomenti metafisici o morali. Tanto la conoscenza quanto l’azione, tanto la metafisica quanto la morale, portano infatti necessariamente ad una visione parziale, frammentaria, inadeguata della realtà nella sua infinità e universalità. Soltanto la religione, mediante il sentimento, è in grado di consentire un’intuizione dell’universo nel quale l’uomo o, meglio, l’individuo, si sente dipendente dal Tutto, ma non si risolve né si dissolve in esso. Schleiermacher riserva grande spazio alla natura e al rapporto con essa; ciò perché la natura agli occhi della religione si dischiude come totalità infinita, dove ogni essere finito è espressione del divino. Schleiermacher, inoltre, rompe con la concezione di volere fondare la religione su una rivelazione storica o positiva avvenuta una volta per tutte e affidata ad un singolo testo sacro; si deve, invece, ammettere una rivelazione continua di cui tutte le religioni sono manifestazioni.
Rimane così peculiare nel suo pensiero filosofico la distinzione dell’etica in tre arti fondamentali: la dottrina della virtù, quella del dovere e quella del bene e del male, considerate non soltanto da un punto di vista teoretico ma anche nel loro sviluppo storico. Egli sottolinea, infatti, che la dottrina dei beni nel suo rapporto con il problema politico e pedagogico ha trovato attenzione già a partire da Socrate. Si deve quindi riprendere il concetto di sommo bene che è andato perduto nella sua sostanza nell’età moderna. Questa sua riflessione polemizza contro la concezione morale di Kant e di Fichte, tacciata di uno sterile formalismo. È fondamentale, in un discorso etico, il riconoscimento della funzione determinante della individualità dell’essere umano rispetto all’astrattezza dell’universalità. Il sommo bene non va inteso quindi come un qualcosa di comparativo, bensì indica la pienezza della vita etica come qualcosa di organico capace di integrare ragione e natura. In maniera più specifica, mentre la virtù e il dovere sono limitati alla singolarità dell’uomo e dell’azione morale, il sommo bene riguarda i rapporti con se stessi e con tutti gli altri. Proprio per tale motivo il sommo bene si concretizza nella Chiesa, nello Stato e nelle comunità scientifiche, e qui si fa spazio l’utopia di questo filosofo: l’uomo, nel suo operare nell’universale, deve trasformare la natura in un simbolo che esprima la sua vitalità e la sua presenza in modo da poter organizzare un mondo nel quale la collaborazione tra gli uomini porti alla pacifica convivenza tra uomo e natura. Riguardo all’interpretazione delle Sacre Scritture, il processo esegetico si deve sviluppare secondo due linee: una grammaticale e l’altra psicologica. Nel primo caso bisogna leggere il testo da un punto di vista linguistico appartenente al periodo storico preso in esame, cosicché da poter avere delle regole costanti e oggettivabili a cui potersi attenere. Il secondo caso prevede che il testo venga ricondotto alla sua originaria intenzionalità di significato; ciò permette di potere comprendere un autore ancor meglio di quanto lui stesso possa essere in grado di fare. Il processo ermeneutico, quindi, è un processo circolare, per cui l’interpretazione della parte va riferita al tutto e, viceversa, il tutto alla parte.

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