Kant nasce a
Konigsberg il 22 aprile del 1724 da una famiglia di carattere
pietista. La sua formazione è di stampo illuministica e wolffiana.
Iscrittosi all'università della città nativa, studia matematica e
fisica. Nel 1755 consegue il dottorato con lo scritto dal titolo De
igne, e, nel medesimo anno, ottiene la libera docenza con il
testo dal titolo Nuova illustrazione dei primi principi della
conoscenza metafisica. Qui viene esaminata la possibilità della
costruzione di una metafisica come scienza, partendo dalla
metodologia sviluppata da Newton. Sempre del 1755 è il saggio Storia
generale della natura e teoria del cielo, che presenta una
spiegazione di tipo meccanico della formazione dell'universo in linea
con il sistema fisico newtoniano. Dell'anno seguente è il
Monadologia fisica. Del 1763 è L'unico argomento possibile
per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, e del 1764 è il
Saggio sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e
della morale. Qui viene operata una distinzione tra matematica e
filosofia: la prima è una costruzione che opera per via di sintesi;
la seconda è, invece, un'analisi degli elementi degli oggetti che
sono dati. Del 1766 è lo scritto Sogni di un visionario chiariti
con i sogni della metafisica, dove Kant afferma l'impossibilità
della conoscenza di essenze. La conoscenza di essenze, infatti, può
avvenire solo in maniera negativa. Ciò, ovviamente, chiarisce i
limiti stessi della conoscenza umana. Conseguentemente la
metafisica ha senso unicamente come scienza dei limiti
della ragione umana.
Nel 1781 si ha la
pubblicazione della Critica della ragion pura. Nel 1783 esce
una sintesi di quest'opera di più agevole lettura dal titolo
Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come
scienza. Nel 1786 escono i Principi metafisici della scienza
della natura e nel 1787 la II edizione della Critica della ragion
pura. Del 1788 è, invece, la Critica della ragion
pratica, e del 1790 la Critica del giudizio. Nel 1793 esce
La religione nei limiti della semplice ragione. Questo scritto
viene ammonito dal governo prussiano, ma con la morte di Federico
Guglielmo II nel 1797, Kant può continuare liberamente i propri
studi. Il nostro filosofo muore a Konigsberg il 12 febbraio del 1804.
La filosofia di Kant
è un criticismo finalizzato allo studio e all'esame delle
possibilità e dei limiti conoscitivi della ragione umana. Ed
infatti, kant scrive che per evitare la costruzione di un falso
sapere bisogna attuare “un richiamo alla ragione affinché
assuma nuovamente il più arduo dei suoi compiti, cioè la conoscenza
di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste
pretese, ma tolga di mezzo le pretese senza fondamento, non certo
arbitrariamente, bensì in base alle sue leggi eterne ed immutabili;
e questo tribunale altro non è se non la critica della ragion pura”.
Per Kant, ogni
nostra conoscenza scaturisce dai sensi. La conoscenza, però, deve
possedere i caratteri di universalità e necessarietà. Bisogna,
quindi, vedere come i dati dell'intuizione sensibile vengono
organizzati per avere un siffatto sapere. Ora, poiché il sapere a
posteriori, empirico, non ha il carattere di universalità e
necessità, bisogna vedere se è possibile avere dei giudizi a
priori, che hanno quei caratteri di universalità e necessità di cui
abbiamo detto. Pertanto, la filosofia kantiana si configura come
una filosofia trascendentale, nel senso di ricercare i fondamenti a
priori (universali e necessari) della conoscenza umana. Lo studio
di Kant, quindi, non riguarda la conoscenza di oggetti o di fenomeni
naturali, bensì lo studio di quelle condizioni a priori che rendono
possibile la realizzazione di una conoscenza sicura e scientifica. Si
tratta, anche, di vedere se è possibile la costruzione di una
metafisica come scienza, o se, invece, un tale intento è
irrealizzabile perché la ragione stessa nel suo operare non può
realizzarlo. Ciò spiegherebbe perché la metafisica non ha mai
raggiunto lo statuto di scienza.
I limiti e le
possibilità della ragione vengono studiate nella Critica della
ragion pura. Qui viene operata una distinzione tra giudizi
analitici e giudizi sintetici.
