Nasce
nel Wurtemberg il 27 gennaio del 1775. Suoi primi scritti furono:
L'io
come principio della filosofia
e La
forma della filosofia in generale,
Le
lettere filosofiche sul dogmatismo
e criticismo,
le
Idee
per una filosofia della natura,
Il
sistema dell’idealismo trascendentale,
l’Esposizione
del mio sistema filosofico
e Le
lezioni sul metodo dello studio accademico.
Nel 1802 pubblicò insieme a Hegel il “Giornale
critico della filosofia”,
in seguito i due, però, entrano
in pessimi rapporti. Nel 1804 pubblica Filosofia
e religione,
poi Filosofia
dell’arte,
Ricerche
sull’essenza della libertà,
Lezioni
private di Stoccarda
e Le
età del mondo.
Molti scritti rimasero inediti e pubblicati postumo come Lezioni
monachesi sulla storia della filosofia moderna, Filosofia della
mitologia, Filosofia della rivelazione
e l’Esposizione
dell’empirismo filosofico.
Il
pensiero di Schelling, per quanto vicino, nelle prime fasi, a
quello di Fichte,
se ne distacca per
aver assunto
un diverso atteggiamento nei confronti della natura. Anche Schelling
riconosce il nesso inscindibile della coscienza reale ed empirica con
il mondo esterno, con la natura, riconducendo tale nesso ad una
necessità interna all’Io. Le rappresentazioni del mondo esterno,
della natura, dipendono infatti dalla spontaneità inconscia dell’io,
in quanto l’io per realizzarsi non può fare a meno di contrapporre
a se stesso il non-Io, ossia la natura. Bisognava però operare là
dove Fichte aveva mancato, e cioè bisognava sviluppare il
significato di tale rapporto essenziale dell’io e del non-io della
natura. Ciò doveva essere fatto per superare la concezione puramente
meccanicistica della natura e della scienza, che il Romanticismo
vedeva in maniera sempre più inaccettabile alla luce degli sviluppi
della biologia e della chimica. Per fare ciò bisognava superare la
contrapposizione di organismo e meccanicismo, riconoscendoli come
momenti diversi di un processo unitario che si articola in una serie
di fasi sempre più complesse. Fasi
inscindibili
dalla vita dello spirito. La natura non costituisce una realtà in sé
da contrapporre allo Spirito,
e non può essere studiata indipendentemente dalle altre, ma può
essere intesa e compresa solo come intelligenza
immatura,
come testimonianza pietrificata del cammino percorso
inconsapevolmente dall’io per giungere ad essere coscienza, in una
parola dell’odissea
con cui lo spirito ha cercato e trovato se stesso.
Per comprendere il legame strettissimo tra spirito e natura occorre
però risalire al principio unitario, che è precisamente l’identità
tra conscio e inconscio, di libertà e necessità, di ideale e reale.
Da un lato è necessario presupporre l’unità di questi termini,
perché se fossero assolutamente opposti, separati, non vi potrebbe
essere nessun passaggio, nessun rapporto tra di essi, dunque non si
spiegherebbero né il pensiero né l’azione, né la natura, né la
coscienza; che son sì tra loro distinte, ma sempre in un continuo
rapporto per la loro unità di fondo. D’altra parte lo spirito come
coscienza comporta sempre la distinzione tra soggetto ed oggetto, tra
rappresentazione e rappresentato. Non
ci
si può,
però, fermare
all’opposizione, alla distinzione, che è sempre una forma
imperfetta di vita, ma si
deve,
invece, riconquistare sul piano del sapere quella identità
originaria da cui la vita ha avuto e ha continuamente origine. Ora,
questa riconquista dell’identità può avvenire mediante una forma
di sapere diverso da quello della distinzione tra soggetto e oggetto,
rappresentazione rappresentato, e cioè con l’intuizione
intellettuale. Schelling, pertanto, respinge sia il puro meccanicismo
o materialismo, sia il concetto di creazionismo inteso nella maniera
tradizionale. Il meccanicismo, infatti, non gli spiegherebbe il
realizzarsi di livelli di realtà sempre più complessi con alla fine
l’emergere della forma naturale più alta che è l’organismo. Il
creazionismo viene rifiutato perché anche se la natura ha un
carattere teleologico, tale carattere le è imposta dall’esterno, e
conseguentemente rende impossibile tutte quelle spiegazioni che
pretendono di dare giustificazione dei fenomeni mediante delle leggi
specifiche del loro sviluppo. Schelling afferma che bisogna accettare
il paradosso della finalità
inconscia dei prodotti della natura, senza che essi siano stati
prodotti consapevolmente per un fine.
