Il
pensiero filosofico dell'ottocento italiano è fortemente legato
all'atmosfera risorgimentale della nostra nazione. In tale contesto
si inserisce l'opera di Vincenzo
Cuoco
(1770 – 1823), autore dei
Frammenti di lettere rivolte a V. Russo sul Progetto di costituzione
della Repubblica
(1799); del Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana
(1801); del Platone
in Italia
(1804 – 1806), del Rapporto
al Re Gioacchino Murat
e del Progetto di decreto per
l'organizzazione della pubblica istruzione
(1809).
Nei
Frammenti
di lettere rivolte a V. Russo,
Cuoco afferma che le costituzioni sono come i vestiti e le scarpe, e,
pertanto, devono essere fatte su misura per chi deve indossarli. Ciò
significa che le costituzioni non possono esser imposte dall'esterno,
ma devono innestarsi agli usi e costumi, alla cultura e alla
tradizione di un popolo. Cuoco difende la verità di questa sua
concezione con l'esemplare caso del fallimento della rivoluzione
napoletana del 1799. Una rivoluzione che aveva basato le proprie
speranze su modelli presi dall'estero, che mal si adattavano alla
realtà partenopea.
Nell'Italia
risorgimentale si diffondono tematiche propriamente romantiche. In
questo contesto si inserisce il principio
di nazionalità,
inteso come diritto di ogni nazione di elaborare in maniera libera e
indipendente la propria forma di civiltà.
Il
panorama risorgimentale italiano ha come suo protagonista
fondamentale la figura di Giuseppe
Mazzini
(1805 – 1872). Questi dedicò la propria vita esclusivamente
all'attività politica. Fu esponente della carboneria,
fondatore della Giovine
Italia
(1831) e poi della Giovine
Europa
(1834). Fu una figura preminente nella promozione del risorgimento e
dell'unità d'Italia, anche se non elaborò una concezione
repubblicana del nostro paese. Il suo scritto più importante è i
Doveri
dell'uomo
del 1861.
Mazzini
rifiuta l'idea di poter riunire la nostra nazione mediante semplici
operazioni diplomatiche, alleanze, aiuti di potenze straniere o col
semplice ricorso delle armi. Per Mazzini l'unità può esser
raggiunta soltanto se alla liberazione dello straniero corrisponde la
liberazione da ogni forma di tirannide interna. A tal fine, bisogna
promuovere un'opera di educazione
che possa far nascere negli italiani dei forti sentimenti morali. Il
principio di tale educazione smantella l'ideale illuministico dei
diritti dell'uomo, che per Mazzini sfociano nell'egoismo e nel
materialismo, per affermare il
primato dei doveri dell'uomo,
che derivano direttamente da Dio e che interessano tutte le sfere
della vita dell'individuo, dalla familiare alla sociale e nazionale.
Questa concezione farà sì che Mazzini ripudi ogni concezione
socialista e comunista affermante lo smantellamento della proprietà
privata; ed infatti, solo mediante la libera associazione si può
avere un'ampia distribuzione dei beni. Beni che devono esser
considerati come il frutto del proprio adempimento ai doveri. Infine,
il nostro filosofo giunge a concepire la formazione degli Stati Uniti
di Europa.
Ebbero
una vasta importanza nel panorama filosofico italiano i cosiddetti
ideologi.
Questi prendono il nome dall'opera principale di Destutt
de Tracy
(1754 – 1836). L'ideologia vuole accantonare qualsiasi ipotesi
infondata, come quella della conoscenza dell'anima, per soffermarsi
soltanto sulla descrizione analitica ed organica degli elementi
costituenti la coscienza. L'ideologia, pertanto, riprende il
programma di Condillac, ma, al contempo, lo sviluppa ulteriormente
per portarlo a compimento, ed infatti, studia il rapporto tra la
coscienza e la vita organica, e, quindi, tra la filosofia e la
fisiologia. L'uomo per gli ideologi costituisce una complessa unità
di processi psicologici e fisiologici. In tale contesto, si inserisce
l'opera di Gian
Domenico
Romagnosi
(1761 – 1835). Questi fu filosofo, giurista e pensatore politico.
Le sue opere più importanti sono la Genesi
del diritto penale,
del 1791; l'Introduzione
allo studio del diritto pubblico universale,
del 1805; Della
costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa,
del 1815; Che
cos'è la mente sana?,
del 1827; Della
suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana,
del 1828; Vedute
fondamentali sull'arte logica,
del 1832 e la Giurisprudenza
teorica ossia Istituzioni di civile filosofia,
postuma (1839).
