giovedì 14 giugno 2012

Giambattista Vico


Nasce a Napoli il 23 Giugno del 1668 e vi muore il 22-23 gennaio del 1744. Fra il 1669 e il 1706 pronunciò sei prolusioni universitarie dal titolo Orazioni inaugurali, a cui si deve aggiungervene una settima, dal titolo De nostris temporis studiorum ratione. Nel 1710 pubblica il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, a cui seguirono due Risposte al Giornale dei letterati, il quale aveva criticato tali scritti. Scrisse anche una biografia del maresciallo Antonio Carafa: De rebus gestis Antonimi Carapaci. Nel 1720 pubblica il De universi iuris uno principio et fine uno, a cui seguiranno il De constantia iurisprudentis e le Notae. Nel 1725 compone l’Autobiografia e nel 1730 i Cinque libri de’ principi d’una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (la cosiddetta scienza nuova seconda). Infine, nell’anno della sua morte, esce la Scienza nuova terza. La componente fortemente umanistica della sua cultura lo farà giungere ad una serrata critica contro Cartesio, ciò è evidente nelle prime sei orazioni inaugurali e ancora di più nella settima. In tali scritti Vico polemizza con il metodo matematico-deduttivo di Cartesio, un metodo che secondo lui porta solo ad una insensibile astratta ragione, ad una eloquenza arida e ad un discorso sillogistico-matematico che non coglie l’articolata varietà del mondo umano. La difesa della retorica e dell’eloquenza combacia per il nostro filosofo con la difesa della ricchezza dell’uomo e delle sue 1000 sfaccettature, della sua fantasia e del suo ingegno. Diviene necessario, pertanto, lo studio della fisica, per Vico è necessario lo studio dell’uomo e delle sue forme storiche. I temi della polemica anticartesiana si fanno ancora più evidenti nel De antiquissima Italorum Sapientia, ove il filosofo, attraverso la ricerca etimologica di alcuni termini latini, vuole ritrovare un’antica sapienza italica e pitagorica; in maniera tale da potere fondare una metafisica che sia base della fisica. In oppostone a Cartesio e alla sua materia come estensione egli afferma che i corpi sono costituiti da punti metafisici o conati, punti cioè dotati di una propria vitalità e forza e che generano l’universo. Più importante è la critica contro il cogito cartesiano, Vico, a questo proposito, afferma che il cogito non riesce a convincere gli scettici. Questi infatti non negano la certezza del loro essere e della loro esistenza, ma sconoscono le cause del pensare e il modo in cui il pensiero si forma. Inoltre l’errore, per Vico, sta nel volere fondare la verità su delle idee chiare e distinte; il vero criterio di verità è invece nella conversione del vero e del fatto. Il principio della conversione o reciprocità del vero e del fatto afferma che il conoscere consiste nel conoscere i modi della nascita delle cose, cioè nel farle, in altre parole, non si conosce se non quello che si fa. Vico afferma che solo Dio ha la conoscenza delle cause e delle sue strutture metafisiche, in quanto è Lui ad avere creato il mondo. L’uomo è quindi capace di conoscere solo ciò che è in grado di costruire, come la matematica. Essa è però una scienza convenzionale, astratta e che si muove in figure come sfere e triangoli non presenti in natura. Certezza maggiore può l’uomo ritrovare in fisica nella misura in cui riesce a ricostruire il fenomeno in laboratorio. Infine assai più problematica è meno certa è la morale, che vuole attingere e conoscere i moti dell’anima. Impegnandosi a studiare il mondo umano giunge alla formulazione della cosiddetta scienza nuova. Egli è cioè convinto che sia possibile costruire una scienza della storia attraverso l’individuazione di leggi e costanti universali. Questa scienza nuova è possibile proprio perché il mondo della storia è fatto dagli uomini. Questa è la prima fondamentale certezza che permette di uscire fuori dal mare di tutte le incertezze che sembravano rendere impossibile una scienza della storia. I due strumenti