Nasce
a Napoli il 23 Giugno del 1668 e vi muore il 22-23 gennaio del 1744.
Fra il 1669 e il 1706 pronunciò sei prolusioni universitarie dal
titolo Orazioni
inaugurali,
a cui si
deve aggiungervene
una settima, dal titolo De
nostris temporis studiorum ratione.
Nel 1710 pubblica il De
antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus
eruenda,
a cui seguirono due Risposte
al Giornale
dei letterati,
il quale aveva criticato tali scritti. Scrisse anche una biografia
del maresciallo Antonio Carafa: De
rebus gestis Antonimi Carapaci.
Nel 1720 pubblica il De
universi iuris uno principio et fine uno,
a cui seguiranno il De
constantia iurisprudentis
e le Notae.
Nel 1725 compone l’Autobiografia
e nel 1730 i Cinque
libri de’ principi d’una scienza nuova d’intorno alla comune
natura delle nazioni (la
cosiddetta scienza nuova seconda). Infine, nell’anno della sua
morte, esce la Scienza
nuova terza.
La componente fortemente umanistica della sua cultura lo farà
giungere ad una serrata critica contro Cartesio, ciò è evidente
nelle prime sei orazioni inaugurali e ancora di più nella settima.
In tali scritti Vico polemizza con il metodo matematico-deduttivo di
Cartesio, un metodo che secondo lui porta solo ad una
insensibile
astratta ragione, ad una eloquenza arida e ad un discorso
sillogistico-matematico che non coglie l’articolata varietà del
mondo umano. La difesa della retorica e dell’eloquenza combacia
per il nostro filosofo con la difesa
della ricchezza dell’uomo e delle sue 1000 sfaccettature, della
sua fantasia e del suo ingegno. Diviene
necessario, pertanto,
lo studio della fisica, per Vico è necessario lo studio dell’uomo
e delle sue forme storiche. I temi della polemica anticartesiana si
fanno ancora più evidenti nel De
antiquissima Italorum Sapientia,
ove il filosofo, attraverso la ricerca etimologica di alcuni termini
latini, vuole ritrovare un’antica sapienza italica e pitagorica; in
maniera tale da potere fondare una metafisica che sia base della
fisica. In oppostone a Cartesio e alla sua materia come estensione
egli afferma che i corpi sono costituiti da punti metafisici o
conati, punti cioè dotati di una propria vitalità e forza e che
generano l’universo. Più importante è la critica contro il cogito
cartesiano, Vico, a questo proposito, afferma che il cogito non
riesce a convincere gli scettici. Questi infatti non negano la
certezza del loro essere e della loro esistenza, ma sconoscono le
cause del pensare e il modo in cui il pensiero si forma. Inoltre
l’errore, per Vico, sta nel volere fondare la verità su delle idee
chiare e distinte; il vero criterio di verità è invece nella
conversione
del
vero e del fatto.
Il principio della conversione o reciprocità del vero e del fatto
afferma che il conoscere consiste nel conoscere i modi della nascita
delle cose, cioè nel farle, in altre parole, non si conosce se non
quello che si fa. Vico afferma che solo Dio ha la conoscenza delle
cause e delle sue strutture metafisiche, in quanto è Lui ad avere
creato il mondo. L’uomo è quindi capace di conoscere solo ciò che
è in grado di costruire, come la matematica. Essa è però una
scienza convenzionale, astratta e che si muove in figure come sfere e
triangoli non presenti in natura. Certezza maggiore può l’uomo
ritrovare in fisica nella misura in cui riesce a ricostruire il
fenomeno in laboratorio. Infine assai più problematica è meno certa
è la morale, che vuole attingere e conoscere i moti dell’anima.
