L'antropologia
si occupa dello studio dell'uomo in quanto tale e affonda le sue
radici nel pensiero filosofico tedesco con autori come Herder,
Kant e von Humboldt.
Tale
disciplina prende avvio grazie a quelle scienze sempre più attente
ad approfondire gli aspetti peculiari del comportamento umano e
grazie allo sviluppo di tutte quelle tematiche fenomenologico –
esistenzialistiche volte a porre attenzione sull'uomo di contro a
tutti quei grandi sistemi della “ragione” o alla riduzione
della vita spirituale a meri fatti “positivi”.
Una
tappa importante per lo sviluppo dell'antropologia filosofica si ha
in Germania con l'opera di Max Scheler dal titolo La
posizione dell'uomo nel cosmo, del 1928.
Secondo
Scheler bisogna fondare una nuova antropologia filosofica che riesca
a giungere ad una concezione unitaria dell'uomo. Per fare ciò
bisogna superare le tre concezioni contrastanti ed inconciliabili che
si sono sviluppate all'interno del pensiero occidentale. Esse sono:
- la concezione giudaico – cristiana dell'uomo, secondo cui l'uomo è essenzialmente un essere caduto;
- la concezione greca, secondo cui l'uomo partecipa di una razionalità sovrumana, di un logos che è fondamento dell'ordine dell'universo;
- la concezione delle scienze umane, secondo cui l'uomo altro non è che il frutto dell'evoluzione.
La
posizione dell'uomo deve, invece, essere compresa prendendo in esame
le energie e le facoltà psichiche messe in evidenza dalla scienza.
Ciò significa che l'uomo non deve analizzato prendendo in
considerazione le sue facoltà o le diverse attività in cui si
esplica (arte, religione, filosofia, scienza, ecc), ma prendendo in
considerazione soltanto lo spirito come capacità di emanciparsi dai
comportamenti legati all'organismo. Emancipazione che porta l'uomo ad
“oggettivare” sia se stesso che l'ambiente. Operazione
questa di cui l'animale non è capace. A questa forma di
oggettivazione non corrisponde una sospensione del giudizio di tipo
husserilana, ma un vero e proprio dire no ai dettami della natura, un
uscire fuori dal mero ciclo vita – morte, e, pertanto, un
innalzamento al di sopra della realtà per una riformulazione del
tutto diversa.
La
negazione, dice Scheler, non deve essere intesa né in maniera greca,
come se lo spirito avesse una propria autonomia ed una propria
attività, né in senso schopenhaueriano, ossia come identificazione
dello spirito come negazione; bensì in senso esclusivamente
produttivo. Ciò significa che la negazione permette alla spirito di
impadronirsi delle forze vitali, che confluiscono sempre dal basso e
mai dall'alto, rifiutando di adagiarsi o di adeguarsi della realtà
circostante.
Helmuth
Plessner (1892 – 1985), filosofo e sociologo tedesco, fu
autore di innumerevoli scritti. Tra di essi i principali sono:
L'unità dei sensi, del 1923; I gradi dell'organismo e l'uomo.
Introduzione all'antropologia filosofica, del 1928; Il destino
delle spirito tedesco alla fine della sua epoca borghese, del
1935, Riso e pianto, del 1941; Tra filosofia e società,
del 1953; Conditio humana, del 1964 e Al di qua
dell'utopia del 1966.
Anche
Plessner afferma il distacco consapevole dell'uomo dall'animalità e
dalla corporeità. Egli, inoltre, insiste sul carattere “eccentrico”
dell'uomo rispetto agli altri esseri viventi.
Con
la civiltà e la cultura l'uomo, infatti, ha costruito tutta una
serie di strumenti di dominio della realtà (“protesi”)
che prolungano i suoi organi, ma che, al contempo, rendono sempre più
sconcertante il suo rapporto con il mondo. In tal senso basta pensare
a tutte quelle discussioni incentrate sulla funzione disumanizzante
della tecnica.
Questo
carattere “eccentrico” dell'uomo deve portarlo ad
escludere qualsiasi tipo di discorso metafisico sulla sua natura sia
in senso creazionistico quanto in senso evoluzionistico e
materialistico. L'uomo, quindi, deve limitarsi a riconoscere la
peculiarità della sua posizione storica come campo in cui si attuano
le sue capacità esplicative e creative. Ciò, però, deve essere
compiuto senza fare ricorso a false utopie, ossia senza ricorrere a
leggi universali e rigorose che vadano a trascendere i limiti
intrinseci dell'antropologia.
Arnold
Gehlen (1904 – 1976) fu filosofo, antropologo e sociologo
tedesco. Tra le sue opere principali abbiamo L'uomo, la sua natura
e la sua posizione nel mondo, del 1940; Uomo arcaico e tarda
civiltà, del 1956; L'uomo nell'era della tecnica, del
1957 e Morale e ipermorale. Un'etica pluralistica, del 1969.
Anche
Gehlen opera una distinzione ben precisa tra uomo ed animale.
Distinzione basata sul fatto che l'uomo, al contrario dell'animale,
non ha un ambiente specifico e non è legato a comportamenti organici
o istinti ben precisi. Gehlen, però, focalizza l'attenzione sulla
“filosofia delle istituzioni”, ossia sullo
studio della genesi e della funzione delle istituzioni mediate dal
linguaggio. E cioè su quel mondo in cui si è concretizzata la
specificità del comportamento umano. La differenza dall'animale,
almeno inizialmente, rappresenta per l'uomo una condizione di
insicurezza, che viene superata mediante la comunicazione linguistica
finalizzata alla nascita di una serie di istituzioni quali la
famiglia, società, Stato, ecc. Istituzioni che costituiscono una
sorta di garanzia oggettiva là dove è venuta a mancare quella
dell'istinto.
Queste
istituzioni, però, assumono una propria autonomia e rigidità,
portanti quella alienazione di cui parla Hegel e Marx e che li rende
non semplici strumenti alla portata dell'uomo.
Ciò
giustifica la genesi di quel senso critico dell'epoca moderna rivolto
contro le suddette istituzioni. Senso critico che non può portare
alla liberazione dell'uomo, se non al rischio di una nuova
condizione di indifesa e di disorientamento di egli stesso.
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