I giudizi analitici
sono soltanto esplicativi, e cioè non aggiungono nulla alla nostra
conoscenza di un dato oggetto, perché nel predicato è già detto un
qualcosa dell'oggetto dato. In questo caso basta ricorrere al
principio di non – contraddizione per capire se il giudizio
è valido o meno. Pertanto, la logica formale non viene rifiutata da
Kant, e il principio di non – contraddizione, di
identità e del terzo escluso rimangono validi, ma solo
all'interno della logica tradizionale. Tale logica, però, indica
soltanto le condizioni necessarie ed indispensabili, ma non
sufficienti, per spiegare il carattere universale della conoscenza.
Il principio di non
– contraddizione è la prerogativa sufficiente per stabilire la
veridicità di un giudizio analitico, ma non basta per un giudizio
sintetico. Un giudizio che aggiunge un qualcosa non compreso nel
concetto.
I giudizi analitici
sono tutti a priori, universali e necessari, ma proprio perché il
predicato non aggiunge nulla di nuovo al soggetto, non sono estensivi
della nostra conoscenza. I giudizi sintetici sono, invece, estensivi
del nostro conoscere perché il predicato aggiunge qualcosa al
soggetto, ma se tutti i giudizi fossero a posteriori, la nostra
conoscenza non potrebbe essere universale e necessaria. Vi sono,
pertanto, dei giudizi sintetici a priori, che oltre ad aggiungere un
qualcosa al soggetto, garantiscono la validità scientifica
dell'affermazione. La prova dell'esistenza dei giudizi sintetici a
priori ci viene data dalla matematica, i cui giudizi sono sintetici a
priori perché risultano da una costruzione a priori. Ad esempio, 7 +
5 = 12. In questa unione di due numeri non si ha nulla che mi indica
il risultato finale, che viene raggiunto mediante una costruzione
intuitiva. È vero, però, che mediante l'analisi possiamo risalire
agli elementi costitutivi della somma. Ciò, però, non significa che
per via analitica possiamo giungere al totale dell'addizione.
L'intelletto,
pertanto, è in grado di giungere a dei giudizi sintetici a priori.
Kant, però, giunto a questo punto, si chiede dove è lecito
applicare tali giudizi. Per rispondere a ciò opera una critica delle
facoltà conoscitive dell'uomo, e cioè della sensibilità,
dell'intelletto e della ragione. Questi studi prendono il nome di
estetica (àisthetis: sensazione) trascendentale,
analitica trascendentale e dialettica trascendentale.
Trascendentale indica che lo studio interessa le facoltà e non gli
oggetti e i fenomeni, e cioè il contenuto, bensì la forma, ossia la
struttura interna dell'intelletto che permette la costruzione di un
sapere valido.
Nell'estetica
trascendentale Kant chiarisce che lo spazio e il tempo non sono
realtà assolute o dati empirici, bensì intuizioni pure a priori, e
cioè condizioni a priori della sensibilità. Lo spazio e il tempo
sono le forme che permettono la conoscenza. Ciò significa che non
potremmo conoscere nulla senza il nesso spazio – tempo. In altre
parole, queste due forme non sono ricavabili dall'esperienza. L'uomo,
quindi, è capace di esperienza e di rappresentarsi le cose esterne e
accostarle le une accanto alle altre perché possiede dentro il
proprio intelletto la forma di spazio. Stessa cosa vale per il tempo,
che non è ricavabile dall'esperienza, ma che permette, invece, di
avere le rappresentazioni in maniera simultanea o successiva.
Vi è, comunque, un
primato della forma del tempo su quella di spazio, ciò perché tutte
le rappresentazioni appartengono al nostro stato interno, alla nostra
coscienza che si snoda in una successione temporale. Da queste due
forme a priori si possono ricavare varie scienze
sintetiche, come la matematica che è una costruzione pura attuata
mediante le intuizioni pure di spazio e tempo.
Kant opera una
distinzione tra la sensibilità e l'intelletto.
