La
scuola di Francoforte si prospetta essenzialmente come sviluppo
delle dottrine marxiste e del pensiero sociologico. Fondata a
Francoforte nel 1923, assume rilevante importanza nel 1931 grazie
alla presa di posizione di Max Horkheimer. Attorno
all'istituto e alla sua Rivista per la ricerca sociale si
raccolsero filosofi, psicologi e sociologi. Con l'avvento del nazismo
la sua sede venne trasferita a Parigi e, in seguito, a New York.
La
collaborazione dei vari studiosi si concretizzò nella elaborazione
di alcuni studi come Le ricerche sul pregiudizio, del 1949 –
1950; I falsi profeti. Studio sulle tecniche agitatorie in
America, del 1949 e La personalità autoritaria, del 1950.
Uno
dei contributi teoretici più importanti della scuola è la
dottrina della teoria critica di Horkheimer elaborata negli anni
trenta. Essa tenta di portare un reale e concreto sviluppo storico al
marxismo attraverso il confronto con le correnti filosofiche più
importanti della filosofia europea del tempo, e cioè lo storicismo,
la fenomenologia, il pragmatismo e l'esistenzialismo.
La
teoria critica della società rifiuta e confuta ogni concezione che
vede nella teoria, nella scienza e nella filosofia un procedimento
autonomo. Bisogna, invece, tenere presente l'importanza fondamentale
delle condizioni storiche e sociali. Una teoria, una scienza ed una
filosofia che ignora le condizioni storiche e sociali si limita a
riflettere in maniera inconsapevole una divisione del lavoro di cui
non indaga, o ancora meglio, non studia né le condizioni né i
risultati né la possibilità di superamento. In tal senso la teoria
critica non intende fare altro che continuare il discorso critico
dell'economia politica avviata da Marx ed Engels. Uno sviluppo che è
sì dialettico, ma non nel senso di accettazione del materialismo
dialettico come legge universale della realtà, bensì nel senso di
volere respingere ogni concezione semplicistica della teoria come
semplice rispecchiamento o analisi della realtà sociale e di
contrapporsi ad essa per mostrarne le potenzialità e le condizioni
che possano portare alla liberazione.
Una
delle discipline più importanti per la teoria critica è la
psicologia, o, ancora meglio, tutti i metodi più raffinati elaborati
dalla psicologia, dalla psicologia sociale e dalla psicoanalisi. Ciò
al fine di comprendere come si venga a costituire l'ideologia,
ossia come vengano ad operare i meccanismi psichici e i comportamenti
inconsci che determinano e dettano le grandi correnti di opinione, e,
perfino, di consenso nelle masse e negli individui rispetto ad una
situazione sociale oppressiva e repressiva o, comunque, determinata
da interessi che non sono per niente i loro.
Walter
Benjamin (1892 – 1940), filosofo a Berna, si laurea a Berna nel
1919 con una tesi dal titolo Il concetto di critica d'arte nel
romanticismo tedesco. Nel 1925 si ha la sua tesi di libera
docenza dal titolo Origine del dramma barocco tedesco. Non
riesce, però, ad ottenere la docenza alla facoltà di filosofia
dell'università di Francoforte. Con l'avvento del nazismo si rifugia
prima in Parigi e dopo in Spagna. Non riuscendo, però, a fuggire,
pur di non cadere nelle mani naziste, si toglie la vita.
Tra
i suoi scritti principali abbiamo: Le affinità elettive di
Goethe, del 1924; L'opera d'arte nell'epoca della sua
riproducibilità tecnica, del 1936; numerosi saggi, tra cui le
Tesi di filosofia della storia, rimaste in parte inediti.
Egli
perviene ad una concezione marxista nel 1930 tramite gli studi sulla
filosofia della storia e le ricerche di estetica. Nel 1936 pubblica
sulla Rivista per la ricerca sociale il celebre saggio su
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.
Tale saggio analizza il rapporto tra l'arte e le condizioni di
produzione storico – sociali.
A
tal riguardo, Benjamin osserva che una delle caratteristiche salienti
del nostro tempo è l'avvento, attraverso la fotografia e il cinema,
di un tipo di arte fondato sulla sua riproducibilità tecnica. Si ha,
quindi, un'arte che ha perduto la propria aura, ossia quel rapporto
che nel passato la legava ad una tradizione, a un Hin e Hunc
dove esercitava una funzione rituale. Basta pensare, ad esempio, ad
un dipinto collocato su un altare o su una Chiesa.