Di
Romagnosi bisogna ricordare il concetto di filosofia
civile.
Concetto che nasce dalle tormentate vicende personali politiche e che
auspica ad una nuova forma di filosofia che abbia il compito di
studiare le condizioni e le forme in cui storicamente si attua
l'incivilimento
dei popoli e delle nazioni. Bisogna, quindi, definire quella legge
massima ed unica
che regola le vicende politiche. Una legge massima ed unica che tenga
presente della perenne tendenza a realizzare un equilibrio tra gli
interessi e i poteri in conflitto. Per quanto riguarda i problemi più
specificatamente gnoseologici, Romagnosi critica fortemente Kant,
che, conosciuto in maniera superficiale e semplicistica, viene
accusato di aver fondato una “speculazione
che sta tra le nuovole”
perché si avvale di nozioni a priori “innate
e gratuite”.
Per Romagnosi la vita della coscienza non può prescindere
dall'esperienza, ma non può esser spiegata solo tramite essa. Ed
infatti, la coscienza non può esplicarsi tramite la semplice
associazioni o trasformazione delle sensazioni, ma si avvale, invece,
di un senso
logico o razionale,
che fa operare una collaborazione tra me
e non-me,
tra interno ed esterno. Pertanto, nella conoscenza, oltre alle
sensazioni, ricorrono le logie,
ossia dei concetti che non derivano dalle sensazioni e che consentono
di stabilire tra le sensazioni dei rapporti intellettivi, che
altrimenti rimarrebbero inspiegabili senza l'azione della nostra
mente. Detto ciò, appare chiaro che viene superata la concezione
della statua di Condillac, affermante che la vita della coscienza si
possa spiegare con la semplice percezione delle impressioni sui
singoli sensi, per ammettere l'esistenza di concetti che, non
ricavabili dall'esperienza, consentono di spiegare le intellezioni.
Pasquale
Galluppi (1770 – 1846), esponente importante per la ripresa
e l'approfondimento della filosofia tedesca, fu autore di un
Sull'analisi e su la sintesi (1807), del Saggio filosofico
sulla critica della conoscenza (1819 – 22), di Elementi di
filosofia (1820 – 1827), delle Lettere filosofiche sulle
vicende della filosofia relativamente ai principi delle conoscenze
umane da Cartesio a Kant (1827), delle Lezioni di logica e
metafisica (1832 – 1834) e della Filosofia della volontà
(1832 – 1840).
Galluppi
conosce in maniera approfondita la filosofia tedesca e critica il
Condillac perché
non ha operato una distinzione tra senso ed intelletto e il Kant
perché
è caduto nello scetticismo, anche se gli viene riconosciuto il
merito di aver enunciato la necessità di distinguere ciò che è
soggettivo da ciò che è oggettivo nella conoscenza. Kant, infatti,
non è altro che lo stadio conclusivo di una filosofia
soggettivistica che ha come iniziatore il Cartesio. Filosofia
soggettivistica
che, tra l'altro, non è riuscita a superare le istanze
scetticistiche di Hume. Ciò perché
Kant muove da una prospettiva del tutto razionalistica, che ammette
degli a priori
del tutto infondati. I fantomatici giudizi a priori, infatti, non
esistono e non possono in alcun modo fondare l'oggettività della
conoscenza. Bisogna, semmai, partire da un fatto incontestabile,
ossia dalla
coscienza dell'io come sentimento del me.
Tale sentimento del me è inseparabile dal sentimento di qualcosa di
fuori di me. Il sentimento del me unito a quello del fuori di me
permette una sintesi reale, ovvero l'instaurazione di un rapporto
oggettivo, la cui analisi consente la scoperta di relazioni reali,
oggettivamente fondate. Questa via ci porta, inoltre, ad ammettere
l'esistenza di un Essere assolutamente necessario, creatore sia del
me che del fuori di me. Dalle relazioni reali, oggettivamente
fondate, vanno separate le sintesi
logiche o ideali,
ossia i rapporti di identità e differenza che non hanno effettiva
realtà al di fuori del nostro pensiero, ma risultano semplicemente
dall'attività dell'intelletto, e sono, quindi, elementi sempre
soggettivi della conoscenza. Nonostante questo suo sforzo di fondare
il sapere in maniera oggettiva, Galluppi rimane ancorato ad una
prospettiva soggettivistica. Tale critica gli verrà mossa in special
modo da Antonio Rosmini.