La sensibilità è
quella facoltà che recepisce le rappresentazioni, mentre
l'intelletto è la facoltà che le pensa. Ovviamente, senza
sensibilità non ci sarebbe dato nessun oggetto, e senza intelletto
nessun oggetto sarebbe pensato. Conseguentemente, solo dall'unione di
sensibilità ed intelletto si può avere la conoscenza. L'intelletto
è, pertanto, la facoltà del pensiero, e cioè del giudicare.
Nell'uomo, infatti, pensare significa predicare qualcosa di qualche
altra. Detto ciò, ne consegue che l'intelletto è la facoltà dei
giudizi, che Kant studia nell'analitica trascendentale. In questa
parte della Critica della ragion pura vengono studiati i concetti
puri, ossia le categorie. Queste altro non sono che funzioni logiche,
e cioè i modi in cui l'intelletto organizza le funzioni. Anch'esse
hanno il carattere di essere a priori e formali. E cioè le categorie
non sono ricavabili dall'esperienza, ma è quest'ultima che si rende
possibile mediante esse. Le categorie di Kant sono funzioni logiche e
sono totalmente differenti dalle categorie aristoteliche, che avevano
un carattere classificatorio e realistico (nel senso che pretendevano
di rispecchiare la realtà).
Per Kant vi sono
quattro forme di giudizi fondamentali, ed ogni forma si divide in tre
momenti, a cui corrisponde una categoria, con il risultato di dodici
categorie:
Giudizi |
Categorie |
1.
Quantità Universalità Particolari Singolari |
Unità Pluralità Totalità |
2.
Qualità Affermativi Negativi Infiniti |
Realtà Negazione Limitazione |
3.
Relazione Categorici Ipotetici Disgiuntivi |
Inerenza e sussistenza substantia et accidentis Causalità e dipendenza causa ed effetto Reciprocità azione reciproca tra agente e paziente |
4.Modalità Problematici Assertori Apodittici |
Possibilità – impossibilità Esistenza – inesistenza Necessità – contingenza |
La molteplicità
delle categorie non deve indurre a pensare che l'intelletto abbia
funzioni tra loro indipendenti. Le categorie, infatti, sono
articolazioni di un'unica funzione fondamentale che Kant chiama
appercezione trascendentale o Io penso.
Giunti a tal punto,
bisogna chiarire il concetto di rivoluzione copernicana che
Kant dice di aver operato. Egli, infatti, afferma che non si è
riusciti a giungere ad una scienza universale e necessaria perché si
è creduto che dovesse essere l'uomo a piegarsi agli oggetti. Questo
modo di procedere, però, è stato inconcludente e bisogna percorrere
il cammino inverso, e cioè debbono essere gli oggetti che a
regolarsi alla nostra conoscenza, a doversi conformare ai principi a
priori che fondano il nostro conoscere, alla modalità di
funzionamento del nostro intelletto, e cioè spazio – tempo e
categorie.
Ma come si applicano
le categorie, che sono concetti puri, all'esperienza? Kant risolve il
problema ricorrendo alla deduzione, che egli chiama trascendentale.
La deduzione trascendentale supera la totale diversità tra le
categorie o concetti puri e i dati esperienziali mediante un terzo
elemento intermedio, ossia il tempo. Il tempo, infatti, è sia a
priori, perché è una forma universale, sia a posteriori, perché è
implicito in ogni rappresentazione del molteplice. L'applicazione
delle categorie ai fenomeni è possibile mediante gli schemi
trascendentali, che sono facoltà intermedie fra intelletto e
sensibilità. Kant, però, ci invita a non confondere gli schemi con
le immagini. Se, per esempio, disegno cinque punti l'uno dietro
l'altro, allora ho un'immagine del numero cinque. Se, però, penso al
numero mille, non posso avere un'immagine di questo numero perché
non posso rappresentarmi questa molteplicità. In questo caso ho uno
schema trascendentale, cioè un metodo con cui il mio intelletto
opera. Ovviamente, vi saranno tanti schemi trascendentali quanto le
categorie. Per esempio, per la categoria di causa, ho lo schema
trascendentale di successione. L'intelletto conosce gli oggetti se
sono dati dall'esperienza, se si presentono come dati o fenomeni. Non
possiamo avere conoscenza della cosa in sé (noumeni),
cioè non possiamo conoscere oggetti dati solo dall'intuizione
intellettuale, senza alcun rispettivo confermato dall'esperienza. Il
concetto di noumeno, afferma Kant, è un concetto problematico perché
da un lato non è contraddittorio pensare una cosa non data dei
sensi, e cioè in sé, unicamente tramite l'intelletto, perché non è
detto che la sensibilità costituisca l'unica maniera di conoscenza;
dall'altro, però, il noumeno assume un valore negativo, cioè di
concetto limite, perché indica il limite del conoscere scientifico,
universale e necessario, che deve conformarsi solo ai dati esperiti
tramite l'esperienza.