L'arte
contemporanea, quindi, si emancipa da un certo tipo di esistenza
parassitaria nell'ambito di un rituale per fondarsi su un altro tipo
di prassi, e cioè sulla politica. Il tutto con due possibili esisti
opposti. Essi sono:
- quello del fascismo che persegue un'estetizzazione della vita politica finalizzata in ultima analisi alla guerra. Cosa questa mostrata chiaramente dal Martinetti;
- quello del comunismo che politicizza l'arte in funzione rivoluzionaria.
Il
concetto di rivoluzione elaborato da Benjamin è fortemente collegato
alle istanze messianiche ereditate dalla tradizione ebraica. Una
concezione, quindi, che polemizza sia con l'illusione di collegarla
alla tecnica e al lavoro come suo sviluppo naturale, sia contro ogni
forma di storicismo che esalti la continuità del passato e consideri
il suo significato compiuto e stabilito.
Al
contrario, il concetto di rivoluzione indica una rottura radicale
della continuità del tempo e una sua diversa ricomposizione che
renda giustizia al passato sottraendolo ad una valutazione di chi
vuole appropriarsene. In altre parole, il concetto rivoluzionario va
legato all'attesa messianica della redenzione del passato a cui il
presente è legato.
Max
Horkheimer (1895 – 1973), sociologo e filosofo tedesco, con
l'avvento del nazismo fuggì dalla Germania per recarsi prima in
Francia e poi negli Usa. Tornò a Francoforte nel 1949 e riprese la
docenza all'università interrotta con la sua fuga.
I
suoi scritti principali sono: Gli inizi della filosofia borghese
della storia, del 1930; Eclissi della ragione, del 1947;
Teoria critica della società. Scritti 1932 – 41; del 1968.
Horkheimer
polemizza contro la ragione strumentale, che ha portato ad una
sempre minore fiducia nelle possibilità liberatrici dell'analisi
della società e che accentua la preoccupazione per l'avvento di una
nuova sciagura, ossia il dominio di una amministrazione globale.
Notevole
è il saggio La dialettica
dell'illuminismo, scritto insieme ad Adorno e pubblicato
nel 1947. Questa opera intende chiarire i motivi per cui l'umanità
invece di entrare in uno stato veramente umano sprofondi in un nuovo
genere di barbarie. In altri termini, chiarisce le ragioni per cui
l'illuminismo sancisce un processo di autodistruzione e dia inizio ad
un progresso che si capovolge in regresso.
Ovviamente
il termine illuminismo non viene inteso nella sua valenza
storica, culturale e filosofica settecentesca, bensì nel destino
intrinseco alla ragione stessa. Destino conseguente alla ricerca dei
mezzi per raggiungere certi scopi. Destino già rintracciabile nel
mondo omerico ed interpretato da Ulisse, che rappresenta la
contrapposizione dell'illuminismo al mito, della ragione strumentale
alla natura. Una ragione, quindi, che da Kant a Sade manifesta sempre
di più il suo carattere formale, e, quindi, la sua
indifferenza per la natura, la realtà e la storia, rivelandosi come
formidabile strumento di dominio proprio per questo suo carattere
puramente formale, ordinatore, ma al contempo si trasforma in uno
strumento totalitario di assoggettamento dell'uomo, poiché ha
perduto ogni carattere dialettico e, quindi, ogni capacità critica
ed autocritica.
Queste
argomentazione vengono rielaborate e riformulate in una serie di
scritti dal titolo Eclissi della ragione, del 1967. In questi
lavori Horkheimer si propone di chiarire e di individuare le ragioni
di un progresso che minaccia di distruggere quello che dovrebbe
essere il suo scopo, ossia l'idea di uomo. Tale critica ovviamente
polemizza contro il concetto di razionalità vigente nel mondo
contemporaneo.
