sabato 18 agosto 2012

Martin Heidegger


Martin Hidegger (1889 – 1976) si laurea nel 1913 con una tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo, pubblicata nel 1914. Nel 1915 pubblica il saggio La teoria delle categorie e del significato di Duns Scoto. Nel frattempo diviene docente a Friburgo. Qui conosce Husserl, di cui diviene allievo. Nel 1927 pubblica il suo capolavoro, Essere e tempo, che eserciterà una larga influenza anche al di fuori delle correnti propriamente esistenzialistiche. Nel 1928 prende la docenza di Husserl e pubblica Che cos'è la metafisica, nel 1929. Dello stesso anno sono Kant e il problema della metafisica e L'essenza del fondamento. Nel 1933 aderisce al nazionalsocialismo e, nominato rettore dell'università di Friburgo, pronuncia il discorso inaugurale sulla Autoaffermazione dell'università tedesca. L'anno successivo, però, si dimette da rettore ed abbandona definitivamente la vita politica. Nel 1950 pubblica Sentieri interrotti; nel 1942 La dottrina platonica della verità; nel 1943 L'essenza della verità; nel 1947 La lettera sull'umanesimo; nel 1953 L'introduzione alla metafisica; nel 1954 Che significa pensare?; nel 1955 Il principio del fondamento; nel 1957 In cammino verso il linguaggio; nel 1961 Nietzsche; nel 1971 Il trattato di Schelling sull'essenza della libertà umana.
Il pensiero di Heidegger si forma all'interno di un ambiente fortemente permeato dalla filosofia kantiana e dalla fenomenologia. Nonostante ciò, già in Essere e tempo, Heidegger matura un proprio personale pensiero che offre una radicale trasformazione del concetto di uomo, di filosofia, di esistenza e di Essere.
Heidegger, infatti, ammette la concezione della limitatezza e finitudine dell'uomo, ma, al contrario della filosofia kantiana e neokantiana, afferma l'impossibilità di definire tale limitatezza fondandosi su rigide distinzioni e strutture quali quella di senso, di intelletto, di ragione, di intuizione, di concetto, ecc.
Si deve, quindi, accogliere le istanze della fenomenologia husserliana. Ciò, però, non per descrivere e definire le “essenze”, ma per ricercare anzitutto l'uomo, il quale è l'unico ente il cui modo di essere è propriamente la ricerca. In altre parole, l'uomo è l'unico ente, tra tutti gli enti che lo circondano e che possono essere oggetto della sua ricerca, che interrogando l'essere interroga se stesso e viceversa.
L'uomo, pertanto, si configura essenzialmente come esistenza, e non come una organizzazione strutturale di facoltà o di disposizioni come volevano le filosofie precedenti. Ed infatti, l'uomo, mettendosi in questione, autointerrogandosi, porta alla luce ed interpreta il senso dell'Essere e viceversa.
Heidegger, quindi, pone l'attenzione sullo studio del rapporto che intercorre tra i modi progettati e realizzati dall'uomo e il senso dell'Essere, che si manifesta nell'esistenza. Di tale studio se ne occupa una nuova scienza che prende il nome di analitica dell'esistenza.
L'analitica dell'esistenza ripropone, pertanto, nuovamente il problema dell'essere, ma in una maniera del tutto nuova rispetto alle metafisiche parmenidee ed hegeliane. Ed infatti, afferma Heidegger, l'Essere non è mai oggetto o contenuto di conoscenza. L'esistenza, infatti, non è mai chiusa in se stessa, ma è sempre legata all'Essere in maniera storica ed ontologica.
