Nasce
a Lipsia il 1° luglio del 1646 e morì ad Hannover il 14 Novembre
1716. Nel 1663 sostenne la Disputatio
metaphysica de principio individui,
cosa che gli valse il titolo di bacelliere. Nel 1666 pubblicò a
Lipsia il trattato di logica “De
arte combinatoria”.
Gli studi fisici lo portarono a pubblicare la Hypothesis
physica nova.
Tra il 1684 e il 1700 compose e in parte pubblicò le sue prime
grandi opere filosofiche: le Meditationes
de
cognizione,
veritate
atque
ideis,
il Discorso
di
metafisica,
il Nuovo
sistema
della
natura,
i Nuovi
saggi
sull’intelletto
umano.
Alcune delle sue opere scientifiche si occupano del calcolo
infinitesimale. In tal senso le più importanti sono: Nova
methodus
pro
maximis
et
minimis,
Considerationes
circa
analyseos…principia,
Calculi
differentialis
usus,
Elementa
alalyseos
infinitorum,
Speciem
dynamicum
pro
admirandis
naturae
legibus.
Negli ultimi anni compose Saggi
di
teodicea,
i Principi
di
filosofia
o
monadologia,
i Principi
della natura e della grazia fondati sulla ragione
e gli Scriptores
rerum brunsvicensium.
Nel
pensiero di Leibniz assume grande importanza la costruzione di una
nuova logica che sia uno strumento (organo)
capace di dimostrazioni necessarie come le dimostrazioni matematiche;
anzi, più propriamente, costruire una logica
come calcolo
o algebra
generale:
tale logica darebbe modo, egli scrive, di ragionare calcolando, per
cui, invece di discutere, si potrebbe dire: calcoliamo. Per fare ciò
bisogna però superare gli equivoci dati dall’uso di un linguaggio
spesso oscuro e confusionario. Si deve, pertanto, costruire una
logica concepita in maniera
combinatoria;
ossia realizzare una logica che sia “l’arte
di servirsi dei segni (o caratteri)
mediante un genere esatto di calcolo”.
Questi caratteri
sono intesi da Leibniz come un vero e proprio tipo di scrittura
(alfabeto
dei pensieri umani)
o di lingua
universale
che ognuno potrebbe rapidamente imparare, così come rapidamente si
apprende il linguaggio naturale o i rudimenti della matematica. La
logica di Leibniz si fonda su due principi: principio
di non contraddizione (o di identità)
e il
principio di ragione sufficiente,
cui corrispondono la distinzione tra verità
di ragione
e verità
di fatto.
Le
verità di ragione sono necessarie, le verità di fatto sono
contingenti.
Le prime sono quelle verità in cui il predicato è compreso nel
soggetto, e sono rette quindi dal principio di identità. Esse sono
costituite a priori e non hanno bisogno di alcuna verifica
sperimentale. Ovviamente, il loro contrario è necessariamente falso.
Nelle verità
di fatto,
invece, il predicato aggiunge qualcosa al soggetto che non gli
appartiene necessariamente; per questo le verità di fatto non sono
suscettibili di dimostrazione deduttiva ma di conoscenza induttiva, a
posteriori. Poiché, il nesso soggetto-predicato non è necessario,
le verità di fatto sono contingenti e il loro contrario non è
necessariamente falso. Esse si fondono sul principio
di ragion sufficiente,
e cioè sul principio che nulla accade senza causa, nulla si verifica
senza una ragione sufficiente. La distinzione tra i due modi di
conoscenza, uno a priori e uno a posteriori, è tuttavia legata
all’imperfezione propria della conoscenza umana; da un punto di
vista più alto, dal punto di vista di Dio, le verità di fatto sono
conosciute a priori come le verità di ragione. Così Leibniz nel
Discorso
di metafisica
afferma, esemplificando, che Dio vedendo la nozione individuale di
Alessandro Magno, ne conosce a priori tutti quelli che saranno i
predicati che gli si possono attribuire, cioè la sua storia. Ciò
comunque non annulla la libertà umana perché se le verità di
ragione sono sempre necessarie, le verità di fatto hanno sempre,
come logicamente possibile, il loro contrario. Fondamentale nella
filosofia di Leibniz è il concetto di sostanza
individuale.
Tale concetto lo va elaborando criticando il concetto cartesiano di
sostanza materiale come estensione e il concetto epicureo di atomo;
per Leibniz infatti la materia è sempre divisibile all’infinito.
Si tratta, per il nostro filosofo, di trovare un dato veramente primo
e senza parti. Tale dato non può esserlo nessuna entità materiale
(la materia si è detto è divisibile all’infinito). Lo è, invece,
punto inesteso, il punto metafisico. Quest'ultimo, infatti, è un
essere completo, indivisibile e indistruttibile. Tale sostanza prende
il nome di monade:
“la
monade non è altro che sostanza semplice che entra nei composti;
semplice cioè senza parti.”
