martedì 24 luglio 2012

La filosofia dell'ottocento in Italia


Il pensiero filosofico dell'ottocento italiano è fortemente legato all'atmosfera risorgimentale della nostra nazione. In tale contesto si inserisce l'opera di Vincenzo Cuoco (1770 – 1823), autore dei Frammenti di lettere rivolte a V. Russo sul Progetto di costituzione della Repubblica (1799); del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana (1801); del Platone in Italia (1804 – 1806), del Rapporto al Re Gioacchino Murat e del Progetto di decreto per l'organizzazione della pubblica istruzione (1809).
Nei Frammenti di lettere rivolte a V. Russo, Cuoco afferma che le costituzioni sono come i vestiti e le scarpe, e, pertanto, devono essere fatte su misura per chi deve indossarli. Ciò significa che le costituzioni non possono esser imposte dall'esterno, ma devono innestarsi agli usi e costumi, alla cultura e alla tradizione di un popolo. Cuoco difende la verità di questa sua concezione con l'esemplare caso del fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Una rivoluzione che aveva basato le proprie speranze su modelli presi dall'estero, che mal si adattavano alla realtà partenopea.
Nell'Italia risorgimentale si diffondono tematiche propriamente romantiche. In questo contesto si inserisce il principio di nazionalità, inteso come diritto di ogni nazione di elaborare in maniera libera e indipendente la propria forma di civiltà.
Il panorama risorgimentale italiano ha come suo protagonista fondamentale la figura di Giuseppe Mazzini (1805 – 1872). Questi dedicò la propria vita esclusivamente all'attività politica. Fu esponente della carboneria, fondatore della Giovine Italia (1831) e poi della Giovine Europa (1834). Fu una figura preminente nella promozione del risorgimento e dell'unità d'Italia, anche se non elaborò una concezione repubblicana del nostro paese. Il suo scritto più importante è i Doveri dell'uomo del 1861.
Mazzini rifiuta l'idea di poter riunire la nostra nazione mediante semplici operazioni diplomatiche, alleanze, aiuti di potenze straniere o col semplice ricorso delle armi. Per Mazzini l'unità può esser raggiunta soltanto se alla liberazione dello straniero corrisponde la liberazione da ogni forma di tirannide interna. A tal fine, bisogna promuovere un'opera di educazione che possa far nascere negli italiani dei forti sentimenti morali. Il principio di tale educazione smantella l'ideale illuministico dei diritti dell'uomo, che per Mazzini sfociano nell'egoismo e nel materialismo, per affermare il primato dei doveri dell'uomo, che derivano direttamente da Dio e che interessano tutte le sfere della vita dell'individuo, dalla familiare alla sociale e nazionale. Questa concezione farà sì che Mazzini ripudi ogni concezione socialista e comunista affermante lo smantellamento della proprietà privata; ed infatti, solo mediante la libera associazione si può avere un'ampia distribuzione dei beni. Beni che devono esser considerati come il frutto del proprio adempimento ai doveri. Infine, il nostro filosofo giunge a concepire la formazione degli Stati Uniti di Europa.
Ebbero una vasta importanza nel panorama filosofico italiano i cosiddetti ideologi. Questi prendono il nome dall'opera principale di Destutt de Tracy (1754 – 1836). L'ideologia vuole accantonare qualsiasi ipotesi infondata, come quella della conoscenza dell'anima, per soffermarsi soltanto sulla descrizione analitica ed organica degli elementi costituenti la coscienza. L'ideologia, pertanto, riprende il programma di Condillac, ma, al contempo, lo sviluppa ulteriormente per portarlo a compimento, ed infatti, studia il rapporto tra la coscienza e la vita organica, e, quindi, tra la filosofia e la fisiologia. L'uomo per gli ideologi costituisce una complessa unità di processi psicologici e fisiologici. In tale contesto, si inserisce l'opera di Gian Domenico Romagnosi (1761 – 1835). Questi fu filosofo, giurista e pensatore politico. Le sue opere più importanti sono la Genesi del diritto penale, del 1791; l'Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, del 1805; Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, del 1815; Che cos'è la mente sana?, del 1827; Della suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana, del 1828; Vedute fondamentali sull'arte logica, del 1832 e la Giurisprudenza teorica ossia Istituzioni di civile filosofia, postuma (1839).