L'analitica trascendentale prende le distanze anche da tutte quelle concezioni trascendentali che pretenderebbero di poter rintracciare delle “forme a priori”, e focalizza la propria attenzione sulle possibilità dell'esistenza. Possibilità che si manifestano nel tempo. L'esistenza si manifesta e si realizza in varie forme. Tra esse una particolare importanza ha la forma della morte, ossia il rapporto dell'uomo con la morte. Da essa, o, meglio ancora, dalla sua “anticipazione” si genera quel senso di angoscia. L'angoscia non si definisce come un timore di fronte ad un qualcosa di determinato, ma come ciò che si prova di fronte alla consapevolezza del completo annientamento dell'esistenza. L'angoscia si genera, quindi, da quella perenne minaccia che incombe sugli enti e che fa scoprire nella morte la possibilità estrema e decisiva dell'esistenza.
L'anticipazione della morte, pertanto, fa scoprire il senso autentico dell'esistenza, che si configura come temporale e storica. L'esistenza, conseguentemente, si scopre come tale nel momento in cui ci si rende conto che non è qualcosa di impersonale, ma di un profondo significato che si manifesta, che si svela nel momento in cui capiamo che nessuno può morire al posto di un altro. Può sì morire per un altro, ma non può in alcun modo sottrarre l'altro alla sua personale e propria morte. La dimensione del tempo e della storia perdono quelle caratteristiche impersonali e oggettive, e divengono in Heidegger delle condizioni personali ed esistenziali. Ed infatti, il tempo dell'uomo acquisisce un senso del tutto nuovo, perché tale tempo genera la propria storicità con l'anticipazione della morte. Il sapere di morire ci obbliga a prendere delle decisioni rispetto alla morte. Il presente e il passato ci pongono il futuro come termine di qualificazione significativa della nostra esistenza, perché il futuro è quel limite insuperabile che si configura come annientamento dell'esistenza.
L'angoscia data dal senso del nulla e dell'annientamento non acquisisce rilevanza solo per la comprensione dell'esistenza, ma incide anche sul concetto che Heidegger sviluppa di verità. Concetto che si configura in aperta polemica contro la logica e la filosofia tradizionali. L'errore della logica tradizionale è stato, afferma Heidegger, quello di considerare la negazione come una semplice operazione del giudizio, mentre al contrario anche la più semplice operazione logica presuppone già la nozione del nulla, e, conseguentemente, la presenza dell'angoscia. La critica verso la logica tradizionale si viene a definire in Heidegger come critica verso tutta quanta la metafisica occidentale sviluppatasi da Platone a Hegel, che ha preteso di fondare il modello della verità nel giudizio come rapporto tra soggetto e predicato.
Heidegger, infatti, opera un rovesciamento del significato del mito della caverna. Secondo tale mito, l'uomo si stacca dall'opinione e si innalza alla verità quando si rivolge alle idee attraverso il passaggio intermedio della matematica. Facendo ciò, Platone introduce un concetto di verità come esattezza. L'autentico concetto di verità è, invece, da ricercare nel termine greco alètheia = verità che vuol dire dis – velamento, e quindi disvelamento dell'Essere.
La posizione di Heidegger, però, si discosta da quelle tradizionali per cui Dio si svela nella natura, nella storia e nella Scrittura. L'Essere di Heidegger non può esser inteso né come il Dio aristotelico, intelletto puro, né come il Dio creatore cristiano, né come la sostanza spinoziana, né come lo Spirito hegeliano. L'Essere heideggeriano è legato al concetto di nulla e ha un destino, una storia connessa alla “differenza ontologica”, ossia alla differenza ineliminabile tra l'Essere e gli enti (le cose finite e transeunti), continuamente minacciati dall'annientamento e, quindi, condizionati dall'unità originaria di Essere e nulla.
L'errore consiste nel credere che gli enti abbiano un'essenza che è compito dell'uomo andare ad individuare e definire in proposizioni matematiche, scientifiche o filosofiche. L'unico vero fondamento ontologico degli enti non è la loro struttura determinata, ossia l'essere questa o quell'altra cosa, ma il loro stagliarsi sullo sfondo dell'Essere, dal quale sono sorretti e rispetto al quale verranno annientati. Per tale motivo Heidegger dà molta importanza al detto di Anassimandro secondo cui tutte le cose devono finire là dove hanno tratto origine.