Antonio
Rosmini Serbati (1797 – 1858) fu un autore prolifico. Tra le
sue opere le più importanti sono: Delle cinque piaghe della Santa
Chiesa (1848), la Costituzione secondo la giustizia sociale
(1848), il Nuovo saggio sull'origine delle idee (1830), i
Principi della scienza morale (1831), la Filosofia della
morale (1837), la Filosofia della politica (1839), la
Filosofia del diritto (1841 – 1845) e la Teodicea
(1845).
In
Rosmini confluiscono istanze del sensismo,
dell'ideologia, del criticismo kantiano e di filosofia antica e
medievale, in special modo di Platone e di forme di platonismo, quali
quelle offerte da S. Bonaventura. Il suo sistema filosofico abbraccia
più campi, e si interessa di ontologia, gnoseologia, etica, politica
e diritto. Rosmini riafferma la validità della filosofia cristiana e
si scaglia
contro le tendenze soggettivistiche ed empiristiche del pensiero
moderno, che viene da lui considerato negativo per le conseguenze che
può portare in campo politico e morale. In Rosmini diviene centrale
l'idea dell'Essere,
che non solo fonda l'oggettività della conoscenza, ma anche morale.
Per Rosmini la conoscenza non può derivare soltanto dall'esperienza
sensibile, come affermava l'empirismo e il sensismo, e non può
nemmeno scaturire da funzioni ed attività del soggetto, come
affermava Kant. La conoscenza, infatti, si fonda su un qualcosa che è
indipendente dalla mente, e cioè sull'idea
dell'essere.
Un'idea che la mente coglie e che non può porre. Ed infatti, se
togliamo da qualsiasi nostra conoscenza tutte le qualità (bianco,
ruvido, amaro, ecc.) ci rimane sempre un qualcosa che non è il puro
nulla, ossia l'essere della cosa che abbiamo spogliato delle sue
qualità. Ora, è anche vero che un essere spogliato delle sue
determinazioni rimane inconoscibile, ed
esprime
soltanto la possibilità degli enti, ma è anche vero che senza
l'idea dell'essere non possiamo conoscere nulla, perché
l'essere è il punto iniziale, necessario, fondante di tutte le altre
idee.
L'idea
dell'essere è, pertanto, la vera forma di ogni conoscenza e si
differenzia dalle forme kantiane perché è unica e semplice, e non
molteplice come le categorie, e perché è un oggetto immediato ed
intuitivo della mente, e non il prodotto della sua attività.
L'idea
dell'essere è il lume mediante il quale la nostra mente pensa
e conosce, e per tale ragione si differenzia da tutte le altre idee,
che sono invece formate dalla nostra mente e che sono il risultato di
un giudizio.
L'idea
dell'essere preso in esame fino a questo punto ha un carattere
meramente formale, con implicazioni gnoseologiche, che vanno distinte
da quelle ontologiche e teologiche. Ed infatti, nell'idea
dell'essere, l'essere viene colto solo in maniera ideale, e non
reale. Ciò significa che tale idea deriva da Dio, anzi è la
presenza di Dio nella nostra mente. Una presenza che non esaurisce
ovviamente l'infinita realtà di Dio. Pertanto, tramite l'idea di Dio
noi possiamo arrivare ad affermare che Dio è, ma non possiamo sapere
come Dio è, e non possiamo averne esperienza diretta e piena.
L'esperienza
umana nella sua attività conoscitiva si fonda sul sentimento
fondamentale, ossia su quel sentimento che ci permette di
sentire che la vita è in noi, che ci fa percepire il nostro corpo
come identico a noi stessi, come unito indissolubilmente al nostro
spirito. Per tali ragioni, il sentimento fondamentale occupa un posto
intermedio tra l'attività della nostra anima e la passività dei
nostri sensi. L'idea dell'essere, inoltre, fonda una morale
oggettiva. Ed infatti, l'essere non è solo principio gnoseologico
fondante, né soltanto principio ontologico fondante, ma è anche
principio morale fondante. Ciò perché bene ed essere
coincidono, sono la medesima cosa: ogni cosa è buona nella misura in
cui partecipa dell'essere. In tale contesto la volontà è buona se
riconosce il vero ordine manifestatole dall'intelligenza. Un ordine
in cui le cose dipendono da Dio e tendono ognuna di esse a giungere a
quella perfezione assegnategli.