Paradosso solo a prima vista, poiché questa è la caratteristica di
tutti gli esseri viventi, dove
sussiste un rapporto reciproco tra fine e mezzo. Senza, però, che
questo rapporto sia prima conosciuto e poi realizzato nella cosa,
come accade nelle forme di produzioni artificiale. Per esempio la
pianta si nutre di sostanza esterne, ma non potrebbe fare ciò se non
fosse già organizzata a tale funzione. O, ancora, l’uomo per
vivere ha bisogno di ossigeno, ma non potrebbe respirare se non fosse
già organizzato a fare ciò. Tale rapporto non è identificabile
solo nel singolo, ma bensì in tutta la natura, ove il suo meccanismo
(che segue cause – effetti irreversibili, per cui da A segue B, ma
non viceversa) si integra con la finalità; mezzo e fine
costituiscono un rapporto reciproco e inscindibile che vive in ogni
singola forma della natura e nella natura come totalità. E
quindi nell’organismo materia e forma sono inseparabili.
Natura naturans e natura naturata in un rapporto reciproco e
continuo, dove
la natura naturata è simbolo della naturans, perché in essa
l’Assoluto si nasconde e si manifesta esteriorizzandosi e
particolarizzandosi nel finito. Il principio fondamentale della
realtà è da ricercarsi non più nell’io, e tanto meno nel non-io,
ma in un sintesi nella quale l’uno e l’altro si confondono in un
Identità
Assoluta di Soggetto e Oggetto,
di Conscio e Inconscio, di Materia e Spirito, tutte coppie di termini
correlativi e sinonimi. E la natura non è che il differenziarsi di
queste opposizioni mediante un ritmo dialettico. La prevalenza
dell’inconscio – nei primi gradi dello sviluppo, della
differenziazione – dà origine a quella che noi consideriamo
materia inanimata. Col nascere dell’organismo o col scoccare della
sensazione s’inizia il prevalere del conscio che, attraverso lo
sviluppo dello spirito, consentirà poi di rifare – nella
progredente luce della consapevolezza – il cammino percorso
inconsapevolmente, sino all’intuizione dell’Assoluto originario e
delle sue progressive differenziazioni che ci rendono consci di
essere l’espressione più alta del divino. La conoscenza di questo
percorso non ci è data né dalla riflessione, cioè dalla scienza
teoretica, né dalla morale o scienza pratica, in quanto esse
presuppongono quella separazione tra soggetto e oggetto, spirito e
natura che è nata con la riflessione e dalla riflessione, e cioè
con il distacco dell’Assoluto come identità originaria. Ancora una
volta ci troviamo in un paradosso, infatti la riflessione, per il
motivo detto non può essere organo della filosofia, ma senza la
riflessione nemmeno si sarebbe posto l’esigenza della filosofia.