La concezione di verità offerta da Platone non ha interessato solo lo sviluppo della storia della filosofia, della cultura e del sapere dell'occidente, ma ha comportato l'affermazione del primato della tecnica nel mondo moderno.
Il primato della tecnica è il risultato di un processo per cui l'uomo ha dimenticato l'Essere e si è attaccato sempre di più agli enti. Ciò ha fatto sì che la mente dell'uomo abbia rappresentato, abbia reso presente e posto davanti a sé la realtà come puro oggetto da dominare e sfruttare. Ciò ha reso la tecnica come un qualcosa di totalitario a cui tutto va sacrificato e subordinato.
Heidegger ritiene che la storia non può dare garanzie di progresso. In ciò si avvicina a Nietzche, da cui, però, si discosta perché non auspica un “rovesciamento dei valori”. Non può auspicare ciò perché il concetto stesso di valore è un concetto appartenente alla metafisica platoniana. In altre parole, Nietzsche è rimasto ancorato alle antiche prospettive umanistiche, e la sua critica ai valori tradizionali non ha comportato una critica al concetto stesso di valore. Ed è per questo che la filosofia di Heidegger non può essere considerata una filosofia umanistica o esistenziale. Cosa questa che lui spiega in maniera chiara nella sua Lettera all'umanesimo. Qui afferma che l'esistenzialismo non è altro che un rovesciamento di una posizione metafisica, che tuttavia a sua volta è ancora una posizione metafisica. Ed infatti, la filosofia greca aveva posto a fondamento del suo sapere le essenze, a cui può aggiungersi o meno l'esistenza. Per superare questo modo di pensare greco non basta affermare il fondamento dell'esistenza. Ciò perché è proprio la distinzione stessa tra essenza ed esistenza che deve scomparire.
In un quadro nichilistico di tale genere, dove, come dice lo stesso Heidegger, sono scomparsi gli dèi del passato, ma ancora non si intravedono quelli del futuro, l'unico spiraglio di luce si può avere nella poesia, o, in maniera generale, nell'arte, la quale è l'unico termine che può rilevare la verità all'uomo.
Per Heidegger l'arte si configura come il “porsi in opera della verità”, e non ha tutte quelle caratteristiche, predicate dalle filosofie precedenti, di incontro intemporale o sopratemporale con una verità in sé intemporale. L'arte, infatti, non è una rappresentazione universale dell'essenza di una data realtà. Un tempio greco, per esempio, non riproduce nulla, ma “si erge, semplicemente, nel mezzo di una valle dirupata. Il tempio racchiude la statua del dio e in questo racchiudamento protettivo fa sì che attraverso il colonnato risplenda nel sacro recinto”.
Ciò non significa che il tempio e la sua sacralità perdono di significato. Ed infatti, è nell'opera d'arte che la verità si storicizza in un processo continuamente rivolto all'interpretazione dell'uomo e reale soltanto in essa.
Questo pensiero diviene più comprensibile e chiaro se si pone l'accento sulla concezione “ermeneutica” dell'esistenza e della filosofia predicata da Heidegger. L'ermeneutica nei secoli precedenti era stata la scienza che indicava le leggi, le regole, le norme e i procedimenti per interpretare un teso. Già nell'ottocento, però, la sua funzione si era allargata, soprattutto grazie alle scienze dello spirito, a qualcosa di molto più vasto, come l'interpretazione della storia, che, essendo sempre diversa ed individuale, non può esser interpretare mediante leggi e concetti generici ed universali, ma può essere soltanto compresa.
