Richard
Rorty (1931 – 2007), autore
di La filosofia e lo specchio della natura
(1980) e Conseguenze del pragmatismo
(1982), opera all'interno di un contesto filosofico fortemente
influenzato dal secondo Derrida e dalla scuola di Yale. Da entrambi
questi stimoli nasce una caratteristica riflessione americana che ha
come suo massimo esponente Rorty, la cui formazione è il risultato
della confluenza tra la scuola analitica di Oxford e il pragmatismo
americano.
Rorty
attribuisce alla posizione del secondo Derrida e della scuola di Yale
il nome di “testualismo”. Con tale termine si esprime la
convinzione ben precisa che l'intellettuale che pensa e scrive non
dialoga mai con le cose, ma solo con in testi, e che,
conseguentemente, le sue non sono mai riflessioni sul mondo, ma su
testi scritti da altri.
Il
testualismo, a parere di Rorty; si divide in due correnti
principali. Esse sono:
- il testualismo debole, di cui il maggiore esponente è Gadamer, che, pur facendo consistere il pensiero nell'interpretazione dei testi, ritiene tuttavia che dietro di essi vi sia una verità, anche se questa rimane irraggiungibile nella sua interezza;
- il testualismo forte, di cui sono esemplari il secondo Derrida e la scuola di Yale, ha, invece, rinunciato al concetto di verità e intende tutta la realtà come una sorta di testi da interpretare, oltre che in maniera del tutto libera, senza dover rendere conto a nessuno della validità dell'interpretazione data.
Rorty
ritiene da una parte che il testualismo debole sia incoerente, non
riuscendo a portare sino in fondo le proprie istanze e dall'altra che
il testualismo forte, interpretando il mondo come un insieme di
testi, non sia altro che una stravaganza.
Le
cose cambiano del tutto però se il testualismo viene utilizzato non
per scoprire dei mondi, bensì per interpretarli. In tal caso,
infatti, finisce di essere una stravaganza. Ciò perché i mondi non
sono mai prodotti arbitrari, bensì entità valutabili in base alla
loro funzionalità. In tale interpretazione del testualismo un ruolo
importante lo riveste il vecchio pragmatismo.
Inoltre,
Rorty prende in esame la frattura che si è venuta a creare e sempre
più ad accentuare tra la filosofia tecnica e la vecchia filosofia di
stampo tedesco.
La
filosofia tecnica, da cui egli stesso proviene, comprende l'analisi
del linguaggio, la semantica e la filosofia analitica. Tutte queste
hanno rinunciato a priori ad un approccio creativo del discorso
filosofico in vista del rigore dell'analisi.
La
vecchi filosofia di stampo tedesco, invece, chiede alla filosofia la
produzione di concetti non solo formali, ma di veri e propri discorsi
sistemici, intellettualmente consistenti. Anche in questo caso il
pragmatismo può essere un valido aiuto per sanare tale frattura.
Per
Rorty la filosofia è sostanzialmente un “genere letterario”
che deve essere sganciato da qualsiasi principio trascendentale o da
qualsiasi presunto fondamento ontologico. La filosofia, in latri
termini, non può garantire alcuna assolutezza o identificare la
ragione con l'essenza.
Questa
è una credenza che si è avuta a partire da Cartesio e che ha avuto
in Kant il maggiore esponente. Il limite di questa convinzione non
consiste solo nell'infondatezza della credenza stessa, ma, anche e
soprattutto, nell'inutilità di essa. Ciò nel senso che il ritenere
la filosofia un sapere oggettivamente fondante non ha avuto una
funzionalità sociale, se non in maniera scarsa e comunque
irrilevante. È stato solo una forma di culto praticato per alcuni
secoli da un “isolato ordine sacerdotale”.
Per
Rorty acquisisce maggiore senso rifarsi ai baconiani, che vedevano
nella scienza una sorta di potere, oppure prendere sul serio le
parole di Dewey, secondo cui per ridare al mondo il suo incanto, per
ridare ciò che la religione dava ai nostri antenati, bisogna
rimanere fedeli esclusivamente al concreto.
La
ripresa del pragmatismo, in special modo di quello di Dewey, porta a
tentare una “ingegneria sociale” in sostituzione
della religione tradizionale. Il postmoderno, pertanto, viene
dichiaratamente connesso al fatto che viviamo in un mondo
secolarizzato in cui l'uomo ha preso coscienza del fatto di essere un
essere finito, senza alcun legame con l'al di là.
Ciò
non significa, per Rorty, affermare una sorta di relativismo o
irrazionalismo. Si tratta, piuttosto, di ridimensionare i compiti
affidati in maniera indebita alla ragione. Nel fare ciò bisogna
tenere ben presente il legame della ragione con il linguaggio. Legame
che deve instaurare una conversazione i cui criteri siano
specificatamente pragmatistici, ossia temporanei punti fermi
istituiti per finalità utilitarie, e cioè per scopi umani
realizzabili.
Diviene
chiaro, quindi, la peculiarità del neopragmatismo che, partendo dal
presupposto che non esistano altri vincoli nell'indagine se non
quelli discorsivi, vi scopre la base di un nuovo senso della
comunità. Quest'ultima, infatti, ora può essere considerata
realmente nostra, e non più della natura; e, pertanto, creata e non
scoperta, ossia una delle tante edificate dagli uomini. Da Richard
Rorty consegue che la forma di vita intellettuale europea non ha
garanzie né di successo né epistemologiche né una meta perché è
fine a se stessa.
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