lunedì 30 luglio 2012

Le geometrie non-euclidee


Un impulso di notevole importanza alla discussione epistemologica si è avuta con la scoperta delle geometrie non-euclidee, compiuta da vari studiosi (Gauss, Lobacevskij, Bolyai, Riemann), l'uno indipendentemente dall'altro e partiti, nella prima metà dell'ottocento, da posizioni diverse, ma entrati in circolo solo alla fine del secolo. La scoperta delle geometrie non-euclidee assume un'importanza rilevante perché cambia il modo di studiare la realtà e di interpretare l'oggettività della scienza. Le geometrie non-euclidee prendono avvio da una considerazione molto semplice: se i postulati della geometria euclidea coincidessero davvero e del tutto con la natura delle cose o solo con la natura della ragione, allora negarne uno, e in questo caso il quinto (affermante che per un punto esterno ad una retta si può condurre una ed una sola parallela alla retta data), dovrebbe portare inevitabilmente e necessariamente a delle conclusioni e conseguenze contraddittorie. Ora, se si prova a negare il quinto postulato della geometria euclidea, come fece il matematico italiano Saccheri con altri scopi, ossia con il fine di dimostrarlo per assurdo, non derivano affatto delle conseguenze incoerenti e contraddittorie con i rimanenti postulati. Ciò perché la negazione del suddetto postulato fa derivare un nuovo tipo di geometria, dalla quale, però, mediante certe regole, è possibile tornare alla geometria euclidea. In maniera più precisa, dalla negazione del quinto postulato nascono innumerevoli geometrie, derivanti dalla presupposizione o meno che da una punto possa passare più di una parallela o nessuna rispetto alla retta data. Questa scoperta, del tutto razionale e coerente dal punto di vista teorico, rompeva il parametro secolare e ritenuto ineccepibile che aveva fatto studiare all'uomo l'esperienza sotto la considerazione di uno spazio a tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità, o, se si preferisce, superfici, linee e volumi). Ora, invece, diveniva perfettamente logico e legittimo parlare e ammettere uno spazio a dimensioni diverse. Esemplari sono le parole di Helmholtz nel suo saggio dal titolo Sull'origine e il significato degli assiomi geometrici (1870). Nella presentazione di esso egli scrive: “immaginiamo degli esseri dotati di una intelligenza simile alla nostra, ma che vivono in uno spazio a due dimensioni, e cioè avente lunghezza e larghezza, e mancante di altezza; ammessa che tale superficie sia piana, è possibile costruire una geometria identica a quella euclidea per tutto quello riguardante linee e superifici, ma l'idea di una terza dimensione e di un movimento in essa sarebbe per loro un'idea inconcepibile così come per un cieco non è possibile concepire i colori: allo stesso modo in noi che non riusciamo a rappresentarci uno spazio che abbia più di tre dimensioni. Immaginiamo però che questi esseri, intelligenti come noi e a due dimensioni, non stiano su una superficie piana, bensì sferica. Ecc, in questo caso è possibile costruire una geometria non-euclidea ove la linea più breve tra due punti sarebbe il massimo arco del cerchio passante per i due punti considerati”. Questi sviluppi teorici troveranno in seguito applicazione con l'avvento della teoria della relatività.
Importante per lo sviluppo della geometria non-euclidea è l'opera di Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico e fisico tedesco, autore del saggio Disquisitiones arithmeticae, del 1801. Nel corso dei suoi studi elaborò importanti concetti, quale quello della curvatura delle superfici. Concetto che ebbe grande importanza nello sviluppo delle geometrie non-euclidee. Egli stesso considerò la possibilità di fondare geometrie diverse da quella di Euclide. Questa sua considerazione, però, rimase inedita.
Deve essere ricordato anche il matematico russo e professore Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1793-1856), che enunciò i principi di una nuova geometria nei saggi Geometria immaginaria, del 1837, Ricerche geometriche sulla teoria delle parallele, Pangeometria e Nuovi principi della geometria.
Importante anche Janos Bolyai (1802 – 1860), matematico ungherese, che in una lettera al padre, anch'egli matematico e seguace di Gauss, aveva enunciato le linee essenziali delle geometrie non-euclidee contrastanti il quinto postulato di Euclide. Queste supposizioni vennero pubblicate in un'appendice dell'opera del padre nel 1832 – 1833, e in essa Bolyai afferma che la scoperta delle geometrie non-euclidee porta alla concezione della “geometria assoluta”, di cui quella euclidea sarebbe solo un caso particolare.
Decisiva è anche la figura di Bernhard Riemann (1826 – 1866), matematico tedesco e professore a Gottinga, autore del saggio sulle geometrie non-euclidee dal titolo Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, in cui afferma che “sembra che i concetti empirici su cui si sono basate le misurazioni spaziali, in particolare i concetti di corpo solido e raggio luminoso, cessino di valere nell'infinitivamente piccolo, di conseguenza si può benissimo concepire che nell'infinitivamente piccolo le relazioni metriche dello spazio non siano in accordo con i postulati della geometria[...]”.
Giovanni Girolamo Saccheri (1667 – 1733), matematico italiano, nell'opera Euclides ab omni naevo vindicatus, del 1733, giunge, invece, senza volerlo, a conseguenze che anticipano le geometrie non-euclidee, cercando di dimostrare la validità del quinto postulato di Euclide per assurdo.