Impegnandosi a studiare il mondo umano giunge alla formulazione della
cosiddetta scienza nuova. Egli è cioè convinto che sia possibile
costruire una scienza della storia attraverso l’individuazione di
leggi e costanti universali. Questa scienza nuova è possibile
proprio perché il mondo della storia è fatto dagli uomini. Questa è
la prima fondamentale certezza che permette di uscire fuori dal mare
di tutte le incertezze che sembravano rendere impossibile una scienza
della storia. I due strumenti scientifici della storia sono la
filosofia
e la filologia
(ove con tale termine Vico intende tutte le ricerche di grammatica,
di storia, di critica e di tutto quanto investe il mondo storico
nella sua estrema molteplicità). Tramite questi due strumenti l’uomo
può giungere dallo studio del particolare fatto storico alla
definizione di leggi ed idee eterne che nella storia trovano la loro
verifica. Secondo tale metodo si svolge la sua ricostruzione della
storia delle nazioni: come la vita dell’uomo, così la vita dei
popoli si svolge attraverso la successione di tre momenti, senso,
fantasia, ragione.
Ciò
significa che dapprima l’uomo avverte, poi avverte con animo
perturbato e commosso, infine riflette con mente pura. Ai tre momenti
del senso corrispondono tre età del divenire storico: l’età
degli dei
(sotto il dominio diretto di una credenza nella divinità che
manifesta i suoi voleri tramite auspici ed oracoli); l’età
degli eroi
(delle repubbliche aristocratiche); l’età
degli uomini
(repubbliche popolari e monarchiche). A queste tre età corrispondono
tre forme di espressione linguistica, tre scritture: la
geroglifica
(per atti muti),
la simbolica
(linguaggio poetico); l’epistolare
(ossia letteraria).
La prima età vede un uomo talmente immerso nelle tenebre dei sensi
da essere inerme di fronte alle forze della natura. Presi dal terrore
concepiscono il pensiero di una qualche divinità; nasce così il
concetto della divinità, tutta ammantata di miti e fantasia. Così
sotto lo stimolo di una primitiva esperienza religiosa si ha il
nascere della vita civile. Ma tale processo non è semplice opera
dell’uomo; al di sopra di essi vi è la provvidenza
che, dai diversi fini perseguiti dagli uomini e dalle nazioni,
conduce tutti sulle vie del progresso, con un disegno e un fine
universale, che è sempre superiore e spesso contrario ai fini
particolari che gli uomini si erano proposti con le loro azioni
(teologia
civile ragionata della provvidenza).
Lo stato dei primi uomini è uno stato di “stupidi,
insensati ed orribili bestioni”,
che vivono una vita ferina e che a poco a poco grazie allo stimolo
del terrore della divinità, scoperta e impersonata nelle forze della
natura, cominciano a darsi forme di vita sociale. È l’età degli
dei e poi degli eroi. È un mondo concepito come un fanciullo, e cioè
tutta corporeità e fantasia che si esprime in linguaggio fatto prima
di gesti e di rappresentazioni, di immagini, e che poi giunge ad un
linguaggio articolato, poetico, espressione della vivissima fantasia.
Presso gli antichi popoli Vico non rivede una sapienza riposta o
un’età dell’oro, ma in contrapposizione agli studiosi che
vedevano negli antichi modi di vita evoluti e razionali, afferma che
essi vivevano in una condizione ferina. Ora poiché tali popoli
avevano una vivissima fantasia nasce il linguaggio, che non è una
mera convenzione, ma bensì l’esigenza di esprimere quello che
avvertivano con animo perturbato e commosso. Quello che i primi
popoli esprimono in linguaggio è poesia, poiché: tutti calati nella
corporeità, rifuggenti da astrazioni e razionalizzazioni, il loro
esprimersi è un esprimersi per comparazioni, similitudini, metafore
e immagini. Con gli dei nascono i sacrifici, i miti, i culti e le
religioni, oltre che il culto dei morti. Il mito non è, come si
pensava, un modo per velare una realtà che si era scoperta con fine
raziocinio, ma bensì creazioni della fantasia primitiva in cui
dobbiamo leggere le condizioni reali dei primi uomini, i loro modi di
vita, il loro atteggiamento di fronte al mondo fisico: i miti sono
pertanto testimonianza vera della loro storia. Le tre età del mondo
giungono come apice all’età in cui si usa la ragione. Qui nascono
però i germi della crisi: ci si ferma in sottigliezze di ingegni
ambiziosi e si perde la fede in Dio. Allora la società decade e se
ne forma una nuova. Tale concezione prende il nome di corsi e ricorsi
storici.
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