Di Romagnosi bisogna ricordare il concetto di filosofia civile. Concetto che nasce dalle tormentate vicende personali politiche e che auspica ad una nuova forma di filosofia che abbia il compito di studiare le condizioni e le forme in cui storicamente si attua l'incivilimento dei popoli e delle nazioni. Bisogna, quindi, definire quella legge massima ed unica che regola le vicende politiche. Una legge massima ed unica che tenga presente della perenne tendenza a realizzare un equilibrio tra gli interessi e i poteri in conflitto. Per quanto riguarda i problemi più specificatamente gnoseologici, Romagnosi critica fortemente Kant, che, conosciuto in maniera superficiale e semplicistica, viene accusato di aver fondato una “speculazione che sta tra le nuovole” perché si avvale di nozioni a priori “innate e gratuite”. Per Romagnosi la vita della coscienza non può prescindere dall'esperienza, ma non può esser spiegata solo tramite essa. Ed infatti, la coscienza non può esplicarsi tramite la semplice associazioni o trasformazione delle sensazioni, ma si avvale, invece, di un senso logico o razionale, che fa operare una collaborazione tra me e non-me, tra interno ed esterno. Pertanto, nella conoscenza, oltre alle sensazioni, ricorrono le logie, ossia dei concetti che non derivano dalle sensazioni e che consentono di stabilire tra le sensazioni dei rapporti intellettivi, che altrimenti rimarrebbero inspiegabili senza l'azione della nostra mente. Detto ciò, appare chiaro che viene superata la concezione della statua di Condillac, affermante che la vita della coscienza si possa spiegare con la semplice percezione delle impressioni sui singoli sensi, per ammettere l'esistenza di concetti che, non ricavabili dall'esperienza, consentono di spiegare le intellezioni.
Pasquale Galluppi (1770 – 1846), esponente importante per la ripresa e l'approfondimento della filosofia tedesca, fu autore di un Sull'analisi e su la sintesi (1807), del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (1819 – 22), di Elementi di filosofia (1820 – 1827), delle Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia relativamente ai principi delle conoscenze umane da Cartesio a Kant (1827), delle Lezioni di logica e metafisica (1832 – 1834) e della Filosofia della volontà (1832 – 1840).
Galluppi conosce in maniera approfondita la filosofia tedesca e critica il Condillac perché non ha operato una distinzione tra senso ed intelletto e il Kant perché è caduto nello scetticismo, anche se gli viene riconosciuto il merito di aver enunciato la necessità di distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo nella conoscenza. Kant, infatti, non è altro che lo stadio conclusivo di una filosofia soggettivistica che ha come iniziatore il Cartesio. Filosofia soggettivistica che, tra l'altro, non è riuscita a superare le istanze scetticistiche di Hume. Ciò perché Kant muove da una prospettiva del tutto razionalistica, che ammette degli a priori del tutto infondati. I fantomatici giudizi a priori, infatti, non esistono e non possono in alcun modo fondare l'oggettività della conoscenza. Bisogna, semmai, partire da un fatto incontestabile, ossia dalla coscienza dell'io come sentimento del me. Tale sentimento del me è inseparabile dal sentimento di qualcosa di fuori di me. Il sentimento del me unito a quello del fuori di me permette una sintesi reale, ovvero l'instaurazione di un rapporto oggettivo, la cui analisi consente la scoperta di relazioni reali, oggettivamente fondate. Questa via ci porta, inoltre, ad ammettere l'esistenza di un Essere assolutamente necessario, creatore sia del me che del fuori di me. Dalle relazioni reali, oggettivamente fondate, vanno separate le sintesi logiche o ideali, ossia i rapporti di identità e differenza che non hanno effettiva realtà al di fuori del nostro pensiero, ma risultano semplicemente dall'attività dell'intelletto, e sono, quindi, elementi sempre soggettivi della conoscenza. Nonostante questo suo sforzo di fondare il sapere in maniera oggettiva, Galluppi rimane ancorato ad una prospettiva soggettivistica. Tale critica gli verrà mossa in special modo da Antonio Rosmini.