Le teorie non-euclidee aprirono la strada a nuovi orientamenti epistemologici. Da essi deriva la teoria della relatività di Albert Einstein (1879 – 1955), matematico e fisico tedesco, autore del saggio l'Elettrodinamica dei corpi in movimento, del 1905, della Relatività. Esposizione divulgativa, pensieri degli anni difficili e dei Fondamenti della teoria generale della relatività, del 1916. La teoria della relatività nasce dalla necessità di dare spiegazioni all'interno degli esperimenti di ottica e di elettrodinamica. In tale teoria spazio e tempo non sono più interdipendenti, come affermava la fisica classica, anche se questa rimane valida perché in quel contesto tale principio non pone problemi rilevanti.
Altro capisaldo della fisica classica e della concezione dell'universo che entra in crisi è il principio della continuità. Ciò ad opera di Max Plank (1858 – 1947), il quale per dare spiegazione di alcuni fenomeni delle radiazioni elettromagnetiche, formula il concetto di quanto elementare di azione. Tale concetto nasce dalla constatazione e dalla scoperta che l'energia non può esser assorbita o emessa dalla materia sotto forma di radiazioni per quantità piccole a piacere, e quindi in maniera continua, ma sempre per quantità determinate, multiple di una costante (detta di Plank) e, quindi, in maniera discontinuo. A tal proposito Plank afferma che la natura procede a salti e con “salti assai singolari”. Questa scoperta fa abbandonare la fisica meccanica corpuscolare, che ha come metodo epistemologico di base la concezione dei corpuscoli o punti immateriali aventi un movimento stabilito ed invariabile, per adottare la fisica ondulatoria, dove i processi vengono spiegati come singole onde materiali corrispondenti alle vibrazioni del sistema. Ad Heisenberg si deve, invece, il fondamentale principio di indeterminazione. Tale principio sconvolge non solo la concezione tradizionale dell'universo, ma anche e soprattutto il rapporto tra osservatore ed osservato, ossia lo schema fondamentale di ogni ricerca scientifica sperimentale. Le leggi naturali, infatti, non esprimono relazioni fisse della natura, ma possono dare soltanto una formulazione statistica dei fenomeni osservati e del loro esito probabile; e questo non per un difetto degli strumenti di osservazione (che si potrebbe sempre sperare di eliminare con il progredire della tecnica), ma per la struttura stessa del materiale osservato e per le inevitabili e imprevedibili modificazioni e perturbazioni necessariamente apportate a tale struttura dal progresso di osservazione (si pensi soltanto all'energia necessaria a illuminare l'oggetto da osservare, che inevitabilmente si trasmette in esso, almemo in parte); tali modificazioni e perturbazioni, si è detto, sono imprevedibili perché per controllarle ed accertarle si dovrebbe, con un secondo metodo di osservazione B, osservare, e quindi modificare e perturbare il processo di osservazione A, e così all'infinito. Un nuovo apporto alla scienza viene dato dal principio di complementarietà (1927), formulato dal fisico danese Niels Bohr (1885 – 1962). Le sue opere principali prendono il titolo di Teoria dell'atomo e descrizione della natura (1931), di Fisica atomica e conoscenza umana (1958), di Saggi su la fisica e la conoscenza umana (1958 – 1962). Secondo il principio di complementarietà lo studio corpuscolare di un sistema deve essere integrato allo studio ondulatorio del sistema stesso, anche se tra i due tipi di misure non vi può essere alcun tipo di passaggio. La scuola di Bohr ha, in tal modo, eccentuato il carattere probabilistico e indeterministico della scienza moderna, contro le interpretazioni realistiche di Planck. Di notevole importanza anche gli sviluppi della teoria evoluzionistica, che, oltre a tante entusiaste adesioni, ebbe anche delle forte polemiche e critiche sia in capo scientifico che religioso e morale. Per quanto riguarda gli aspetti propriamente scientifici, si trattava di capire come si ereditassero i caratteri acquisiti. De Vries (1848 – 1935), autore di una Teoria delle mutazioni e di una Specie e varietà. La loro origine della mutazione, afferma che le mutazioni avvenivano grazie a piccole mutazioni discrete, e cioè per salti, o, ancora meglio, per discontinuità. Ciò significa che tra la forma dell'organismo precedente e il successivo non si ha un carattere intermedio. L'unione di evoluzionismo e genetica portò invece contributi chiarificatori con l'opera dell'abate austriaco Gregor Mendel (1822 – 1884). Importante è un suo saggio del 1866 in cui opera degli esperimenti di ibridazioni di piselli, ossia vengono incrociate piante con caratteristiche tra loro diverse. Questi studi chiarirono il fatto che i caratteri non si ereditano in maniera diretta, ma attraverso i geni, ossia attraverso fattori interni che in seguito ricompariranno nella progenie, ovvero le caratteristiche dominanti; altre, invece, dette caratteristiche recessive, scompariranno per ricomparire nelle generazioni successive. 

sabato 28 luglio 2012

Le nuove prospettive epistemologiche e i nuovi orientamenti scientifici.


La seconda metà dell'ottocento assume un'importanza rilevante per la complessità dei temi trattati e per la rivolta contro il positivismo. La vita umana, individuale e sociale, appariva condizionata da fattori (naturali e storici) non controllabili dalla ragione e dalla scienza. Inoltre, lo scientismo perdeva la sicurezza che aveva assunto durante il periodo positivista per gli sviluppi stessi della ricerca e per il progresso scientifico. Ciò ebbe la conseguenza di far ritornare in luce tutte quelle tematiche etiche, religiose e morali che il positivismo aveva creduto di abbattere per sempre o, comunque, di poter controllare sotto una direttiva materiale e concreta. Viene messo in discussione il valore stesso della scienza, delle sue ipotesi e delle sue leggi; e ciò al fine di rifondarle. Entra in crisi l'idea di una natura meccanica e, quindi, l'idea scientista della realtà. La scienza perde certezza e al suo posto inizia ad affermarsi un nuovo orientamento epistemologico che afferma la validità dei casi statisticamente verificati. Le leggi, inoltre, vengono interpretate come convenzioni che devono necessariamente essere verificate mediante l'esperienza.