Vincenzo
Gioberti (1801 – 1852), dottore in teologia e sacerdote dal
1825, ha come opere principali La teorica del soprannaturale
(1838), l'Introduzione allo studio della filosofia (1840), Del
primato morale e civile degli italiani (1843), Il gesuita
moderno (1846 – 1847), Del rinnovamento civile d'Italia
(1851) e Protologia, pubblicata postuma.
Per
Gioberti la formulazione di una nuova filosofia è legata al progetto
di rinnovamento della civiltà europea, a cui l'Italia, in quanto
paese specificatamente cattolico, deve apportare un contributo
determinante. Gioberti critica fortemente tutta quanta la filosofia
moderna che, da Cartesio sino all'idealismo moderno, non ha fatto
altro che eccentuare il divario tra filosofia e teologia, cadendo in
un estenuante
soggettivismo e psicologismo. Bisogna, pertanto, riportare ad unione
la filosofia con la teologia,
e ciò non nel senso di subordinare l'una all'altra, ma nel senso di
riportarle alla loro fonte di origine:
la creazione.
Creazione che non è avvenuta una volta per tutte, ma che è, invece,
il frutto di un processo continuo in cui Dio pone fuori da sé le
creature, tenendole, però, sempre in rapporto con sé. Ciò viene
espresso dalla formula l'Ente
crea l'esistente.
Tale concezione non ha una validità
soltanto ontologica, ma, anche, gnoseologica, ed infatti lo spirito
umano conosce in quanto in ogni istante della sua vita intellettiva è
spettatore diretto ed immediato della creazione con una sorta di
intuito.
Ciò detto, Gioberti non solo ritiene di aver dato un fondamento
oggettivo alla conoscenza, ma polemizza contro coloro che affermano
che il linguaggio abbia un'origine puramente umana. Il linguaggio,
infatti, come la natura, la religione e la società può esser
spiegata solo mediante la creazione. Ciò non toglie che alla
perfezione originaria del linguaggio, siano subentrati una serie di
lingue costruite dall'uomo, ed incapaci di esprimere l'Idea. Questa
caduta di perfezione originaria non riguarda solo il linguaggio, ma
tutta la vita dell'uomo, tanto che la storia viene spiegata come una
palingenesi,
ossia come ritorno all'Essere ideale, come riscatto della caduta e
riavvicinamento a Dio. In tale contesto, un posto preminente ha
l'Italia, paese in cui non si è mai perso del tutto l'unità
originaria di filosofia e teologia.
Una
ripresa dell'hegelismo si ha con Bertrando Spaventa ed Antonio
Labriola.
Bertrando
Spaventa (1817 – 1883) scrisse la Prolusione e
introduzione alle lezioni di Filosofia nell'università di Napoli
del 1861, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la
filosofia europea del 1908, Le prime categorie della logica di
Hegel del 1864, Logica e metafisica del 1911, Esperienza
e metafisica del 1888, Scritti filosofici del 1900 e da
Socrate ad Hegel del 1905.
Per
Spaventa il pensiero in atto è l'unica autentica garanzia di
una filosofia che voglia essere concreta. La dialettica di Hegel con
il suo essere, nulla, divenire deve essere
intesa come movimento del pensiero, come atto. Se non si fa ciò non
si avrebbe alcun movimento effettivo e non si potrebbe superare
l'opposizione tra essere e pensare.
La
filosofia, per Spaventa, è l'espressione ultima e più viva della
vita di un popolo e la filosofia italiana ha anticipato gli sviluppi
della filosofia europea: Telesio e Campanella avrebbero anticipato
Bacone e Locke; ancora Campanella avrebbe anticipato il Cartesio;
Giordano Bruno sarebbe stato il precursore di Spinoza e Leibniz, E
Gianbattista Vico avrebbe anticipato tutta la filosofia tedesca.
Altro
esponente di spicco dell'hegelismo italiano è Antonio
Labriola (1843 – 1904). i suoi scritti filosoficamente più
rilevanti sono La dottrina di Socrate, secondo Senofonte, Platone
e Aristotele, del 1871; Morale e religione, del 1873;
Dell'insegnamento della storia, del 1876; In memoria del
manifesto dei comunisti, del 1895; Del materialismo storico,
del 1896; Discorrendo di socialismo e di filosofia, del 1898;
Scritti vari di filosofia e di politica, postumi, del 1906.
