La
critica effettuata da secondo Wittgenstein alla propria teoria del
linguaggio come raffigurazione della realtà viene ripresa in maniera
costante dalla filosofia del linguaggio per polemizzare contro tutte
quelle dottrine fisicalistiche del linguaggio.
In
maniera più specifica sono due le idee che vengono maggiormente
riprese dalla suddetta autocritica wittgensteiana. Esse sono:
- al linguaggio non interessa accertarsi in maniera preventiva della verità o falsità dei suoi oggetti; anzi, possiamo affermare che al linguaggio rimane inessenziale una operazione di tal genere;
- al linguaggio, attraverso i suoi giochi e le sue regole, si deve la genesi dei predicati che utilizziamo per designare le cose. Conseguentemente, al linguaggio si deve la nascita dei nostri stessi concetti.
Queste
due idee evidenziano due aspetti specifici del concetto di “verità”
in ambito filosofico. Ed infatti, esse identificano da un lato il
linguaggio con l'essenza dell'uomo come essere pensante, dall'altro,
però, mettono in evidenza la finitezza dell'uomo stesso, in quanto
essere incapace di possedere la verità, che, nonostante ciò,
ritiene di non potere fare a meno di ricercare.
L'uomo,
pertanto, non ricerca
più la verità, ma una parte di essa. Conseguentemente,
matura una concezione della verità come interpretazione linguistica
di essa, ossia, utilizzando un termine greco, come ermeneutica.
In
tal senso si era già mosso Heidegger con il suo continuo rinvio
delle interpretazioni, per cui ogni spiegazione rinvia ad un'altra, e
questa ad un'altra ancora secondo un processo all'infinito.
Ciò
metteva in evidenza l'instabilità esistenziale dell'uomo.
Instabilità che, configurandosi anche come dramma esistenziale,
viene studiato dalla corrente filosofica dell'ermeneutica.
Fondatore
dell'ermeneutica contemporanea è un discepolo di Heidegger, ossia
Hans Georg
Gadamer (1900 –
2002). Tra le sue opere principali abbiamo: Verità e
metodo, del 1960; Piccoli
scritti, del 1967 –
1977 e La ragione nell'età della scienza,
del 1976.
Gadamer
capovolge il senso dei “giochi
linguistici”
di Wittgenstein, in quanto per lui non è vero che i giochi
linguistici siano usati dal giocatore, cioè il parlante, ma, al
contrario,
è il parlante ad essere un ingranaggio del gioco del linguaggio.
Ciò
perché il parlante si trova sempre all'interno di una realtà
linguistica a lui preesistente, ossia dinanzi ad una lingua ben
precisa, a cui appartengono delle parole e tutta una serie di testi
che in quella lingua sono stati scritti.
Diviene,
quindi, essenziale il problema di costituire una linguaggio comune
tra l'uomo e i testi che gli si impongono innanzi. Tale problema
viene affrontato dall'ermeneutica, che si occupa di studiare il
metodo per interpretare nella corretta maniera i prodotti già
esistenti e il senso di essi.
L'ermeneutica
per Gadamer deve focalizzare la propria attenzione non solo su ciò
che è scritto, ma, anche e soprattutto, sul non
– detto,
che spesso e volentieri è più importante di ciò che è
esplicitato.
L'interpretante,
a sua volta, interroga il testo in maniera non del tutto “libera”,
ma con una precomprensione condizionante
del testo. Tale
autocomprensione è, a sua volta, condizionata dal testo su di noi.
Tutto
ciò costituisce il cosiddetto circolo
ermeneutico,
e cioè le parti di un testo possono essere comprese in maniera
corretta solo mediante una precomprensione preventiva del testo
considerato nella sua totalità. Al contempo, però, non può essere
compresa la sua totalità se non attraverso una corretta comprensione
delle sue parti.
Per
tale motivo si inizia da un approccio
imperfetto, che possiamo
definire di compromesso,
e che è appunto la già detta precomprensione del testo. In realtà
il testo e il suo interprete
sono come due orizzonti,
che dovrebbero fondersi insieme, ma che, non riuscendo a farlo,
evidenziano la finitezza dell'uomo ed i limiti della sua conoscenza.
Il
concetto di verità di Gadamer assume un significato del tutto
particolare. La verità, infatti, si genera dall'integrazione da
parte di due mondi (la realtà e l'interprete, ossia il testo e
l'interprete). Tale integrazione è perseguibile perché si ha una
qualche armonia di base tra le due strutture. Nonostante ciò, però,
l'integrazione tra i due può essere soltanto parziale, e, comunque,
mai definitiva. La formazione dei concetti nella mente dell'uomo,
quindi, sono il prodotto dell'impossibilità di una comprensione
totale del mondo. Incomprensione che costringe l'uomo a ripiegare su
tutti quei frammenti di comprensione, che sono appunto i concetti.
Gadamer
polemizza, inoltre, contro la presunzione da parte della scienza di
giungere a conoscenze stabili. Tale presunzione ha la sua massima
espressione nel concetto stesso di metodo.
Per Gadamer con il termine
metodo si intende uno strumento attraverso cui un soggetto pretende
di disporre a suo piacimento un oggetto. La scienza sbaglia perché
scambia tale metodo con la verità. Ed infatti, la verità non è mai
un possesso dell'oggetto, ma un perenne ed incessante processo di
domanda e risposta fra l'interprete e il mondo.
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