L'ultimo decennio dell'ottocento vede l'uomo mettere in discussione i parametri con cui nel corso dei secoli si era interrogato. Ed infatti, si avanzano una serie di concezioni innovative, quali le geometrie non – euclidee, la teoria della relatività e dei quanti, sino a giungere all'affermazione del determinismo, che non mise in crisi questa o quella scienza, ma i fondamenti stessi di essa ad iniziare dal principio di causalità.
L'empiriocriticismo è una corrente di pensiero fondata da due pensatori che giungono a conclusioni simili da ricerche del tutto indipendenti. Il primo prende il nome di Richard Avenarius (1843 – 1896), autore del saggio dal titolo Critica all'esperienza pura; il secondo prende il nome di Ernst Mach (1838 – 1916) autore de L'analisi delle sensazione e il rapporto tra fisico e psichico e di Conoscenza ed errore.
L'empiriocriticismo fa appello al ricorso dell'esperienza pura, e polemizza contro qualsiasi uso di motivi metafisici all'interno della filosofia e della scienza. Facendo ciò si venivano a confutare ed invalidare concezioni e presupposti che ormai apparivano indistruttibili, come quello di una distinzione tra un mondo interno ed uno sterno, frutto di un'operazione artificiale, e non conseguente ad una validazione data dall'esperienza pura. In altre parole, l'empiriocriticismo polemizza contro le istanze soggettivistiche, ossia contro coloro che in maniera del tutto arbitraria hanno dato vita ad un processo di interiorizzazione per cui si attribuisce all'interno del pensiero un qualcosa che trova fondamento e sede solo ed unicamente nell'esperienza. Ed infatti, l'empiriocriticismo afferma che la scissione dell'esperienza in cose, immagini o concetti, e la collocazione di essi nel cervello o nella mente come un qualcosa di interno, è del tutto arbitraria e non ha fatto altro che far sorgere una serie di problemi filosofici mal posti e mai risolti come la dualità di anima e corpo. Il compito fondamentale della filosofia è, pertanto, quello di chiarire e far comprendere il concetto di esperienza pura. Concetto che ci riporterà al concetto naturale del mondo, anteriore ad ogni falsa distinzione tra psichico e fisico, e perciò veramente libero da qualsiasi presupposto metafisico. L'empiriocriticismo afferma anche il principio di economia nel metodo scientifico, ossia quello di cercare di ottenere il massimo dei risultati con il minimo dispendio di energia o sforzo.
È da dire che i procedimenti scientifici isolano certi aspetti della realtà. Aspetti che vengono concentrati in un sistema di esperienze del passato in vista della loro utilizzazione nel futuro. Per capire ciò basta pensare all'enorme risparmio che si ha nel non dovere ripetere tutte le esperienze del passato e, insieme, il potere utilizzare le loro conquiste per affrontare i nostri problemi. I concetti scientifici, pertanto, hanno valore solo in senso utilitario e di risparmio di sforzi, ma non rispecchiano per nulla fatti o leggi in sé. Per meglio chiarire quello che abbiamo detto, basta pensare al fatto che anche nella vita quotidiana un'indicazione, un simbolo o un segno possono risparmiarci azioni inutili e dispendiose e metterci in guardia da azioni nocive o inefficaci. Con il radicale empirismo di Mach entra in crisi il concetto stesso di causalità, che viene sostituito da quello di funzione in senso matematico. Ovviamente, una volta che la scienza viene intesa come studio di funzioni o di gruppi di funzioni, diviene logico che scienze apparentemente distantissime tra di loro, come la fisica e la psicologia, vengano, invece, ritenute del tutto analoghe, in quanto si riferiscono solo a gruppi di funzioni diverse. Infine, l'empiriocriticismo, volendo togliere qualsiasi residuo metafisico rimasto nella scienza e nella filosofia, critica anche il concetto di atomo, che tanta approvazione aveva avuto durante il positivismo. L'atomo, infatti, non ha un fondamento assoluto o un fondamento obiettivo privilegiato, ma risponde anch'esso al criterio di funzionalità, efficacia ed economicità; pertanto, il concetto di atomo può esser subordinato a qualcosa di maggior economicità, funzionalità ed efficacia.

martedì 24 luglio 2012

La filosofia dell'ottocento in Italia


Il pensiero filosofico dell'ottocento italiano è fortemente legato all'atmosfera risorgimentale della nostra nazione. In tale contesto si inserisce l'opera di Vincenzo Cuoco (1770 – 1823), autore dei Frammenti di lettere rivolte a V. Russo sul Progetto di costituzione della Repubblica (1799); del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana (1801); del Platone in Italia (1804 – 1806), del Rapporto al Re Gioacchino Murat e del Progetto di decreto per l'organizzazione della pubblica istruzione (1809).
Nei Frammenti di lettere rivolte a V. Russo, Cuoco afferma che le costituzioni sono come i vestiti e le scarpe, e, pertanto, devono essere fatte su misura per chi deve indossarli. Ciò significa che le costituzioni non possono esser imposte dall'esterno, ma devono innestarsi agli usi e costumi, alla cultura e alla tradizione di un popolo. Cuoco difende la verità di questa sua concezione con l'esemplare caso del fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Una rivoluzione che aveva basato le proprie speranze su modelli presi dall'estero, che mal si adattavano alla realtà partenopea.
Nell'Italia risorgimentale si diffondono tematiche propriamente romantiche. In questo contesto si inserisce il principio di nazionalità, inteso come diritto di ogni nazione di elaborare in maniera libera e indipendente la propria forma di civiltà.