Ciò non significa
che la metafisica sia semplicemente una deviazione della mente, una
superstizione o una fantasticheria, bensì è il risultato di un
processo inevitabile ed insopprimibile della ragione umana. Per
ragione non si intende la facoltà del pensare o del formulare
giudizi, bensì la facoltà delle idee. Le idee, infatti, sono
concetti puri come le categorie, ma a differenza di queste non hanno
un valore conoscitivo, bensì regolativo. Le categorie
consentono la formulazione di giudizi sintetici; le idee rispondono,
invece, all'esigenza della mente umana di superare i limiti propri
della conoscenza scientifica per trovare un principio
incondizionato, che unifichi tutte le condizioni generali. Le
idee tendono, pertanto, alla sistematicità. Questo principio
unificante non avviene in ogni direzione, ma soltanto in tre,
corrispondenti a tre parti della metafisica: psicologia
(anima), cosmologia (mondo) e teologia razionale (Dio).
Da un lato, quindi,
la ragione tende a superare le condizioni del conoscere scientifico
per tendere all'incondizionato; nel fare ciò, però, la ragione si
avventura in discussioni sofistiche sterili prive di valore
dimostrativo. Dalla ragione si sviluppa, pertanto, la dialettica,
che, in quanto è studio delle forme pure della ragione, diviene
dialettica trascendentale. La metafisica, però, non può mai
raggiungere lo statuto di scienza, ed infatti, la ragione non può
mai attingere conoscenza di realtà puramente pensabili (noumeni), ma
solo di quelle date dall'esperienza (fenomeni). Nonostante ciò,
però, la metafisica rimane un'esigenza insopprimibile della ragione
umana. Anche se nella ricerca di un'unità incondizionata si cade in
paralogismi, ossia in ragionamenti apparentemente corretti, ma
sostanzialmente sbagliati. Ciò accade quando riconduciamo il
soggetto pensante a sostanza spirituale o anima, adducendo
argomentazioni provanti l'immortalità e la spiritualità dell'anima.
Più complessa è l'argomentazione cosmologica, dove abbiamo quattro
antinomie, ossia quattro contraddizioni formulate nel modo seguente:
Tesi: il mondo ha un
inizio temporale e ha un limite spaziale;
Antitesi: il mondo
non ha un inizio temporale e non ha un limite spaziale;
Tesi: ogni sostanza
è formata da parti semplici ed esiste solo il semplice e non ciò
che è composto;
Antitesi: nessuna
cosa è formata da parti semplici.
Tutte queste
proposizioni sono false, perché non possono essere validitate
dall'esperienza.
Stesso discorso vale
per le seguenti antinomie:
Tesi: la causalità
non esiste, e tutto è frutto di un processo di totale libertà;
Antitesi: il mondo
si esplica secondo ferree leggi causa – effetto;
Tesi: Nel mondo si
ha un Essere aoolutamente necessario;
Antitesi: nel mondo
non esiste un Essere assolutamente necessario.
Per
quanto riguarda l'esistenza o meno di Dio, Kant afferma che la prova
che ha trovato più seguito nel corso dei secoli è quella
ontologica,
e cioè l'idea di Dio è quella di un essere necessario, che in
quanto tale non può non esistere. L'esistenza, però, è una
determinazione
che si aggiunge al soggetto, e che non può essere in alcun modo
contenuta nel suo concetto. Negare l'esistenza di Dio non è
contraddittorio, perché
il giudizio di esistenza non è analitico, bensì
sintetico. Ora, proprio perché
il giudizio di esistenza è sintetico, il semplice concetto o
definizione di una cosa non comprende la sua esistenza. L'esistenza,
infatti, non può essere trovata analiticamente nel concetto.
