Nato
ad Edimburgo nel 1711, vi muore nel 1776. Il suo primo lavoro è Il
trattato sulla natura umana,
seguito da un Estratto
del Trattato sulla natura umana.
Nel 1741 pubblica i Saggi
morali e politici.
Del 1748 è la Ricerca
sull’intelletto umano,
la Ricerca
sui principi della morale
ed i Saggi
e trattati su vari soggetti.
Del 1752 è la sua opera più fortunata, i Discorsi
politici.
Scrive anche una Storia
dell’inghilterra
e Quattro
dissertazioni.
Postuma è, invece, la sua ultima opera dal titolo Dialoghi
sulla religione naturale,
pubblicata nel 1779.
Nel Trattato
sulla natura umana,
Hume cerca di “introdurre
il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali”:
egli, pertanto, intendeva riprendere il metodo di Newton per
estenderlo ai problemi dell’uomo, in maniera tale da ricercare
quelle poche leggi generali, empiricamente fondate, che servissero a
spiegare una molteplicità di fenomeni. Da Locke invece deriva la
necessità di non estendere la propria analisi al di là delle
percezioni, infatti per Hume nessuna idea è possibile se non
nell’ambito della percezione, ovvero nell’universo
dell’immaginazione. Hume parte da una premessa empiristica, e
afferma che l’unico contenuto della nostra conoscenza è costituito
dalle percezioni. Le percezioni che si presentano come attuali, con
forza e vivacità, sono le impressioni.
Dalle impressioni derivano le idee,
“che
sono le immagini illanguidite delle impressioni”.
Facoltà propria delle idee è l’immaginazione,
che compone tra loro le idee attraverso un meccanismo psicologico di
associazioni, di cui Hume vuole individuare le leggi, analogamente a
quanto ha fatto Newton per il mondo fisico. Grazie all’empirismo
Hume ritiene di potere risolvere tutti i problemi della conoscenza:
quando abbiamo un’idea poco chiara e confusa, basta ricondurre tale
idea alla sua origine sensibile, analizzando da quale impressione
esse sia nata; se non si trova nessuna impressione rispondente
all’idea, vuol dire che questa è del tutto priva di significato.
Inoltre, il suo empirismo lo porta ad affermare il fatto che noi
abbiamo solo idee di cose particolari, per cui gli universali nascono
da un uso generale delle idee. L’analisi empirica alle idee porta a
rompere alcuni capisaldi della metafisica tradizionale. E cioè porta
alla critica dell’idea della relazione di causa-effetto, l’idea
di sostanza materiale e l’idea di sostanza spirituale (o anima).
Tutti gli oggetti dei nostri ragionamenti, dice Hume, si distinguono
in due specie: relazioni
tra idee e materia di fatto.
Alla prima specie appartengono le scienze della geometria,
dell’algebra e dell’aritmetica (fondati sull’evidenza); alla
seconda specie appartengono invece quei ragionamenti che non sono
fondati sull’evidenza, e che arriviamo a conoscere dall’esperienza.
Tramite l’esperienza noi pensiamo che due oggetti, due fenomeni,
sono legati tra loro da un rapporto di causa-effetto, ove chiamiamo
causa ciò che precede, ed effetto ciò che segue. Niente però ci
autorizza ad affermare che tale successione causa-effetto sia una
successione necessaria, in quanto è logicamente possibile pensare i
due eventi l’uno indipendentemente dall’altro, inoltre è
impossibile dedurre l’effetto da una causa. Infatti la sola analisi
dell’idea di causa non ci porta a comprenderne l’effetto. Ciò
significa che non possiamo dire che il fuoco è causa di calore, in
quanto è logicamente possibile pensare che il fuoco, che finora ci
ha bruciato, non bruci più. Ciò non entra in contraddizione. Il
rapporto causa-effetto è fondato sulla sola esperienza e sulla
possibilità che sia sempre lo stesso. Tali ragionamenti non hanno
quindi necessità, e pertanto non hanno forza dimostrativa. Forza
dimostrativa ha, infatti, solo ciò che è necessario. L’analisi
del contenuto delle idee porta Hume a mettere in evidenza quanto vi
sia di arbitrario nella costruzione dell’idea di sostanza materiale
e di sostanza spirituale. Quanto alla sostanza materiale, cioè alla
nostra idea di soggetti esistenti fuori dalla nostra mente, Hume
mostra che le nostre impressioni ci danno solo un complesso di
qualità tra le quali al massimo si può rintracciare una certa
coerenza costante; ma non è in alcun modo giustificata la
convinzione che esistano degli oggetti dotati di una realtà
sostanziale, esterna e indipendente dalle nostre percezioni; solo di
queste possiamo infatti essere certi, ma non possiamo mai superarle.
Alla stessa stregua è impossibile pensare l’esistenza di un io o
anima, come un qualcosa di permanente al di là del flusso di
percezioni. Hume afferma infatti che “noi
non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che
si susseguono con un’inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso
e movimento”.