Il panorama risorgimentale italiano ha come suo protagonista fondamentale la figura di Giuseppe Mazzini (1805 – 1872). Questi dedicò la propria vita esclusivamente all'attività politica. Fu esponente della carboneria, fondatore della Giovine Italia (1831) e poi della Giovine Europa (1834). Fu una figura preminente nella promozione del risorgimento e dell'unità d'Italia, anche se non elaborò una concezione repubblicana del nostro paese. Il suo scritto più importante è i Doveri dell'uomo del 1861.
Mazzini rifiuta l'idea di poter riunire la nostra nazione mediante semplici operazioni diplomatiche, alleanze, aiuti di potenze straniere o col semplice ricorso delle armi. Per Mazzini l'unità può esser raggiunta soltanto se alla liberazione dello straniero corrisponde la liberazione da ogni forma di tirannide interna. A tal fine, bisogna promuovere un'opera di educazione che possa far nascere negli italiani dei forti sentimenti morali. Il principio di tale educazione smantella l'ideale illuministico dei diritti dell'uomo, che per Mazzini sfociano nell'egoismo e nel materialismo, per affermare il primato dei doveri dell'uomo, che derivano direttamente da Dio e che interessano tutte le sfere della vita dell'individuo, dalla familiare alla sociale e nazionale. Questa concezione farà sì che Mazzini ripudi ogni concezione socialista e comunista affermante lo smantellamento della proprietà privata; ed infatti, solo mediante la libera associazione si può avere un'ampia distribuzione dei beni. Beni che devono esser considerati come il frutto del proprio adempimento ai doveri. Infine, il nostro filosofo giunge a concepire la formazione degli Stati Uniti di Europa.
Ebbero una vasta importanza nel panorama filosofico italiano i cosiddetti ideologi. Questi prendono il nome dall'opera principale di Destutt de Tracy (1754 – 1836). L'ideologia vuole accantonare qualsiasi ipotesi infondata, come quella della conoscenza dell'anima, per soffermarsi soltanto sulla descrizione analitica ed organica degli elementi costituenti la coscienza. L'ideologia, pertanto, riprende il programma di Condillac, ma, al contempo, lo sviluppa ulteriormente per portarlo a compimento, ed infatti, studia il rapporto tra la coscienza e la vita organica, e, quindi, tra la filosofia e la fisiologia. L'uomo per gli ideologi costituisce una complessa unità di processi psicologici e fisiologici. In tale contesto, si inserisce l'opera di Gian Domenico Romagnosi (1761 – 1835). Questi fu filosofo, giurista e pensatore politico. Le sue opere più importanti sono la Genesi del diritto penale, del 1791; l'Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, del 1805; Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, del 1815; Che cos'è la mente sana?, del 1827; Della suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana, del 1828; Vedute fondamentali sull'arte logica, del 1832 e la Giurisprudenza teorica ossia Istituzioni di civile filosofia, postuma (1839).
Di Romagnosi bisogna ricordare il concetto di filosofia civile. Concetto che nasce dalle tormentate vicende personali politiche e che auspica ad una nuova forma di filosofia che abbia il compito di studiare le condizioni e le forme in cui storicamente si attua l'incivilimento dei popoli e delle nazioni. Bisogna, quindi, definire quella legge massima ed unica che regola le vicende politiche. Una legge massima ed unica che tenga presente della perenne tendenza a realizzare un equilibrio tra gli interessi e i poteri in conflitto. Per quanto riguarda i problemi più specificatamente gnoseologici, Romagnosi critica fortemente Kant, che, conosciuto in maniera superficiale e semplicistica, viene accusato di aver fondato una “speculazione che sta tra le nuovole” perché si avvale di nozioni a priori “innate e gratuite”. Per Romagnosi la vita della coscienza non può prescindere dall'esperienza, ma non può esser spiegata solo tramite essa. Ed infatti, la coscienza non può esplicarsi tramite la semplice associazioni o trasformazione delle sensazioni, ma si avvale, invece, di un senso logico o razionale, che fa operare una collaborazione tra me e non-me, tra interno ed esterno. Pertanto, nella conoscenza, oltre alle sensazioni, ricorrono le logie, ossia dei concetti che non derivano dalle sensazioni e che consentono di stabilire tra le sensazioni dei rapporti intellettivi, che altrimenti rimarrebbero inspiegabili senza l'azione della nostra mente. Detto ciò, appare chiaro che viene superata la concezione della statua di Condillac, affermante che la vita della coscienza si possa spiegare con la semplice percezione delle impressioni sui singoli sensi, per ammettere l'esistenza di concetti che, non ricavabili dall'esperienza, consentono di spiegare le intellezioni.
Pasquale Galluppi (1770 – 1846), esponente importante per la ripresa e l'approfondimento della filosofia tedesca, fu autore di un Sull'analisi e su la sintesi (1807), del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (1819 – 22), di Elementi di filosofia (1820 – 1827), delle Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia relativamente ai principi delle conoscenze umane da Cartesio a Kant (1827), delle Lezioni di logica e metafisica (1832 – 1834) e della Filosofia della volontà (1832 – 1840).