Antonio Rosmini Serbati (1797 – 1858) fu un autore prolifico. Tra le sue opere le più importanti sono: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), la Costituzione secondo la giustizia sociale (1848), il Nuovo saggio sull'origine delle idee (1830), i Principi della scienza morale (1831), la Filosofia della morale (1837), la Filosofia della politica (1839), la Filosofia del diritto (1841 – 1845) e la Teodicea (1845).
In Rosmini confluiscono istanze del sensismo, dell'ideologia, del criticismo kantiano e di filosofia antica e medievale, in special modo di Platone e di forme di platonismo, quali quelle offerte da S. Bonaventura. Il suo sistema filosofico abbraccia più campi, e si interessa di ontologia, gnoseologia, etica, politica e diritto. Rosmini riafferma la validità della filosofia cristiana e si scaglia contro le tendenze soggettivistiche ed empiristiche del pensiero moderno, che viene da lui considerato negativo per le conseguenze che può portare in campo politico e morale. In Rosmini diviene centrale l'idea dell'Essere, che non solo fonda l'oggettività della conoscenza, ma anche morale. Per Rosmini la conoscenza non può derivare soltanto dall'esperienza sensibile, come affermava l'empirismo e il sensismo, e non può nemmeno scaturire da funzioni ed attività del soggetto, come affermava Kant. La conoscenza, infatti, si fonda su un qualcosa che è indipendente dalla mente, e cioè sull'idea dell'essere. Un'idea che la mente coglie e che non può porre. Ed infatti, se togliamo da qualsiasi nostra conoscenza tutte le qualità (bianco, ruvido, amaro, ecc.) ci rimane sempre un qualcosa che non è il puro nulla, ossia l'essere della cosa che abbiamo spogliato delle sue qualità. Ora, è anche vero che un essere spogliato delle sue determinazioni rimane inconoscibile, ed esprime soltanto la possibilità degli enti, ma è anche vero che senza l'idea dell'essere non possiamo conoscere nulla, perché l'essere è il punto iniziale, necessario, fondante di tutte le altre idee.
L'idea dell'essere è, pertanto, la vera forma di ogni conoscenza e si differenzia dalle forme kantiane perché è unica e semplice, e non molteplice come le categorie, e perché è un oggetto immediato ed intuitivo della mente, e non il prodotto della sua attività.
L'idea dell'essere è il lume mediante il quale la nostra mente pensa e conosce, e per tale ragione si differenzia da tutte le altre idee, che sono invece formate dalla nostra mente e che sono il risultato di un giudizio.
L'idea dell'essere preso in esame fino a questo punto ha un carattere meramente formale, con implicazioni gnoseologiche, che vanno distinte da quelle ontologiche e teologiche. Ed infatti, nell'idea dell'essere, l'essere viene colto solo in maniera ideale, e non reale. Ciò significa che tale idea deriva da Dio, anzi è la presenza di Dio nella nostra mente. Una presenza che non esaurisce ovviamente l'infinita realtà di Dio. Pertanto, tramite l'idea di Dio noi possiamo arrivare ad affermare che Dio è, ma non possiamo sapere come Dio è, e non possiamo averne esperienza diretta e piena.
L'esperienza umana nella sua attività conoscitiva si fonda sul sentimento fondamentale, ossia su quel sentimento che ci permette di sentire che la vita è in noi, che ci fa percepire il nostro corpo come identico a noi stessi, come unito indissolubilmente al nostro spirito. Per tali ragioni, il sentimento fondamentale occupa un posto intermedio tra l'attività della nostra anima e la passività dei nostri sensi. L'idea dell'essere, inoltre, fonda una morale oggettiva. Ed infatti, l'essere non è solo principio gnoseologico fondante, né soltanto principio ontologico fondante, ma è anche principio morale fondante. Ciò perché bene ed essere coincidono, sono la medesima cosa: ogni cosa è buona nella misura in cui partecipa dell'essere. In tale contesto la volontà è buona se riconosce il vero ordine manifestatole dall'intelligenza. Un ordine in cui le cose dipendono da Dio e tendono ognuna di esse a giungere a quella perfezione assegnategli.