Pertanto, posso avere l'idea di cento talleri, ma ciò non significa
che li abbia realmente. Per tale motivo l'argomento ontologico, che
deduce l'esistenza di Dio dalla sua definizione, non è valido; così
come l'idea di una quantità di denaro non comporta di possedere
realmente quel denaro. Appare chiaro, quindi, che le idee
trascendentali non possono avere valore costitutivo, cioè non
possono fornire concetti veri, essere produttrici di conoscenza
scientifica; hanno, però, un valore regolativo, ed, infatti,
orientano verso l'unità i concetti dell'intelletto. La Critica della
ragion pura si conclude dopo aver fatto una completa disamina delle
funzioni e dei limiti delle tre facoltà dell'uomo, ossia senso,
intelletto, ragione e con la rinuncia della possibilità di una
metafisica come scienza.
La
Critica della ragion pratica
studia il mondo morale. Essa parte da una prima constatazione, ossia
quella della presenza nell'uomo di una legge morale. Questo è un
fatto inspiegabile se si ricorre soltanto ai dati sensibili e si
rimane all'interno dell'ambito della ragione. La legge morale si
presenta all'uomo con un imperativo che comanda categoricamente. Kant
opera una distinzione ben precisa tra imperativo
ipotetico
ed imperativo
categorico.
L'imperativo
ipotetico comanda un'azione in vista di un fine estrinseco ed è
condizionato rispetto al fatto che si voglia o meno quel fine;
l'imperativo categorico, invece, è la legge del dovere, che
non determina l'azione in vista di questo o quel fine, bensì
determina la volontà a priori prescrivendo la norma, il modo, la
forma della nostra azione. Questa norma obbliga l'uomo ad obbedire
alle prescrizioni della nostra ragione. Agire secondo ragione è,
dunque, la norma morale fondamentale. Ora, poiché la ragione è
universalità, l'agire morale si colloca in una sfera di razionalità
e di universalità in cui si trovano tutti gli spiriti razionali.
La
norma morale, quindi, afferma che il nostro agire, in quanto
razionale, è universale. Da ciò consegue la massima di Kant:
“agisci
secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga
una legge universale”.
Per massima si intende il principio
soggettivo dell'agire, mentre per legge il principio oggettivo valido
per ogni essere razionale. Kant offre altre due formule
dell'imperativo categorico, e cioè: “agisci
come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua
volontà a legge universale della natura”
e “agisci
in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella
di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo”.
Con queste tre formule Kant sottolinea con la prima il carattere
universale della legge morale, con la seconda l'autonomia della
ragion pratica nella legge morale, ed infatti la volontà si afferma
come indipendente da ogni interesse particolare empirico,
istituendosi,
pertanto, come veramente universale; con la terza indica il fine.
L'imperativo
categorico si identifica con la legge morale e non può comandare
cose particolari, perché
altrimenti
cadrebbe nell'empirismo o nell'utilitarismo. La legge morale è legge
morale perché
si identifica con la razionalità, e,
appunto perché
si identifica con la razionalità è universale. La legge morale
richiede di essere rispettata in quanto tale, e da ciò scaturisce la
legge kantiana del “devi
perché
devi”.
Da
ciò consegue il formalismo
morale
kantiano, ossia morale non è ciò che si fa, ma l'intenzione con cui
lo si fa. La morale ha la sua essenza nell'adeguazione della volontà
alla legge morale, che, a sua volta, istituisce il regno dei fini:
una comunità in cui ogni persona è libera, parimenti dignitosa,
e ossequiante
delle leggi morali.
La libertà è la condizione stessa della morale, la quale, nel
momento in cui prescrive il dovere, presuppone anche che si possa
agire o meno in conformità ad esso e quindi che si sia liberi. Kant
esprime tale postulato con la breve formula: “Tu
devi, quindi puoi”.
La
ragion pratica, oltre alla libertà, scopre l'immortalità
dell'anima
e l'esistenza
di Dio.
