Un
impulso di notevole importanza alla discussione epistemologica si è
avuta con la scoperta delle geometrie non-euclidee,
compiuta da vari studiosi (Gauss, Lobacevskij, Bolyai,
Riemann), l'uno indipendentemente dall'altro e partiti, nella
prima metà dell'ottocento, da posizioni diverse, ma entrati in
circolo solo alla fine del secolo. La scoperta delle geometrie
non-euclidee assume un'importanza rilevante perché cambia il
modo di studiare la realtà e di interpretare l'oggettività della
scienza. Le geometrie non-euclidee prendono avvio da una
considerazione molto semplice: se i postulati della geometria
euclidea coincidessero davvero e del tutto con la natura delle cose o
solo con la natura della ragione, allora negarne uno, e in questo
caso il quinto (affermante che per un punto esterno ad una retta si
può condurre una ed una sola parallela alla retta data), dovrebbe
portare inevitabilmente e necessariamente a delle conclusioni e
conseguenze contraddittorie. Ora, se si prova a negare il quinto
postulato della geometria euclidea, come fece il matematico italiano
Saccheri con altri scopi, ossia con il fine di dimostrarlo per
assurdo, non derivano affatto delle conseguenze incoerenti e
contraddittorie con i rimanenti postulati. Ciò perché la negazione
del suddetto postulato fa derivare un nuovo tipo di geometria, dalla
quale, però, mediante certe regole, è possibile tornare alla
geometria euclidea. In maniera più precisa, dalla negazione del
quinto postulato nascono innumerevoli geometrie, derivanti dalla
presupposizione o meno che da una punto possa passare più di una
parallela o nessuna rispetto alla retta data. Questa scoperta, del
tutto razionale e coerente dal punto di vista teorico, rompeva il
parametro secolare e ritenuto ineccepibile che aveva fatto studiare
all'uomo l'esperienza sotto la considerazione di uno spazio a tre
dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità, o, se si preferisce,
superfici, linee e volumi). Ora, invece, diveniva perfettamente
logico e legittimo parlare e ammettere uno spazio a dimensioni
diverse. Esemplari sono le parole di Helmholtz nel suo saggio
dal titolo Sull'origine e il significato degli assiomi geometrici
(1870). Nella presentazione di esso egli scrive: “immaginiamo
degli esseri dotati di una intelligenza simile alla nostra, ma che
vivono in uno spazio a due dimensioni, e cioè avente lunghezza e
larghezza, e mancante di altezza; ammessa che tale superficie sia
piana, è possibile costruire una geometria identica a quella
euclidea per tutto quello riguardante linee e superifici, ma l'idea
di una terza dimensione e di un movimento in essa sarebbe per loro
un'idea inconcepibile così come per un cieco non è possibile
concepire i colori: allo stesso modo in noi che non riusciamo a
rappresentarci uno spazio che abbia più di tre dimensioni.
Immaginiamo però che questi esseri, intelligenti come noi e a due
dimensioni, non stiano su una superficie piana, bensì
sferica. Ecc, in questo caso è possibile costruire una geometria
non-euclidea ove la linea più breve tra due punti sarebbe il massimo
arco del cerchio passante per i due punti considerati”. Questi
sviluppi teorici troveranno in seguito applicazione con l'avvento
della teoria della relatività.
Importante
per lo sviluppo della geometria non-euclidea è l'opera di Carl
Friedrich Gauss (1777-1855), matematico e fisico
tedesco, autore del saggio Disquisitiones arithmeticae,
del 1801. Nel corso dei suoi studi elaborò importanti concetti,
quale quello della curvatura delle superfici. Concetto che
ebbe grande importanza nello sviluppo delle geometrie non-euclidee.
Egli stesso considerò la possibilità di fondare geometrie diverse
da quella di Euclide. Questa sua considerazione, però, rimase
inedita.
Deve
essere ricordato anche il matematico russo e professore Nicolaj
Ivanovic Lobacevskij (1793-1856), che enunciò i
principi di una nuova geometria nei saggi Geometria
immaginaria, del 1837, Ricerche geometriche sulla teoria
delle parallele, Pangeometria e Nuovi principi della
geometria.
Importante
anche Janos Bolyai (1802 – 1860), matematico
ungherese, che in una lettera al padre, anch'egli matematico e
seguace di Gauss, aveva enunciato le linee essenziali delle geometrie
non-euclidee contrastanti il quinto postulato di Euclide.
Queste supposizioni vennero pubblicate in un'appendice dell'opera del
padre nel 1832 – 1833, e in essa Bolyai afferma che la scoperta
delle geometrie non-euclidee porta alla concezione della “geometria
assoluta”, di cui quella euclidea sarebbe solo un caso
particolare.
Decisiva
è anche la figura di Bernhard Riemann (1826 – 1866),
matematico tedesco e professore a Gottinga, autore del saggio sulle
geometrie non-euclidee dal titolo Sulle ipotesi che stanno
alla base della geometria, in cui afferma che “sembra che i
concetti empirici su cui si sono basate le misurazioni spaziali, in
particolare i concetti di corpo solido e raggio luminoso, cessino di
valere nell'infinitivamente piccolo, di conseguenza si
può benissimo concepire che nell'infinitivamente
piccolo le relazioni metriche dello spazio non siano in accordo
con i postulati della geometria[...]”.