Vincenzo Gioberti (1801 – 1852), dottore in teologia e sacerdote dal 1825, ha come opere principali La teorica del soprannaturale (1838), l'Introduzione allo studio della filosofia (1840), Del primato morale e civile degli italiani (1843), Il gesuita moderno (1846 – 1847), Del rinnovamento civile d'Italia (1851) e Protologia, pubblicata postuma.
Per Gioberti la formulazione di una nuova filosofia è legata al progetto di rinnovamento della civiltà europea, a cui l'Italia, in quanto paese specificatamente cattolico, deve apportare un contributo determinante. Gioberti critica fortemente tutta quanta la filosofia moderna che, da Cartesio sino all'idealismo moderno, non ha fatto altro che eccentuare il divario tra filosofia e teologia, cadendo in un estenuante soggettivismo e psicologismo. Bisogna, pertanto, riportare ad unione la filosofia con la teologia, e ciò non nel senso di subordinare l'una all'altra, ma nel senso di riportarle alla loro fonte di origine: la creazione. Creazione che non è avvenuta una volta per tutte, ma che è, invece, il frutto di un processo continuo in cui Dio pone fuori da sé le creature, tenendole, però, sempre in rapporto con sé. Ciò viene espresso dalla formula l'Ente crea l'esistente. Tale concezione non ha una validità soltanto ontologica, ma, anche, gnoseologica, ed infatti lo spirito umano conosce in quanto in ogni istante della sua vita intellettiva è spettatore diretto ed immediato della creazione con una sorta di intuito. Ciò detto, Gioberti non solo ritiene di aver dato un fondamento oggettivo alla conoscenza, ma polemizza contro coloro che affermano che il linguaggio abbia un'origine puramente umana. Il linguaggio, infatti, come la natura, la religione e la società può esser spiegata solo mediante la creazione. Ciò non toglie che alla perfezione originaria del linguaggio, siano subentrati una serie di lingue costruite dall'uomo, ed incapaci di esprimere l'Idea. Questa caduta di perfezione originaria non riguarda solo il linguaggio, ma tutta la vita dell'uomo, tanto che la storia viene spiegata come una palingenesi, ossia come ritorno all'Essere ideale, come riscatto della caduta e riavvicinamento a Dio. In tale contesto, un posto preminente ha l'Italia, paese in cui non si è mai perso del tutto l'unità originaria di filosofia e teologia.
Una ripresa dell'hegelismo si ha con Bertrando Spaventa ed Antonio Labriola.
Bertrando Spaventa (1817 – 1883) scrisse la Prolusione e introduzione alle lezioni di Filosofia nell'università di Napoli del 1861, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea del 1908, Le prime categorie della logica di Hegel del 1864, Logica e metafisica del 1911, Esperienza e metafisica del 1888, Scritti filosofici del 1900 e da Socrate ad Hegel del 1905.
Per Spaventa il pensiero in atto è l'unica autentica garanzia di una filosofia che voglia essere concreta. La dialettica di Hegel con il suo essere, nulla, divenire deve essere intesa come movimento del pensiero, come atto. Se non si fa ciò non si avrebbe alcun movimento effettivo e non si potrebbe superare l'opposizione tra essere e pensare.
La filosofia, per Spaventa, è l'espressione ultima e più viva della vita di un popolo e la filosofia italiana ha anticipato gli sviluppi della filosofia europea: Telesio e Campanella avrebbero anticipato Bacone e Locke; ancora Campanella avrebbe anticipato il Cartesio; Giordano Bruno sarebbe stato il precursore di Spinoza e Leibniz, E Gianbattista Vico avrebbe anticipato tutta la filosofia tedesca.
Altro esponente di spicco dell'hegelismo italiano è Antonio Labriola (1843 – 1904). i suoi scritti filosoficamente più rilevanti sono La dottrina di Socrate, secondo Senofonte, Platone e Aristotele, del 1871; Morale e religione, del 1873; Dell'insegnamento della storia, del 1876; In memoria del manifesto dei comunisti, del 1895; Del materialismo storico, del 1896; Discorrendo di socialismo e di filosofia, del 1898; Scritti vari di filosofia e di politica, postumi, del 1906.