Labriola
polemizza contro quelle interpretazioni ingenue e superficiali del
materialismo storico marxista per sottolineare l'attenzione sulla
teoria obiettiva della rivoluzione. Per tale ragione critica coloro
che interpretano la storia come il frutto di fattori indipendenti,
per sottolineare che essa è il prodotto di fattori economici, che si
articolano in due momenti ben distinti. Ed infatti, dalla natura
economica si generano in primo luogo e direttamente la
formazione delle classi e la loro conseguente lotta. Dalle classi
derivano i rapporti giuridici, istituzionali e morali. Da queste si
generano, in secondo luogo e indirettamente, l'arte, la
religione e la scienza.
Labriola,
inoltre, cerca di eliminare qualsiasi tipo di antitesi tra la
filosofia e la scienza. La prima, infatti, anticiperebbe problemi che
saranno poi studiati e risolti dalla scienza.
Il
positivismo ha diffusione anche in Italia e conserva tutte quelle
caratteristiche che sono proprie del movimento: polemica contro
qualsiasi tipo di metafisica, fiducia nella scienza e nella
tecnologia, sviluppo di una filosofia che si soffermi sui fatti.
Le
due personalità che diedero un forte impulso agli studi
positivistici nel nostro paese furono Carlo Cattaneo e Giuseppe
Ferrari.
Carlo
Cattaneo (1801 – 1869) fondò nel 1839 l'importante rivista
scientifica dal nome Politecnico. I suoi scritti più
rilevanti sono l'Invito agli amatori della filosofia, del 1857
e l'Idea di una psicologia della scienza del
1859.
Cattaneo
avanza l'esigenza di unire la filosofia alla scienza e concepisce la
teoria della psicologia delle menti associate. Per Cattaneo
bisogna studiare i fatti e non le facoltà dell'animo. Per fare ciò
bisogna mettere da parte la concezione del cogito di Cartesio, che
aveva staccato il pensiero dalla natura e dalla società, per
rivalutare l'importanza che opera nelle menti la società attraverso
la tradizione, il linguaggio e la storia.
Giuseppe
Ferrari (1811 – 1876) fu autore di una
Filosofia della rivoluzione, del 1851; di un Essai
sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire,
del 1843; di un Corso sugli scrittori politici italiani, del
1862 e di una Teoria dei periodi politici, del 1874.
Ferrari
è profondamente influenzato dalla filosofia del Vico, che sviluppa
in senso vitalistico per interessi etico-politici. Per
Ferrari, il pensiero soffre di contraddizioni interne sempre più
gravi, da cui si può uscire soltanto soffermandosi sul fatto.
Il pensiero, quindi, non ci consente di rintracciare un senso preciso
delle cose. A questa sfiducia nelle capacità teoriche dell'uomo
corrisponde un grande impegno morale e politico finalizzato
all'instaurazione di una società egalitaria.
La
personalità più rappresentativa ed eminente del positivismo
italiano è quella di Roberto Ardigò (1811 – 1920).
Divenuto Sacerdote, nel 1871 depose l'abito talare. Nel 1869 pubblica
il Discorso su Pietro Pomponazzi; nel 1870 la Psicologia
come scienza positiva; nel 1877 La formazione naturale nel
fatto del sistema solare, nel 1885 La morale dei positivisti;
nel 1886 La sociologia; nel 1891 Il vero, nel 1894 La
ragione e nel 1898 L'unità della coscienza.
Ardigò
critica Spencer per la sua concezione dell'Ignoto come un
qualcosa di inconoscibile che legittimare una religione. In realtà,
ci rimane ancora molto da conoscere. Ciò, però, non implica il
credere in un qualcosa che si trova al di là delle possibilità
conoscitive umane. Bisogna, semmai, ammettere che il nostro sapere ha
un limite, che, comunque, verrà continuamente superato.
La
realtà si sviluppa e procede attraverso un continuo passaggio
dall'indistinto al distinto. Così dall'essere
primitivo del sistema solare che era una semplice nebulosa,
attraverso successive distinzioni, si sono formate i vari pianeti;
allo stesso modo di come da un embrione di un mammifero si sviluppano
tutte quelle distinzioni che attualizzeranno un dato e specifico
animale. Questo processo dall'indistinto al distinto è sempre in
atto e procede tutt'ora. Esso si svolge attraverso un ritmo diverso
dalla pura e rigida necessità quanto dall'assoluta causalità. Ed
infatti, ogni evento rinvia ad una causa prossima. Causa prossima e
necessaria che si può realizzare in infiniti modi. Conseguentemente
si possono avere infiniti ordinamenti.
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