La monade in quanto indivisibile e individuale è imperitura, e solo
Dio può distruggerla; in quanto spirituale, la monade è attività e
forza; infine nella monade si ha tutto ciò che le deve accadere.
Ora, poiché Dio crea non una sostanza, ma un universo di sostanze,
ciascuna di esse “è
come un mondo intero, è come uno specchio di Dio ovvero di tutto
l’universo, che essa esprime al suo modo particolare, pressappoco
come una stessa città è rappresentata diversamente a seconda della
posizione di chi la guarda”.
Ogni sostanza è dunque un mondo particolare, indipendente da tutto
salvo che da Dio, che grazie al suo intervento fa corrispondere le
sostanze tra loro. Ma le monadi non agiscono immediatamente l’una
sull’altra. Non vi possono essere due monadi uguali, ognuna è
diseguale dall’altra, e si differenziano anche per una maggiore o
minore perfezione (equivalente alla maggiore o minore chiarezza con
la quale ogni monade rappresenta l’universo). Ma se le sostanze
individuali sono punti metafisici, indistruttibili, spirituali, come
spiegare l’esistenza dei corpi, della materia? Dapprima Leibniz
risolve il problema dicendo che l’aggregato di monadi in verità
non ha un’esistenza propria perché non ha una propria unità, ma
siamo noi che immaginativamente la vediamo così. Poi invece parla di
un principio
unificatore
(indicato col termine entelechia)
che dà al corpo, ovvero al complesso di monadi, un vincolo
sostanziale.
Poi, però, Leibniz parla di una monade
dominante
che organizza tutte le altre in un composto. Infine, parla del corpo
come l’insieme di quelle monadi oscure, cioè quelle che non
raggiungono una chiarezza di percezione. Per risolvere il problema
del rapporto tra anima e corpo Leibniz afferma la teoria dell’armonia
prestabilita:
“Immaginate
due orologi che si accordino perfettamente. Ciò può avvenire in tre
maniere: la prima consiste nella mutua influenza di un orologio
sull’altro; la seconda nella cura di un uomo che vi provvede; la
terza nella loro propria esattezza. La prima maniera (o
dell’influenza) è quella proposta da Cartesio. La seconda maniera
di fare sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere
di farvi sempre provvedere da un abile operaio che ne accordi ad ogni
istante: è questa è quella che io chiamo la maniera dell’esistenza:
è la spiegazione di Malebranche, che richiede un intervento di Dio
per produrre, in occasione del movimento del corpo, un movimento
dell’anima e viceversa: a Leibniz questa appare quasi un miracolo
continuo. La terza maniera sarà di fare da principio queste due
pendole con tanta arte e giustezza da potersi assicurare il loro
accordo per il futuro e questo è la via dell’accordo
prestabilito”.
Ciascuna monade è un centro di attività che si specifica come
percezione e appetizione. La percezione rappresenta la molteplicità
nell’unità. L’appetizione permette il passaggio e il mutamento
da una percezione ad un’altra, cioè tende dal presente al futuro.
Negli esseri è possibile distinguere vari livelli di piccole
percezione che portano all’appercezione completa o coscienza. La
memoria, una minore appercezione, permette di fare associazioni e
distingue gli animali dagli esseri inferiori. Quindi, l’animale non
raggiunge mai la coscienza che sarà invece dell’uomo che possiede
la ragione e che può conoscere le verità necessarie ed eterne. La
conoscenza per Leibniz non può derivare dall’esperienza sensibile,
come dall’esperienza sensibile non possono derivare gli universali;
la conoscenza infatti è già in qualche modo presente
nell’intelletto. Ciò significa che noi vediamo le cose per mezzo
di Dio, subendo l’azione di Dio. Non si sostiene, quindi, un
innatismo di tipo platonico, ma si afferma che la mente ha una
disposizione, un’attitudine alla conoscenza da cui le idee possono
essere tratte. Dio costituisce nel sistema filosofico di Leibniz il
punto di riferimento e di fondazione assoluta. La sua esistenza è
dimostrata dal principio di causa o ragion sufficiente, per cui se
tutte le cose sono contingenti bisogna ricercare la ragione
dell’esistenza di queste cose in una sostanza che abbia in sé
stessa la ragione della propria esistenza. Gli esseri sono tutti
contenuti nella mente di Dio, che decide di realizzare quelle monadi
che contengono il massimo di perfezione: il criterio della maggior
perfezione costituisce infatti la ragion sufficiente della scelta che
Dio fa nel creare il mondo. Causa intelligente e libera, Dio
crea il migliore dei mondi possibili.
Questo
è il fondamento dell’ottimismo leibziano e tutto l’universo
tende come fine alla perfezione.
Il male viene spiegato con la presenza del male metafisico, e cioè
Dio nel creare la sostanza l’ha fatta finita, non potendole dare
tutte le perfezioni, altrimenti avrebbe fatto un altro Dio. Tale male
metafisico ha come conseguenza il male morale.
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