Tanto la realtà materiale, dunque, quanto il soggetto spirituale
sono arbitrarie costruzioni: ogni realtà si scioglie in un flusso di
percezioni. L’analisi di Hume porta, quindi, ad un esito fortemente
scettico sia per quanto riguarda l’esistenza di una sostanza
materiale che di una spirituale, sia per quanto riguarda le
conclusioni delle cosiddette scienze esatte. Egli, però, distrutte
tutte quelle cose che erano state date per assodate, cerca di capire
l’origine di tale dottrine. Hume giunge alla conclusione che la
sostanza materiale e la sostanza spirituale non sono dimostrate con
un ragionamento, ma sono piuttosto il frutto di una credenza,
inevitabile e istintiva, rispondente alle esigenze della vita pratica
che non si contenta del mondo fluttuante delle percezioni. Noi
abbiamo, infatti, una inclinazione istintiva, un'abitudine,
che ci porta a credere alla relazione causa-effetto, all’esistenza
di oggetti esterni e ad un nostro io, nel senso di soggetto
permanente, e a servircene nella vita quotidiana. In verità l’io è
solo un succedersi di percezioni, mentre la relazione causa-effetto
nasce dal credere che il futuro sia uguale al passato, e dal
connettere due fenomeni mediante l’immaginazione. Il bene
e il male,
la virtù
e il vizio
sono giudicati in rapporto al piacere o al dolore che certe
impressioni provocano in noi: ma non si tratta di un piacere
egoistico, bensì di un piacere disinteressato che nasce in noi dalla
“propensione
a simpatizzare con gli altri e a riceverne, comunicando con loro, le
inclinazioni e i sentimenti, per quanto diversi o contrari ai
nostri”.
Alla radice dei nostri giudizi morali sta dunque una particolare
“qualità
della mente umana”,
un “principio
potentissimo”:
la simpatia.
La simpatia
è un sentimento che accomuna tutti gli uomini, e che ci spinge a
provare una sensazione gradevole quando incontriamo azioni utili e
benefiche per gli altri, ed una sgradevole quando vediamo azioni che
portano loro danno. È da queste sensazioni gradevoli o sgradevoli
che nascono i concetti di virtù
e vizio.
In base allo stesso principio, la coscienza
simpatetica,
noi valutiamo le nostre azioni, perché risentiamo del piacere e del
dolore che gli altri provano in rapporto al nostro comportamento.
Tale concezione morale spiega quindi il suo valore universale e il
fatto che la nostra simpatia
non si estende a persone molto lontane da noi. Hume critica il
giusnaturalismo
e il contrattualismo
per la loro impostazione astrattamente razionalistica, e propone una
visione più utilitaristica e realistica: i primi nuclei familiari si
formano per impulso sessuale; poi si formano le società allo scopo
di garantire i bisogni di ciascuno. Nasce quindi la giustizia; ma
essa non si conforma ad una presunta legge di ragione, ma semmai si
conforma alla virtù
artificiale,
nata dalla necessità di garantire quell’equilibrio di interessi.
Non si ha quindi un patto a fondamento dello stato, quanto un comune
consenso, dettato dal sentimento generale di potere garantire gli
interessi di tutti e di ciascuno. Negli ultimi anni Hume farà una
serrata critica anche alla fenomenologia religiosa. Quattro sono le
opere che trattano il problema:
- Ricerca sull’intelletto dell’uomo: Hume critica l’utilizzazione dei miracoli nell’Apologia religiosa, in quanto non sono verificabili. Sottopone a critica anche la dottrina di una vita futura e la dottrina della provvidenza.
- Sull’immortalità dell’anima: Hume insiste sull’impossibilità di dimostrare tale concetto;
- Storia naturale della religione: Hume afferma che la religione deriva dalle passioni; e cioè dal timore e dalla speranza che l’uomo coglie nelle forze della natura. Quindi descrive come nasce dapprima il politeismo; quando i popoli proiettavano in esseri divini le forze della natura, comprese anche le passioni umane più abiette. Quindi si passa al monoteismo, mediante un sempre più purificata idea di essere supremo. Anche se poi si ritorna ad un lieve politeismo con la credenza in uomini, che fanno da intermediari tra l’uomo e Dio. Ciò non significa però che Hume voglia svalutare il fenomeno religioso, anzi la sua storia dimostra che l’uomo ha sempre avuto in sé tale espressione. Il filosofo può solo stare fuori dalle dispute religiose e dai fanatismi.
- Dialoghi sulla religione naturale: Hume critica la teologia naturale che pretende di potere dimostrare l’esistenza di Dio e i suoi attributi. Critica anche l’argomento della risalita dal molteplice all’unità, con l’argomento che ciò sarebbe come se guardando una casa si potrebbe risalire all’architetto. Il libro non nega però la teologia naturale, in quanto sarebbe fare un altro dogmatismo. Hume si limita a mostrare i contrasti e le problematiche, per accennare alla fine, in maniera cauta, che proprio questo non poter superare il mondo fenomenico in cui l’uomo è collocato può essere propizio alla fede cristiana.
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