In Essere e tempo l'importanza dell'ermeneutica diviene ancora più incisiva perché si giunge alla constatazione che le proposizioni e gli enunciati della logica e di tutte le scienze sono possibili solo perché vengono precomprese, ossia derivate da forme di sapere e di parlare che ne anticipano i significati, i quali, a loro volta, vengono definiti esatti o meno all'interno un ambito circoscritto. Ciò significa che tali proposizioni sono “derivate” e non originarie e primordiali. L'esistenza, infatti, è sempre storicamente collocata, e, pertanto, si trova sempre in una situazione già data, in una situazione progettata e progettante; e mai in una forma di sapere intuitivo o puramente speculativo. Da ciò si ha la circolarità dell'interpretazione. Ciò non nel senso che l'ermeneutica cada in un “circolo vizioso”, ma anzi “in esso si nasconde una possibilità del conoscere più originario, possibilità che è afferrata nel modo più genuino solo se l'interpretazione ha compreso che il suo compito primo ed ultimo è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-coglizione dal caso, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema...”
L'ermeneutica è una scienza fondamentale e necessaria perché la storia non è qualcosa di esterno al mondo, ma è il modo in cui si realizza e costituisce l'esistenza e coinvolge lo stesso Essere che nell'esistenza viene interrogato. L'essere, però, non ha né una struttura logico – matematica né idee di tipo platonico, e per tale motivo non può essere interpretato dalla dialettica e dalla logica. L'Essere non ha alcun senso, se non quello che di volta in volta si manifesta nell'esistenza, e, conseguentemente, il discorso umano sull'Essere stesso non può avere altra regola e criterio del proprio continuo sviluppo e confronto. Ora, il modello di un discorso che non ha nessun criterio se non se stesso, è la poesia, la quale è il modo in cui si manifesta e si rivela l'Essere. Un modo che è discorso sempre per via, ossia mai concluso. Per tale motivo, il linguaggio assume in Heidegger un'importanza ontologica sempre maggiore. Ed infatti, è esso che ci permette di ascoltare l'Essere, giacche non è l'uomo a governare la storia dell'Essere, ma è piuttosto l'Essere a governarla.
Quando Heidegger parla di distruzione della metafisica non intende annientare e seppellire il passato. Ed infatti, Heidegger vuole decostruire, destrutturare la metafisica, ossia portare alla luce e alla consapevolezza quanto è stato nascosto nel corso della storia del pensiero metafisico con l'oblio dell'Essere dai Greci a noi. Per destrutturare e decostruire la metafisica bisogna percorrere un cammino a ritroso, mostrando come, sia pur in maniera inconsapevole e inintenzionale, nello sviluppo del pensiero filosofico si siano fatte valere le conseguenze del suo “inizio” quale si è configurato in Grecia. Questo inizio non è stato però un errore o una decisione arbitraria, bensì un modo necessario di manifestarsi dell'Essere. Pertanto, la distruzione della metafisica coincide con la ricostruzione di tutto ciò che è rimasto impensato nel corso del suo sviluppo storico.
Questo discorso riporta alla concezione nichilista di Heidegger, il quale distingue tra un nichilismo inautentico e un nichilismo autentico. Il primo trova spiegazione nel secondo, nel senso che i due termini sono indissolubilmente legati e dialetticamente connessi. Ed infatti, il nichilismo autentico ha comportato un oblio ed occultamento dell'Essere e della differenza ontologica che non è casuale, frutto di un errore o atteggiamento dell'uomo, ma che ha le sue radici nella storia stessa dell'Essere.
L'odierna situazione nichilistica dell'uomo (nichilismo inautentico, ossia concepito come fenomeno culturale e, quindi, superabile) è, quindi, ontologicamente fondata, perché trova origine nel suo rapporto originario con l'Essere. Pertanto, può essere superata soltanto con l'instaurazione di un nuovo rapporto con l'Essere. Un rapporto che sia diverso da quello che si è avuto in origine con i Greci e che ha portato ad una metafisica che ha ridotto l'Essere all'ente, la temporalità alla presenza. Ad una metafisica da cui è scaturita un'esistenza di dominio, che ha trasformato la storia in giornalismo, quale prevaricazione assoluta dell'attualità e sull'attualità.
Detto ciò appare chiaro che perché il nichilismo inautentico e quello autentico non sono un'alternativa, ma due poli strettamente interconnessi tra loro e facenti parte della processo di svelamento dell'Essere nella storia.

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