scientifici della storia sono la filosofia e la filologia (ove con tale termine Vico intende tutte le ricerche di grammatica, di storia, di critica e di tutto quanto investe il mondo storico nella sua estrema molteplicità). Tramite questi due strumenti l’uomo può giungere dallo studio del particolare fatto storico alla definizione di leggi ed idee eterne che nella storia trovano la loro verifica. Secondo tale metodo si svolge la sua ricostruzione della storia delle nazioni: come la vita dell’uomo, così la vita dei popoli si svolge attraverso la successione di tre momenti, senso, fantasia, ragione. Ciò significa che dapprima l’uomo avverte, poi avverte con animo perturbato e commosso, infine riflette con mente pura. Ai tre momenti del senso corrispondono tre età del divenire storico: l’età degli dei (sotto il dominio diretto di una credenza nella divinità che manifesta i suoi voleri tramite auspici ed oracoli); l’età degli eroi (delle repubbliche aristocratiche); l’età degli uomini (repubbliche popolari e monarchiche). A queste tre età corrispondono tre forme di espressione linguistica, tre scritture: la geroglifica (per atti muti), la simbolica (linguaggio poetico); l’epistolare (ossia letteraria). La prima età vede un uomo talmente immerso nelle tenebre dei sensi da essere inerme di fronte alle forze della natura. Presi dal terrore concepiscono il pensiero di una qualche divinità; nasce così il concetto della divinità, tutta ammantata di miti e fantasia. Così sotto lo stimolo di una primitiva esperienza religiosa si ha il nascere della vita civile. Ma tale processo non è semplice opera dell’uomo; al di sopra di essi vi è la provvidenza che, dai diversi fini perseguiti dagli uomini e dalle nazioni, conduce tutti sulle vie del progresso, con un disegno e un fine universale, che è sempre superiore e spesso contrario ai fini particolari che gli uomini si erano proposti con le loro azioni (teologia civile ragionata della provvidenza). Lo stato dei primi uomini è uno stato di “stupidi, insensati ed orribili bestioni”, che vivono una vita ferina e che a poco a poco grazie allo stimolo del terrore della divinità, scoperta e impersonata nelle forze della natura, cominciano a darsi forme di vita sociale. È l’età degli dei e poi degli eroi. È un mondo concepito come un fanciullo, e cioè tutta corporeità e fantasia che si esprime in linguaggio fatto prima di gesti e di rappresentazioni, di immagini, e che poi giunge ad un linguaggio articolato, poetico, espressione della vivissima fantasia. Presso gli antichi popoli Vico non rivede una sapienza riposta o un’età dell’oro, ma in contrapposizione agli studiosi che vedevano negli antichi modi di vita evoluti e razionali, afferma che essi vivevano in una condizione ferina. Ora poiché tali popoli avevano una vivissima fantasia nasce il linguaggio, che non è una mera convenzione, ma bensì l’esigenza di esprimere quello che avvertivano con animo perturbato e commosso. Quello che i primi popoli esprimono in linguaggio è poesia, poiché: tutti calati nella corporeità, rifuggenti da astrazioni e razionalizzazioni, il loro esprimersi è un esprimersi per comparazioni, similitudini, metafore e immagini. Con gli dei nascono i sacrifici, i miti, i culti e le religioni, oltre che il culto dei morti. Il mito non è, come si pensava, un modo per velare una realtà che si era scoperta con fine raziocinio, ma bensì creazioni della fantasia primitiva in cui dobbiamo leggere le condizioni reali dei primi uomini, i loro modi di vita, il loro atteggiamento di fronte al mondo fisico: i miti sono pertanto testimonianza vera della loro storia. Le tre età del mondo giungono come apice all’età in cui si usa la ragione. Qui nascono però i germi della crisi: ci si ferma in sottigliezze di ingegni ambiziosi e si perde la fede in Dio. Allora la società decade e se ne forma una nuova. Tale concezione prende il nome di corsi e ricorsi storici.

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