Galluppi conosce in maniera approfondita la filosofia tedesca e critica il Condillac perché non ha operato una distinzione tra senso ed intelletto e il Kant perché è caduto nello scetticismo, anche se gli viene riconosciuto il merito di aver enunciato la necessità di distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo nella conoscenza. Kant, infatti, non è altro che lo stadio conclusivo di una filosofia soggettivistica che ha come iniziatore il Cartesio. Filosofia soggettivistica che, tra l'altro, non è riuscita a superare le istanze scetticistiche di Hume. Ciò perché Kant muove da una prospettiva del tutto razionalistica, che ammette degli a priori del tutto infondati. I fantomatici giudizi a priori, infatti, non esistono e non possono in alcun modo fondare l'oggettività della conoscenza. Bisogna, semmai, partire da un fatto incontestabile, ossia dalla coscienza dell'io come sentimento del me. Tale sentimento del me è inseparabile dal sentimento di qualcosa di fuori di me. Il sentimento del me unito a quello del fuori di me permette una sintesi reale, ovvero l'instaurazione di un rapporto oggettivo, la cui analisi consente la scoperta di relazioni reali, oggettivamente fondate. Questa via ci porta, inoltre, ad ammettere l'esistenza di un Essere assolutamente necessario, creatore sia del me che del fuori di me. Dalle relazioni reali, oggettivamente fondate, vanno separate le sintesi logiche o ideali, ossia i rapporti di identità e differenza che non hanno effettiva realtà al di fuori del nostro pensiero, ma risultano semplicemente dall'attività dell'intelletto, e sono, quindi, elementi sempre soggettivi della conoscenza. Nonostante questo suo sforzo di fondare il sapere in maniera oggettiva, Galluppi rimane ancorato ad una prospettiva soggettivistica. Tale critica gli verrà mossa in special modo da Antonio Rosmini.
Antonio Rosmini Serbati (1797 – 1858) fu un autore prolifico. Tra le sue opere le più importanti sono: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), la Costituzione secondo la giustizia sociale (1848), il Nuovo saggio sull'origine delle idee (1830), i Principi della scienza morale (1831), la Filosofia della morale (1837), la Filosofia della politica (1839), la Filosofia del diritto (1841 – 1845) e la Teodicea (1845).
In Rosmini confluiscono istanze del sensismo, dell'ideologia, del criticismo kantiano e di filosofia antica e medievale, in special modo di Platone e di forme di platonismo, quali quelle offerte da S. Bonaventura. Il suo sistema filosofico abbraccia più campi, e si interessa di ontologia, gnoseologia, etica, politica e diritto. Rosmini riafferma la validità della filosofia cristiana e si scaglia contro le tendenze soggettivistiche ed empiristiche del pensiero moderno, che viene da lui considerato negativo per le conseguenze che può portare in campo politico e morale. In Rosmini diviene centrale l'idea dell'Essere, che non solo fonda l'oggettività della conoscenza, ma anche morale. Per Rosmini la conoscenza non può derivare soltanto dall'esperienza sensibile, come affermava l'empirismo e il sensismo, e non può nemmeno scaturire da funzioni ed attività del soggetto, come affermava Kant. La conoscenza, infatti, si fonda su un qualcosa che è indipendente dalla mente, e cioè sull'idea dell'essere. Un'idea che la mente coglie e che non può porre. Ed infatti, se togliamo da qualsiasi nostra conoscenza tutte le qualità (bianco, ruvido, amaro, ecc.) ci rimane sempre un qualcosa che non è il puro nulla, ossia l'essere della cosa che abbiamo spogliato delle sue qualità. Ora, è anche vero che un essere spogliato delle sue determinazioni rimane inconoscibile, ed esprime soltanto la possibilità degli enti, ma è anche vero che senza l'idea dell'essere non possiamo conoscere nulla, perché l'essere è il punto iniziale, necessario, fondante di tutte le altre idee.
L'idea dell'essere è, pertanto, la vera forma di ogni conoscenza e si differenzia dalle forme kantiane perché è unica e semplice, e non molteplice come le categorie, e perché è un oggetto immediato ed intuitivo della mente, e non il prodotto della sua attività.
L'idea dell'essere è il lume mediante il quale la nostra mente pensa e conosce, e per tale ragione si differenzia da tutte le altre idee, che sono invece formate dalla nostra mente e che sono il risultato di un giudizio.
L'idea dell'essere preso in esame fino a questo punto ha un carattere meramente formale, con implicazioni gnoseologiche, che vanno distinte da quelle ontologiche e teologiche. Ed infatti, nell'idea dell'essere, l'essere viene colto solo in maniera ideale, e non reale. Ciò significa che tale idea deriva da Dio, anzi è la presenza di Dio nella nostra mente. Una presenza che non esaurisce ovviamente l'infinita realtà di Dio. Pertanto, tramite l'idea di Dio noi possiamo arrivare ad affermare che Dio è, ma non possiamo sapere come Dio è, e non possiamo averne esperienza diretta e piena.
L'esperienza umana nella sua attività conoscitiva si fonda sul sentimento fondamentale, ossia su quel sentimento che ci permette di sentire che la vita è in noi, che ci fa percepire il nostro corpo come identico a noi stessi, come unito indissolubilmente al nostro spirito. Per tali ragioni, il sentimento fondamentale occupa un posto intermedio tra l'attività della nostra anima e la passività dei nostri sensi. L'idea dell'essere, inoltre, fonda una morale oggettiva. Ed infatti, l'essere non è solo principio gnoseologico fondante, né soltanto principio ontologico fondante, ma è anche principio morale fondante. Ciò perché bene ed essere coincidono, sono la medesima cosa: ogni cosa è buona nella misura in cui partecipa dell'essere. In tale contesto la volontà è buona se riconosce il vero ordine manifestatole dall'intelligenza. Un ordine in cui le cose dipendono da Dio e tendono ognuna di esse a giungere a quella perfezione assegnategli.
Vincenzo Gioberti (1801 – 1852), dottore in teologia e sacerdote dal 1825, ha come opere principali La teorica del soprannaturale (1838), l'Introduzione allo studio della filosofia (1840), Del primato morale e civile degli italiani (1843), Il gesuita moderno (1846 – 1847), Del rinnovamento civile d'Italia (1851) e Protologia, pubblicata postuma.