Giovanni
Girolamo Saccheri (1667 – 1733), matematico italiano,
nell'opera Euclides ab omni naevo vindicatus, del 1733,
giunge, invece, senza volerlo, a conseguenze che anticipano le
geometrie non-euclidee, cercando di dimostrare la validità
del quinto postulato di Euclide per assurdo.
Le
teorie non-euclidee aprirono la strada a nuovi orientamenti
epistemologici. Da essi deriva la teoria della relatività di Albert
Einstein (1879 – 1955), matematico e fisico tedesco, autore
del saggio l'Elettrodinamica dei corpi in movimento, del 1905,
della Relatività. Esposizione divulgativa, pensieri degli
anni difficili e dei Fondamenti della teoria generale della
relatività, del 1916. La teoria della relatività nasce
dalla necessità di dare spiegazioni all'interno degli esperimenti di
ottica e di elettrodinamica. In tale teoria spazio e tempo non sono
più interdipendenti, come affermava la fisica classica, anche se
questa rimane valida perché in quel contesto tale principio non pone
problemi rilevanti.
Altro
capisaldo della fisica classica e della concezione dell'universo che
entra in crisi è il principio della continuità. Ciò ad
opera di Max Plank (1858 – 1947), il quale per dare
spiegazione di alcuni fenomeni delle radiazioni elettromagnetiche,
formula il concetto di quanto elementare di azione. Tale
concetto nasce dalla constatazione e dalla scoperta che l'energia non
può esser assorbita o emessa dalla materia sotto forma di radiazioni
per quantità piccole a piacere, e quindi in maniera continua, ma
sempre per quantità determinate, multiple di una costante
(detta di Plank) e, quindi, in maniera discontinuo. A tal proposito
Plank afferma che la natura procede a salti e con “salti assai
singolari”. Questa scoperta fa abbandonare la fisica meccanica
corpuscolare, che ha come metodo epistemologico di base la concezione
dei corpuscoli o punti immateriali aventi un movimento stabilito ed
invariabile, per adottare la fisica ondulatoria, dove i processi
vengono spiegati come singole onde materiali corrispondenti alle
vibrazioni del sistema. Ad Heisenberg si deve, invece, il
fondamentale principio di indeterminazione. Tale principio
sconvolge non solo la concezione tradizionale dell'universo, ma anche
e soprattutto il rapporto tra osservatore ed osservato, ossia lo
schema fondamentale di ogni ricerca scientifica sperimentale. Le
leggi naturali, infatti, non esprimono relazioni fisse della natura,
ma possono dare soltanto una formulazione statistica dei fenomeni
osservati e del loro esito probabile; e questo non per un difetto
degli strumenti di osservazione (che si potrebbe sempre sperare di
eliminare con il progredire della tecnica), ma per la struttura
stessa del materiale osservato e per le inevitabili e imprevedibili
modificazioni e perturbazioni necessariamente apportate a tale
struttura dal progresso di osservazione (si pensi soltanto
all'energia necessaria a illuminare l'oggetto da osservare, che
inevitabilmente si trasmette in esso, almemo in parte); tali
modificazioni e perturbazioni, si è detto, sono imprevedibili perché
per controllarle ed accertarle si dovrebbe, con un secondo metodo di
osservazione B, osservare, e quindi modificare e perturbare il
processo di osservazione A, e così all'infinito. Un nuovo apporto
alla scienza viene dato dal principio di complementarietà
(1927), formulato dal fisico danese Niels Bohr (1885 –
1962). Le sue opere principali prendono il titolo di Teoria
dell'atomo e descrizione della natura (1931), di Fisica
atomica e conoscenza umana (1958), di Saggi su la
fisica e la conoscenza umana (1958 – 1962). Secondo il
principio di complementarietà lo studio corpuscolare di un
sistema deve essere integrato allo studio ondulatorio del sistema
stesso, anche se tra i due tipi di misure non vi può essere alcun
tipo di passaggio. La scuola di Bohr ha, in tal modo, eccentuato il
carattere probabilistico e indeterministico della scienza moderna,
contro le interpretazioni realistiche di Planck. Di notevole
importanza anche gli sviluppi della teoria evoluzionistica,
che, oltre a tante entusiaste adesioni, ebbe anche delle forte
polemiche e critiche sia in capo scientifico che religioso e morale.
Per quanto riguarda gli aspetti propriamente scientifici, si trattava
di capire come si ereditassero i caratteri acquisiti. De Vries
(1848 – 1935), autore di una Teoria delle mutazioni e di una
Specie e varietà. La loro origine della mutazione,
afferma che le mutazioni avvenivano grazie a piccole mutazioni
discrete, e cioè per salti, o, ancora meglio, per discontinuità.
Ciò significa che tra la forma dell'organismo precedente e il
successivo non si ha un carattere intermedio. L'unione di
evoluzionismo e genetica portò invece contributi chiarificatori con
l'opera dell'abate austriaco Gregor Mendel (1822 –
1884). Importante è un suo saggio del 1866 in cui opera degli
esperimenti di ibridazioni di piselli, ossia vengono incrociate
piante con caratteristiche tra loro diverse. Questi studi chiarirono
il fatto che i caratteri non si ereditano in maniera diretta, ma
attraverso i geni, ossia attraverso fattori interni che in seguito
ricompariranno nella progenie, ovvero le caratteristiche dominanti;
altre, invece, dette caratteristiche recessive, scompariranno per
ricomparire nelle generazioni successive.