Labriola polemizza contro quelle interpretazioni ingenue e superficiali del materialismo storico marxista per sottolineare l'attenzione sulla teoria obiettiva della rivoluzione. Per tale ragione critica coloro che interpretano la storia come il frutto di fattori indipendenti, per sottolineare che essa è il prodotto di fattori economici, che si articolano in due momenti ben distinti. Ed infatti, dalla natura economica si generano in primo luogo e direttamente la formazione delle classi e la loro conseguente lotta. Dalle classi derivano i rapporti giuridici, istituzionali e morali. Da queste si generano, in secondo luogo e indirettamente, l'arte, la religione e la scienza.
Labriola, inoltre, cerca di eliminare qualsiasi tipo di antitesi tra la filosofia e la scienza. La prima, infatti, anticiperebbe problemi che saranno poi studiati e risolti dalla scienza.
Il positivismo ha diffusione anche in Italia e conserva tutte quelle caratteristiche che sono proprie del movimento: polemica contro qualsiasi tipo di metafisica, fiducia nella scienza e nella tecnologia, sviluppo di una filosofia che si soffermi sui fatti.
Le due personalità che diedero un forte impulso agli studi positivistici nel nostro paese furono Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari.
Carlo Cattaneo (1801 – 1869) fondò nel 1839 l'importante rivista scientifica dal nome Politecnico. I suoi scritti più rilevanti sono l'Invito agli amatori della filosofia, del 1857 e l'Idea di una psicologia della scienza del 1859.
Cattaneo avanza l'esigenza di unire la filosofia alla scienza e concepisce la teoria della psicologia delle menti associate. Per Cattaneo bisogna studiare i fatti e non le facoltà dell'animo. Per fare ciò bisogna mettere da parte la concezione del cogito di Cartesio, che aveva staccato il pensiero dalla natura e dalla società, per rivalutare l'importanza che opera nelle menti la società attraverso la tradizione, il linguaggio e la storia.
Giuseppe Ferrari (1811 – 1876) fu autore di una Filosofia della rivoluzione, del 1851; di un Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, del 1843; di un Corso sugli scrittori politici italiani, del 1862 e di una Teoria dei periodi politici, del 1874.
Ferrari è profondamente influenzato dalla filosofia del Vico, che sviluppa in senso vitalistico per interessi etico-politici. Per Ferrari, il pensiero soffre di contraddizioni interne sempre più gravi, da cui si può uscire soltanto soffermandosi sul fatto. Il pensiero, quindi, non ci consente di rintracciare un senso preciso delle cose. A questa sfiducia nelle capacità teoriche dell'uomo corrisponde un grande impegno morale e politico finalizzato all'instaurazione di una società egalitaria.
La personalità più rappresentativa ed eminente del positivismo italiano è quella di Roberto Ardigò (1811 – 1920). Divenuto Sacerdote, nel 1871 depose l'abito talare. Nel 1869 pubblica il Discorso su Pietro Pomponazzi; nel 1870 la Psicologia come scienza positiva; nel 1877 La formazione naturale nel fatto del sistema solare, nel 1885 La morale dei positivisti; nel 1886 La sociologia; nel 1891 Il vero, nel 1894 La ragione e nel 1898 L'unità della coscienza.
Ardigò critica Spencer per la sua concezione dell'Ignoto come un qualcosa di inconoscibile che legittimare una religione. In realtà, ci rimane ancora molto da conoscere. Ciò, però, non implica il credere in un qualcosa che si trova al di là delle possibilità conoscitive umane. Bisogna, semmai, ammettere che il nostro sapere ha un limite, che, comunque, verrà continuamente superato.
La realtà si sviluppa e procede attraverso un continuo passaggio dall'indistinto al distinto. Così dall'essere primitivo del sistema solare che era una semplice nebulosa, attraverso successive distinzioni, si sono formate i vari pianeti; allo stesso modo di come da un embrione di un mammifero si sviluppano tutte quelle distinzioni che attualizzeranno un dato e specifico animale. Questo processo dall'indistinto al distinto è sempre in atto e procede tutt'ora. Esso si svolge attraverso un ritmo diverso dalla pura e rigida necessità quanto dall'assoluta causalità. Ed infatti, ogni evento rinvia ad una causa prossima. Causa prossima e necessaria che si può realizzare in infiniti modi. Conseguentemente si possono avere infiniti ordinamenti. 

Nessun commento:

Posta un commento