Per Gioberti la formulazione di una nuova filosofia è legata al progetto di rinnovamento della civiltà europea, a cui l'Italia, in quanto paese specificatamente cattolico, deve apportare un contributo determinante. Gioberti critica fortemente tutta quanta la filosofia moderna che, da Cartesio sino all'idealismo moderno, non ha fatto altro che eccentuare il divario tra filosofia e teologia, cadendo in un estenuante soggettivismo e psicologismo. Bisogna, pertanto, riportare ad unione la filosofia con la teologia, e ciò non nel senso di subordinare l'una all'altra, ma nel senso di riportarle alla loro fonte di origine: la creazione. Creazione che non è avvenuta una volta per tutte, ma che è, invece, il frutto di un processo continuo in cui Dio pone fuori da sé le creature, tenendole, però, sempre in rapporto con sé. Ciò viene espresso dalla formula l'Ente crea l'esistente. Tale concezione non ha una validità soltanto ontologica, ma, anche, gnoseologica, ed infatti lo spirito umano conosce in quanto in ogni istante della sua vita intellettiva è spettatore diretto ed immediato della creazione con una sorta di intuito. Ciò detto, Gioberti non solo ritiene di aver dato un fondamento oggettivo alla conoscenza, ma polemizza contro coloro che affermano che il linguaggio abbia un'origine puramente umana. Il linguaggio, infatti, come la natura, la religione e la società può esser spiegata solo mediante la creazione. Ciò non toglie che alla perfezione originaria del linguaggio, siano subentrati una serie di lingue costruite dall'uomo, ed incapaci di esprimere l'Idea. Questa caduta di perfezione originaria non riguarda solo il linguaggio, ma tutta la vita dell'uomo, tanto che la storia viene spiegata come una palingenesi, ossia come ritorno all'Essere ideale, come riscatto della caduta e riavvicinamento a Dio. In tale contesto, un posto preminente ha l'Italia, paese in cui non si è mai perso del tutto l'unità originaria di filosofia e teologia.
Una ripresa dell'hegelismo si ha con Bertrando Spaventa ed Antonio Labriola.
Bertrando Spaventa (1817 – 1883) scrisse la Prolusione e introduzione alle lezioni di Filosofia nell'università di Napoli del 1861, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea del 1908, Le prime categorie della logica di Hegel del 1864, Logica e metafisica del 1911, Esperienza e metafisica del 1888, Scritti filosofici del 1900 e da Socrate ad Hegel del 1905.
Per Spaventa il pensiero in atto è l'unica autentica garanzia di una filosofia che voglia essere concreta. La dialettica di Hegel con il suo essere, nulla, divenire deve essere intesa come movimento del pensiero, come atto. Se non si fa ciò non si avrebbe alcun movimento effettivo e non si potrebbe superare l'opposizione tra essere e pensare.
La filosofia, per Spaventa, è l'espressione ultima e più viva della vita di un popolo e la filosofia italiana ha anticipato gli sviluppi della filosofia europea: Telesio e Campanella avrebbero anticipato Bacone e Locke; ancora Campanella avrebbe anticipato il Cartesio; Giordano Bruno sarebbe stato il precursore di Spinoza e Leibniz, E Gianbattista Vico avrebbe anticipato tutta la filosofia tedesca.
Altro esponente di spicco dell'hegelismo italiano è Antonio Labriola (1843 – 1904). i suoi scritti filosoficamente più rilevanti sono La dottrina di Socrate, secondo Senofonte, Platone e Aristotele, del 1871; Morale e religione, del 1873; Dell'insegnamento della storia, del 1876; In memoria del manifesto dei comunisti, del 1895; Del materialismo storico, del 1896; Discorrendo di socialismo e di filosofia, del 1898; Scritti vari di filosofia e di politica, postumi, del 1906.
Labriola polemizza contro quelle interpretazioni ingenue e superficiali del materialismo storico marxista per sottolineare l'attenzione sulla teoria obiettiva della rivoluzione. Per tale ragione critica coloro che interpretano la storia come il frutto di fattori indipendenti, per sottolineare che essa è il prodotto di fattori economici, che si articolano in due momenti ben distinti. Ed infatti, dalla natura economica si generano in primo luogo e direttamente la formazione delle classi e la loro conseguente lotta. Dalle classi derivano i rapporti giuridici, istituzionali e morali. Da queste si generano, in secondo luogo e indirettamente, l'arte, la religione e la scienza.
Labriola, inoltre, cerca di eliminare qualsiasi tipo di antitesi tra la filosofia e la scienza. La prima, infatti, anticiperebbe problemi che saranno poi studiati e risolti dalla scienza.
Il positivismo ha diffusione anche in Italia e conserva tutte quelle caratteristiche che sono proprie del movimento: polemica contro qualsiasi tipo di metafisica, fiducia nella scienza e nella tecnologia, sviluppo di una filosofia che si soffermi sui fatti.
Le due personalità che diedero un forte impulso agli studi positivistici nel nostro paese furono Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari.
Carlo Cattaneo (1801 – 1869) fondò nel 1839 l'importante rivista scientifica dal nome Politecnico. I suoi scritti più rilevanti sono l'Invito agli amatori della filosofia, del 1857 e l'Idea di una psicologia della scienza del 1859.
Cattaneo avanza l'esigenza di unire la filosofia alla scienza e concepisce la teoria della psicologia delle menti associate. Per Cattaneo bisogna studiare i fatti e non le facoltà dell'animo. Per fare ciò bisogna mettere da parte la concezione del cogito di Cartesio, che aveva staccato il pensiero dalla natura e dalla società, per rivalutare l'importanza che opera nelle menti la società attraverso la tradizione, il linguaggio e la storia.