Bisogna ricercare quindi un’attività che sia al contempo ricettiva
e produttiva, e cioè un sapere assolutamente libero, e quindi
diverso dal sapere teoretico che non è libero in quanto dipende
dalle rappresentazioni degli oggetti. Questa attività per essere
libera deve produrre il proprio oggetto, realizzando una perfetta
identità dell’essere e del rappresentare. Deve essere una forma di
intuizione, dove
per intuizione si intende un sapere immediato, che non ha bisogno di
dimostrazioni, e neppure può averne, perché ogni dimostrazione
presuppone già un’intuizione. Deve essere però un'intuizione
distinta da quella sensibile, in quanto questa non produce il proprio
oggetto, ma lo presuppone. Sara pertanto una intuizione
intellettuale,
in cui l’intuire stesso coincide con l’intuito,
l’attività della coscienza coglie se stessa nel suo agire e quindi
realizza veramente l’autocoscienza. L’intuizione intellettuale
infatti è il trasformarsi della soggettività in una forma più alta
di attività e di sapere dove conscio e inconscio coincidono e la
contrapposizione tra soggetto e oggetto scompare; un’attività,
pertanto, dello stesso tipo dell’Assoluto o, se si preferisce,
un’attività nella quale l’Assoluto si manifesta in forma di
sapere. Anche dopo questa precisazione però la filosofia non appare
ancora sufficientemente fondata né il suo paradosso risolto. Se
l’intuizione intellettuale esiste, è certo che la filosofia può
adempiere al suo compito; ma come dimostrare che l’intuizione
intellettuale esiste effettivamente e non è un postulato del tutto
gratuito e inverificabile? È questo problema che fa affermare al
filosofo che vi è uno stretto legame tra arte e filosofia, anzi a
fargli
mettere l’arte al culmine della vita dello spirito, perché solo
l’opera d’arte è testimonianza concreta, esterna, reale della
possibilità di superare attivamente la scissione tra spirito e
natura, da cui anche la filosofia è derivata e a cui deve porre
rimedio. Sempre muovendo dalla tensione tra conscio e inconscio, tra
libertà e necessità si spiega anche la funzione della storia e la
sua differenza dalla natura. Come storia si intende quegli
avvenimenti volti a realizzare un ideale, che il singolo non può mai
realizzare, ma che può essere raggiunto dalla specie. Perciò la
storia è una serie di avvenimenti che non possono essere considerati
assolutamente sciolti da leggi; ma neppure sono assolutamente
assoggettati a leggi, poiché in essi deve coesistere la tensione
verso un ideale ( e quindi un certo disegno e una certa necessità)
con la libertà
dei loro protagonisti. A fondo della storia si ha quindi l’operare
di una occulta necessità nella libertà umana; se si porta
l’attenzione solo sulla necessità, allora si avrà il fatalismo;
se invece si porta l’attenzione solo sulla libertà, allora si avrà
l’ateismo. Entrambe le posizioni sono però inadeguate
e bisogna pertanto innalzarsi al punto di vista della religione: qui
abbiamo la provvidenza, ovvero la graduale manifestazione
dell’Assoluto dove Dio diviene nella graduale misura in cui l’uomo
opera il suo disegno e viceversa. In base a questo criteri la storia
può essere divisa in tre grandi epoche:
- il periodo tragico in cui domina il destino;
- il periodo in cui il destino si rivela come legge di natura;
- il periodo in cui anche “Dio Sarà”, in quanto destino e natura si riveleranno come manifestazioni incomplete di una provvidenza.
Il
male assume in Schelling una spiegazione diversa e non si configura
più come mancanza. Infatti egli negli ultimi anni diviene sempre più
studioso della mistica e si forma dai neoplatonici di Bohme, secondo
il quale il male è in Dio, come sua oscura e irrazionale componente.
Il fondo
oscuro
dell’essere, ovvero la sua inconscia volontà di esistere si rivela
sia in Dio quanto nell’uomo; e la gradualità dei momenti di
concreto sviluppo nel mondo diventa il dispiegarsi dei momenti della
specificazione particolare dell’esistenza, e rende ragione del male
nella dimensione della natura. Mentre l’azione del bene porta a
ricostituire l’unità originaria attraverso l’ordine e la
bellezza. Schelling nel criticare Hegel afferma che la sua filosofia
è una filosofia negativa, ossia di quelle filosofie che vogliono
essere pensiero puro, e che non vogliono confrontarsi con qualcosa di
posto. Per
questi motivi
si conclude in una vuota costruzione speculativa. Compito della
filosofia positiva è, invece, quella di misurarsi con qualcosa di
diverso del pensiero, con qualcosa di irriducibile ad esso, ovvero
con Dio che si rivela in maniera inesauribile.
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