La legge morale indica il sommo
bene,
che, però, non può mai essere raggiunto da un essere razionale
sensibile, ma costituisce il termine ultimo di un progresso
all'infinito con la finalità del raggiungimento del bene completo o
sommo. Ma un processo all'infinito è possibile solo in base al
presupposto di un'esistenza che prosegue all'infinito, e, quindi,
postulando l'immortalità dell'anima. Inoltre, il sommo bene richiede
una proporzione tra la felicità e la moralità. Una tale
proporzione, però, manca nel mondo terreno, e, conseguentemente,
bisogna postulare l'esistenza di Dio, di un essere che sia garante
del rigoroso
s
accordo tra felicità e moralità.
Dai
risultati della Critica della ragion pura e della Critica
della ragion pratica nasce la concezione religiosa
kantiana di una “religione
nei limiti della ragione”.
Una
religione, quindi, ricondotta all'interno dell'ambito della ragion
pratica, a cui deve essere ricondotta anche la religione rivelata.
Al
senso profondo della razionalità si ispira anche la concezione della
storia di Kant. Questi afferma che la storia inizia nel momento in
cui l'uomo perde la propria originaria innocenza
con il peccato originale. Grazie alla colpa l'uomo si libera dalla
natura e, oltrepassandola, scopre le infinite possibilità della
libertà, ma, al di là del progresso realizzato nel corso della
storia, all'uomo rimane sempre un senso di insoddisfazione e di
colpa.
Con l'abbandono della natura, la specie umana ha iniziato un processo
di miglioramento, lungo e faticoso perché
affidato alla libertà e alla ragione, e non all'istinto. Questo
miglioramento porta alla realizzazione di rapporti di diritto e di
rispetto non solo tra gli uomini di uno stesso stato, ma anche tra
stati diversi. A tal riguardo, per Kant i rapporti tra gli uomini e
gli stati devono essere regolati dalla seguente massima: “agisci
esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa
accordarsi con la libertà di ogni altro, in base ad una legge
morale”.
La
Critica del Giudizio
studia il
giudizio estetico
e il giudizio
teleologico.
Entrambi sono specificazioni diverse del giudizio
riflettente,
che si distingue dal giudizio
determinante.
Il giudizio determinante è proprio della conoscenza scientifica. Il
giudizio riflettente,
invece, risponde all'esigenza di ammettere nel mondo della natura una
finalità intrinseca. Il giudizio riflettente,
pertanto, si colloca come medio tra intelletto e ragione, tra il
mondo dei fenomeni (implicanti necessità) e il mondo dei noumeni
(implicanti libertà).
Il
giudizio riflettente estetico e il giudizio riflettente teologico
hanno la caratteristica comune di fondarsi sulla finalità, e di non
essere conoscitivi. Per finalità non si intende un'intenzione (come
nella morale) né il raggiungimento di un fine estrinseco (come nei
prodotti artificiali), bensì un rapporto di armonia,
di accordo tra le parti.
L'armonia
delle facoltà dell'uomo fa sorgere il giudizio estetico, che si
fonda sull'accordo spontaneo di immaginazione e intelletto. Il bello
non è legato in maniera empirica
ad
un dato oggetto, ma è legato alla rappresentazione dell'oggetto
nell'immaginazione,
la
quale si realizza in maniera conforme alle esigenze dell'intelletto.
Per tale motivo, il sentimento del bello è un piacere
disinteressato, che nasce dal libero gioco delle facoltà dell'animo.
La capacità di giudicare prende il nome di gusto.
Il bello deve essere distinto dal sublime, ed infatti il bello nasce
dal sentimento di armonia tra immaginazione ed intelletto, mentre il
sublime rompe questa armonia,
in quanto l'oggetto si viene a rappresentate
come al di là di ogni comparazione, infinito, provocando
all'osservatore repulsione ed attrazione, disgusto ed ammirazione, un
piacere sia positivo che negativo. Il giudizio riflettente teologico
parte dalla considerazione che un organismo vivente non è una
semplice somma di singole parti, bensì è il risultato di un
rapporto reciproco di queste parti. Ciò ci obbliga ad ammettere una
finalità interna della natura.
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