Giuseppe Ferrari (1811 – 1876) fu autore di una Filosofia della rivoluzione, del 1851; di un Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, del 1843; di un Corso sugli scrittori politici italiani, del 1862 e di una Teoria dei periodi politici, del 1874.
Ferrari è profondamente influenzato dalla filosofia del Vico, che sviluppa in senso vitalistico per interessi etico-politici. Per Ferrari, il pensiero soffre di contraddizioni interne sempre più gravi, da cui si può uscire soltanto soffermandosi sul fatto. Il pensiero, quindi, non ci consente di rintracciare un senso preciso delle cose. A questa sfiducia nelle capacità teoriche dell'uomo corrisponde un grande impegno morale e politico finalizzato all'instaurazione di una società egalitaria.
La personalità più rappresentativa ed eminente del positivismo italiano è quella di Roberto Ardigò (1811 – 1920). Divenuto Sacerdote, nel 1871 depose l'abito talare. Nel 1869 pubblica il Discorso su Pietro Pomponazzi; nel 1870 la Psicologia come scienza positiva; nel 1877 La formazione naturale nel fatto del sistema solare, nel 1885 La morale dei positivisti; nel 1886 La sociologia; nel 1891 Il vero, nel 1894 La ragione e nel 1898 L'unità della coscienza.
Ardigò critica Spencer per la sua concezione dell'Ignoto come un qualcosa di inconoscibile che legittimare una religione. In realtà, ci rimane ancora molto da conoscere. Ciò, però, non implica il credere in un qualcosa che si trova al di là delle possibilità conoscitive umane. Bisogna, semmai, ammettere che il nostro sapere ha un limite, che, comunque, verrà continuamente superato.
La realtà si sviluppa e procede attraverso un continuo passaggio dall'indistinto al distinto. Così dall'essere primitivo del sistema solare che era una semplice nebulosa, attraverso successive distinzioni, si sono formate i vari pianeti; allo stesso modo di come da un embrione di un mammifero si sviluppano tutte quelle distinzioni che attualizzeranno un dato e specifico animale. Questo processo dall'indistinto al distinto è sempre in atto e procede tutt'ora. Esso si svolge attraverso un ritmo diverso dalla pura e rigida necessità quanto dall'assoluta causalità. Ed infatti, ogni evento rinvia ad una causa prossima. Causa prossima e necessaria che si può realizzare in infiniti modi. Conseguentemente si possono avere infiniti ordinamenti. 

sabato 21 luglio 2012

Herbert Spencer

Herbert Spencer nasce a Derby il 26 Aprile del 1820 e muore l’8 Dicembre del 1908. Scrive Statica sociale (1850), Principi di psicologia (1855) e nel 1860 il primo volume della sua grande opera sistematica in 10 volumi: I principi primi, a cui seguono i Principi della biologia, i Principi di Psicologia, i Principi di sociologia e i Principi della moralità. Nel 1904, postuma, si ha la sua Autobiografia.
La dottrina dell’evoluzione di Darwin diviene in Spencer una teoria generale della realtà, e viene applicata in tutti i campi: alla natura inanimata e a quella vivente, alla vita psichica e a quella sociale, politica e morale. Tutto ciò secondo una visione del Sapere unitario, dove solo la filosofia può superare le tradizionali diatribe tra scienza e religione riguardo all’Assoluto. Anche Spencer era giunto alla dottrina evoluzionistica, e Darwin lo afferma nel suo lavoro, ma egli con tale teoria spiega l’intera realtà secondo una legge unitaria che comporta il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indefinito al definito, dall’incoerente al coerente. Spencer individua alcuni principi generali o principi primi o verità primarie, che sono: l’indistruttibilità della materia, la continuità del movimento, e la persistenza della forza, vale a dire che tutte le cose subiscono dei movimenti, e cioè che nell’universo c’è una continua redistribuzione di materia e di movimento. L’evoluzione ha un carattere ritmico, ossia procede secondo un processo continuo di integrazione e disintegrazione. Tale processo è meno visibile negli esseri inorganici dove tale processo si esplica in irradiazione e assorbimento di calore; negli esseri viventi si ha invece la lo sviluppo, la crescita o la morte a seconda se prevale rispettivamente l’integrazione e la disintegrazione. La vita dunque ha un carattere intrinsecamente ritmico ed è una continua tensione a realizzare un equilibrio tra evoluzione e dissoluzione, tra integrazione e disintegrazione. Detto in altre parole, sul piano dell’organismo, la vita è una continua tendenza ad adattare le relazioni interne dell’organismo a quelle esterne dell’ambiente, in modo da salvaguardare l’equilibrio delle relazioni interne stesse, la cui disintegrazione e scompaginamento è appunto la morte. Anche la vita psichica si spiega come ricerca di equilibrio tra le relazioni interne e le esterne, la differenza sta nel fatto che sul piano dell’intelligenza le relazioni esterne a cui quelle interne devono adattarsi sono sempre più complesse e oscure e vengono formulate simbolicamente. La realtà per Spencer rimane inconoscibile e la coscienza dell’uomo si spiega con l’evoluzione e l’ereditarietà, ossia con l’accumulazione e la trasmissione, attraverso la storia e l’educazione, di certe relazioni tra concetti e simboli. Spencer da un lato afferma l’a priori conoscitivo dei singoli uomini, e si immette all’interno di un pensiero empiristico, ma sottolinea che tale a priori è valido all’interno di un contesto storico che lo determina e lo condiziona. È da dire che, però, per Spencer la conoscenza è sempre una conoscenza che va per concetti, per simboli, e quindi l’imitata alla conoscenza di manifestazioni, e mai dell’intrinseca natura delle cose, pertanto non si può avere nemmeno un conflitto tra scienza e religione, in quanto si ha la coscienza definita, che consta di una logica che formula pensieri completi e completabili, e una coscienza indefinita, che consta di pensieri non completabili, ma non per questo meno reali. I conflitti sono nati perché non si sono tenuti debitamente separati i due campi: la religione è coscienza dell’incomprensibile, la scienza è invece coscienza dei nostri limiti di fronte all’incomprensibile. La filosofia è invece una conoscenza più alta in quanto unifica i vari saperi. Per quanto riguarda la sociologia egli si avvale di un metodo comparativo, applicato alla concezione evoluzionistica generale dello sviluppo storico delle società e delle istituzioni politiche, dove le istituzioni formano un grande organismo vivente che per mantenersi in vita deve avere la funzionalità di ogni singola parte. La società si evolve allo stesso modo degli esseri viventi, per cui si va da una società più semplice ad una sempre più complessa, e in tale contesto sopravvivono solo i più forti. La conoscenza e la morale viene ereditata dagli uomini e per essi costituiscono dei principi a priori, validi però solo all’interno di quella cultura e non all’esterno di essa. Quindi è improponibile cercare di applicare costituzioni a stati che non condividono i principi di quelle costituzioni. 