Il
difetto fondamentale della ragione soggettiva del mondo contemporaneo
e della civiltà industriale è quello di essere divenuta meramente
strumentale, ossia semplice calcolo di un rapporto tra fini e
mezzi. Tale fatto ha soppiantato il concetto di ragione oggettiva,
capace di determinare la razionalità intrinseca dei fini da
perseguire. Tutto ciò ha fatto sì che si sia sfociato in un dominio
più irrazionale dell'uomo e in una natura intesa come semplice
oggetto di sfruttamento da parte dell'uomo. Contro tale tendenza non
si tratta di andare a recuperare questa o quella filosofia del
passato, bensì si tratta di riportare la filosofia al suo terreno,
che è quello di ricerca della verità, almeno nel senso negativo di
smascheramento delle menzogne e delle illusioni, di non permettere
alla paura di sminuire le nostre capacità di pensare.
Theodor
Wiesengrund Adorno (1903 – 1969) fu filosofo, sociologo e
musicologo tedesco. Divenne collaboratore della Rivista per la
ricerca sociale di Francoforte dal 1930. Qui vi ritorna ad
insegnare dal 1950, ossia dopo essere fuggito per le persecuzioni
razziali prima in Francia e poi negli USA. Tra i suoi scritti
principali abbiamo: Kierkegaard, del 1933; Filosofia della
musica moderna, del 1949; Minima moralia, del 1951; Sulla
critica della gnoseologia, del 1956; Dialettica negativa,
del 1956 e, postumi, Teoria estetica, del 1970 e Terminologia
filosofica, del 1973.
L'opera
di Adorno è molto complessa. Ed infatti, egli, oltre a collaborare
con Horkheimer nella stesura della Dialettica dell'illuminismo,
sviluppa un pensiero di interesse vario e molteplice. I suoi studi
spaziano dalla filosofia alla critica, dalla sociologia dalla musica
a forme sottili e spesso amare di analisi del costume morale
contemporaneo. Importanti sono le sue riflessioni sui rapporti tra la
cultura e la società capitalistica e borghese; così come rilevanti
sono le aspre e dure polemiche verso un tipo di marxismo che si è
irrigidito in dogmatismi.
Gli
argomenti trattati nella Dialettica dell'illuminismo sono centrali
nello sviluppo del pensiero di Adorno perché rappresentano il suo
massimo confronto con Hegel e Marx. In questo lavoro, inoltre, si
polemizza contro lo scientismo e il logicismo della filosofia
contemporanea, a cui appartiene anche la fenomenologia husserliana.
Per
Adorno l'opera di Hegel non è per niente superata. Ciò perché la
sua dialettica ha saputo perfettamente cogliere e sottolineare la
tendenza della società moderna a ridurre tutto ad identità, anche
se non viene mai sminuito la forza insopprimibile della
contraddizione, che non è potuta emergere nelle sue caratteristiche
storico – sociali con tutta la sua chiarezza nell'opera hegeliana,
ma che è diventata palese nella società capitalistica e, in maniera
più generale, nella società industriale avanzata.
La
dialettica, quindi, rimane la chiave di volta della filosofia, e per
tale ragione può configurarsi soltanto come dialettica negativa.
L'aggettivo negativo, infatti, sottolinea il rifiuto della dialettica
per ogni tipo di subordinazione che diventa conservatrice e
mascheramento dello stato di alienazione crescente della società
contemporanea, la quale sopprime tutto ciò che le resiste, e quindi
che non è ad essa identico. Alla dialettica, quindi, Adorno
attribuisce una funzione di antisistema, funzione questa che viene
legata anche all'arte contemporanea.
Le
caratteristiche dell'arte contemporanea vengono tracciate già in
alcuni suoi scritti pubblicati nella Rivista per la ricerca
sociale. Qui si polemizza contro tutte quelle interpretazioni
sentimentalistiche dell'arte. Inoltre, vengono respinte tutte quelle
tesi che connettono l'arte con il tempo a cui appartiene. In altre
parole, si rifiuta il nesso arte – società e arte – storia.
