sabato 25 agosto 2012

W.V.O. Quine


Willard Van Orman Quine (1908 – 2000), filosofo statunitense, autore del Manuale di logica, del 1950, de I due dogmi dell'empirismo, del 1951; de Il problema del significato, del 1953; della Parola e oggetto, del 1960; de I modi del paradosso e altri saggi, del 1966; de La relatività ontologica e altri saggi, del 1969; della Logica e grammatica, del 1970; de Le radici della referenza, del 1974 e dell'Autobiografia, del 1985.
L'opera di Quine si è sviluppata sia dal confronto critico con il neopositivismo e l'empirismo logico sia dalla ripresa di alcuni motivi pragmatistici e naturalistici. La sua complessa costruzione, oltre a polemizzare contro i due “dogmi” dell'empirismo del 1951, si rivolge contro il neopositivismo e contro l'opera di Carnap.
I due dogmi che Quine rifiuta sono:
  1. la tesi che vi siano delle proposizioni realmente analitiche;
  2. il riduzionismo, ossia la tesi che si possa andare a verificare qualsiasi proposizione che scaturisca da una esperienza immediata. Cosa questa che già aveva sostenuto l'empirismo moderno.
In realtà il sapere è una totalità molto complessa ed organica. Una totalità dove nessun elemento può essere compreso o valutato nel suo isolamento.
A tal riguardo Quine riprende la posizione dello storico della scienza Pierre Duhem (1861 – 1916), il quale riteneva che in fisica non è possibile sottoporre al controllo dell'esperienza una singola ipotesi, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. In altre parole, qualsiasi esperimento interessa tutto un insieme teorico. Ciò evidenzia il fatto che in fisica non vi sono esperimenti “cruciali”. La scienza fisica, pertanto, non può essere concepita come un meccanismo che può essere smontato pezzo per pezzo. Deve, invece, essere presa nella sua interezza e totalità, un po' come se fosse un organismo di cui non si può fare funzionare una parte senza che le altre, anche quelle più periferiche, ne siano coinvolte.
Per Quine, quindi, gli enunciati teorici vanno sempre inseriti all'interno di un contesto teorico molto più ampio. Contesto teorico a cui sono correlati.
Per tale motivo la sua filosofia viene definita olistica (dal greco òlos = tutto, intero), dove per “tutto” si intende una relazionalità delle parti. Parti sottoposte a continue innovazioni e revisioni.
A tal riguardo Quine osserva che una teoria o un'ipotesi deve essere necessariamente compresa all'interno di un contesto ben preciso. Cosa questa ampiamente riconosciuta e praticata in fisica. Ad esempio, la teoria relazionale dello spazio implica che non si ha alcuna posizione o velocità assoluta. Ciò chiarisce il fatto che determinate leggi vanno sempre enunciate e verificate all'interno di un quadro di riferimento ben determinato.
Per quanto riguarda il rapporto tra il nostro sapere e l'esperienza, Quine precisa che “la totalità della nostra cosiddetta conoscenza o delle nostre credenze, dagli argomenti più casuali della geografia e della storia alle leggi più profonde della fisica atomica o perfino della matematica e logica pura, è una costruzione dell'uomo che urta nell'esperienza solo marginalmente. O, per cambiare l'immagine, l'intera scienza è come un campo di forza le cui condizioni – limite sono le esperienze”.
Conseguentemente un disaccordo con l'esperienza alla periferia rende necessario tutto un riordinamento all'interno del campo.
Per Quine, però, vi sono due principi cardinali dell'empirismo che rimangono validi. Essi sono:
  1. qualsiasi evidenza che ci sia per la scienza proviene dall'evidenza sensoriale;
  2. il significato delle parole deve basarsi fondamentalmente sull'evidenza sensoriale.
In tale contesto acquisisce un'importanza particolare la nozione di “osservazione”. Nozione applicata non solo al problema dell'esperienza e della scienza, ma utilizzata anche nella polemica dell'analiticità, ossia nella presunta distinzione assoluta da altre forme di pensiero. Quine per enunciati di osservazione intende quelli più vicini ai recettori sensoriali. Tale vicinanza è determinata dal fatto che gli enunciati di osservazione, quando impariamo un linguaggio, sono più condizionati dalle stimolazioni sensoriali concomitanti, piuttosto che da quella informazione collaterale già immagazzinata.
Ovviamente, la veridicità o meno di un enunciato non può essere data solo dalla stimolazione presente, ma, al contrario, necessita anche dell'informazione immagazzinata. Ed infatti, il linguaggio è il frutto di una informazione già immagazzinata, senza la quale non potremmo nemmeno dare verdetti su quegli enunciati basati esclusivamente sull'osservazione. Questo modo di operare evita quel nichilismo epistemologico che ha comportato l'abbandono della vecchia concezione degli enunciati di osservazione. Cosa questa che ha provocato un accentuato relativismo culturale.
Per quanto riguarda la concezione filosofica, Quine, rifacendosi alla concezione naturalistica di Dewey, sostiene che “la conoscenza, la mente e il significato sono parte del medesimo mondo con cui hanno a che fare e che devono esser studiati nel medesimo spirito empirico che anima la scienza naturale. Non c'è posto per una filosofia prima”.
Inoltre, Quine riconosce che “ciascun uomo ha una certa eredità scientifica oltre che una ininterrotta diga di stimoli sensoriali; e le considerazioni che lo guidano a piegare la sua eredità scientifica perché si adatti agli incessanti dettami dei sensi sono, se razionali, di natura pragmatica”.
Il linguaggio, a sua volta, è un'arte sociale che noi tutti acquisiamo solo in base all'evidenza del comportamento degli altri in circostanze pubblicamente riconoscibili. Da ciò sorge la sua polemica contro quella forma di “semantica ingenua” che prende le proprie mosse dal “mito del museo”, ossia dalla convinzione che il linguaggio sia una somma di etichette contrassegnati delle idee bell'e fatte e riposte nella mente, appunto come i quadri esposti in un museo con apposite etichette. In realtà il linguaggio è sempre la risposta ad uno stimolo. Una risposta, però, intersoggettiva, ossia inserita all'interno di un sistema comportamentistico sempre aperto e modificabile. Per tale motivo non può esistere un linguaggio privato o un linguaggio che corrisponda ad una forma di sapere puramente mentale. Infine, per Quine non è possibile tradurre in maniera esatta un termine di una lingua in un'altra, e, al limite, nemmeno nella lingua stessa.
Da tutte queste considerazioni Quine giunge ad una “naturalizzazione dell'epistemologia”. Si è avuto, infatti, un nuovo pensiero che ha portato al rifiuto da parte del neopositivismo della metafisica e la sostituzione della stessa epistemologia filosofica con una sorta di “terapia”, intesa come residuo della vocazione filosofica. Quine, però, non è d'accordo con questa “bancarotta” dell'epistemologia, e afferma che ad essa spetta un nuovo compito, e cioè quello dello studio del soggetto umano fisico tramite la psicologia e la scienza naturale.  

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