Charles Darwin


Charles Darwin nasce il 12 Febbraio del 1809 e muore il 19 Aprile del 1882. Le sue opere più importanti sono L’origine della specie per mezzo della selezione naturale del 1859 e L’origine dell’uomo del 1871. Si ha, anche, l’Autobiografia, comparsa postuma, nel 1887 e il Diario del suo viaggio intorno al mondo. L’originale concezione di Darwin si inserisce in un contesto di studi che aveva visto l’apporto di vari ricercatori. È da dire che già nel settecento erano nate molte obiezioni verso il naturalista svedese Linneo (1707-1778) secondo cui le specie sono state fissate una volta per tutte all’inizio della creazione. Con le varie scoperte geografiche, però, era diventato sempre più difficile andare a classificare le varie specie e già Buffon aveva avanzato la tesi che la natura sia un continuo flusso di vita, dove le distinzioni non derivano da un ordine statico e precostituito, ma da cambiamenti dati da incessanti movimenti.
Colui che infisse l’attacco più esplicito contro la fissità della specie fu Jean Baptiste Lamark (1744-1829) autore del saggio Filosofia zoologica del 1809. per Lamark la differenza tra le diverse specie derivano dalla necessità di adattarsi all’ambiente e dall’esercizio ripetuto di certe attività (la funzione crea l’organo). Tale differenze emerse per adattamento sono poi divenute ereditarie modificando così le varie specie. Darwin, invece, avanza una teoria sostanzialmente diversa in quanto egli afferma che non bisogna considerare troppo preponderante l’ambiente rispetto all’organismo, inoltre, non bisogna ricorrere ad una sorta di finalità (adattamento) dell’organismo stesso. Bisogna, invece, supporre che nella lotta per la sopravvivenza vengono conservate le variazioni vantaggiose all’esistenza stessa, emerse accidentalmente, ed eliminate quelle nocive; in tal modo si poteva spiegare la trasformazione dei viventi e, quindi, la formazione di nuove specie attraverso la trasmissione ereditaria delle variazioni vantaggiose. Tale concezione trova conferma nel fatto che l’uomo nell’allevamento degli animali o nella coltivazione di piante va a rafforzare certe caratteristiche emerse in maniera accidentale; caratteristiche che vengono poi trasmesse alle generazioni successive. Ora, quello che avviene con l’uomo, mediante una selezione artificiale, avviene anche in natura, grazie alla lotta per la sopravvivenza, dove le specie più forti tendono a riprodursi a discapito di quelle più deboli (selezione naturale). Da questo punto di vista la natura è un grande documento e museo paleontologico, dove è possibile ricostruire un colossale albero genealogico di cui le singole specie rappresentano i vari rami. Restava il problema dei salti tra le varie specie, in quanto non sempre si può trovare il legame connettivo tra specie relativamente vicine. Darwin risponde che nel corso del tempo alcune specie sono andate perdute. La lotta per la sopravvivenza è data dal fatto che le specie si moltiplicano al di là delle effettive risorse cibarie e di sussistenza. La concezione evoluzionistica venne applicata da Darwin anche nell’uomo, il quale sarebbe il risultato di una continuità genetica ed evolutiva della stirpe umana rispetto a forme di vita inferiori. L’uomo, in pratica, è disceso da una forma di vita meno altamente organizzata e ha un progenitore in comune con gli altri mammiferi. Le differenze individuali si spiegano poi, come gli altri esseri di natura, in base alle leggi dell’ereditarietà: anche l’uomo si moltiplica molto al di là delle possibilità dei mezzi di sussistenza, e quindi è soggetto a un’aspra lotta per l’esistenza e alla selezione naturale. Il principio evolutivo vale anche per le facoltà intellettuali e morali. La scoperta del linguaggio, divenuto ben presto ereditario è stato capace di agire sul cervello e di apportare un ulteriore progresso dell’uomo. La morale deriva dall’istinto sociale e dal cercare l’approvazione degli altri esseri della stessa specie. Inoltre, il ricordo del passato con il presente crea nell’uomo quella scontentezza che lo porta a desiderare di agire in futuro in maniera migliore: è la coscienza. In Darwin è anche esplicitata la fiducia in un miglioramento spirituale e materiale del mondo dato dall’evoluzione stessa, dove sopravvivono i migliori.