Nessi che porterebbero al concetto di rispecchiamento dell'uno
nell'altro. Rispecchiamento che altro non fa che strumentalizzare
l'arte stessa. Adorno rifiuta anche il concetto di tipico
nell'arte, ossia l'interpretazione di essa come una sorta di
conciliazione tra universale e singolare nel particolare. Questa
concezione era stata avanzata da Lukacs, e da Adorno rifiutata perché
porterebbe alla totale svalutazione dell'arte d'avanguardia
contemporanea. Al contrario, bisognerebbe chiedersi quale sia il
ruolo e la funzione dell'arte nel contemporaneo. Solo ponendosi
questa domanda si può capire che essa oggi ha una funzione
necessariamente critica. Ciò non perché se la propone (perché se
così fosse sarebbe un'azione strumentalizzata e strumentale, e,
quindi, rientrerebbe sempre nel sistema) ma proprio perché non
proponendosela non risponde ad una logica strumentale o ad una logica
dell'immaginazione asservita alla logica strumentale. In tal senso
viene ripreso il concetto di bello di Kant. Ciò perché questi ha
intuito molto bene che solo nell'arte l'immaginazione si sviluppa in
modo non subordinato ad un rapporto di razionalità.
Herbert
Marcuse (1898 – 1979), filosofo e sociologo francese, dopo
l'avvento del nazismo si rifugia negli Usa, dove insegna a Harvard e
alla Columbia University.
Tra
i suoi scritti principali abbiamo: L'ontologia di Hegel e la
fondazione di una teoria della storicità, del 1932; Ragione e
rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale, del 1941;
Eros e civiltà, del 1955; Soviet Marxism, del 1958;
L'uomo a una dimensione, del 1964 e La dimensione estetica,
del 1977.
Marcuse
viene considerato un esponente della scuola di Francoforte, anche se
la sua formazione è diversa da essa. Ciò è reso chiaro
dall'impostazione heideggeriana del suo libro su Hegel.
Il
suo pensiero ha acquisito notevole rilevanza nei movimenti
studenteschi del 1968. La sua critica alla società industriale,
infatti, interpretata come sistema che riduce l'uomo ad una sola
dimensione, veniva ad accentuare l'importanza del pensiero negativo,
del grande rifiuto. Inoltre, sottolineava che le forze autenticamente
rivoluzionarie erano costituite da tutti quegli elementi emarginati
socialmente, razzialmente, culturalmente, ecc.
Pur
condividendo molte delle istanze della critica marxiana
dell'alienazione, Marcuse non ravvisa più la soluzione nella lotta
di classe ad opera del proletariato. Ciò perché lo sviluppo
tecnologico ha raggiunto un livello così elevato da integrare nel
proprio sistema anche le forze che dovrebbero esserne l'antagonista.
Integrazione di tali forze effettuata, non solo tramite una serie di
mezzi materiali più o meno coercitive, ma anche e soprattutto
attraverso una sorta di dominio psicologico e culturale.
Jurgen
Habermas, nato nel 1929, è filosofo e sociologo tedesco,
attualmente insegnante all'università di Francoforte. Tra i suoi
scritti principali abbiamo: Teoria e prassi, del 1963; Storia
e critica dell'opinione pubblica, del 1965; Logica delle
scienze sociali, del 1967; Conoscenza ed interesse, del
1968; La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, del
1983; Il discorso filosofico della modernità, del 1985; Il
pensiero post-metafisico, del 1988 e Dopo l'utopia del
1991.
il
problema centrale della filosofia di Habermas è quello di operare un
discorso scientifico rigoroso e legittimo, un discorso che si occupi
del rapporto tra teoria e prassi, un discorso rigoroso su una società
ormai ampiamente spoliticizzata. Un discorso che, al contempo, mostri
l'esigenza di una effettiva emancipazione non riducibile a schemi
estrinseci di modifica della realtà sociale e storica. In tal senso
egli compie un confronto critico con le principali correnti
metodologiche ed epistemologiche contemporanee, con particolare
attenzione verso il marxismo, la sociologia, le tendenze analitico –
neoposistivistiche, ermeneutiche, in maniera tale di potere attuare
una fondazione della logica delle scienze sociali. Ciò col fine di
risolvere adeguatamente i problemi epistemologici della
comunicazione, in maniera tale da attuare una reale democrazia ed
emancipazione. Tutto ciò con il preciso fine di smascherare le
dinamiche che portano alla nascita delle ideologie di massa e al
dominio delle menti del popolo. Il discorso si inserisce in un
contesto che vuole promuovere un consenso fondato razionalmente.
Nessun commento:
Posta un commento