martedì 17 luglio 2012

Soren Kierkegaard


Soren Kierkegaard nasce a Copenaghen il 5 maggio 1813, di famiglia agiata, venne educato in un ambiente fortemente pietistico. Muore a Copenaghen il 2 ottobre del 1855.
Kiekegaard ha sintetizzato il suo pensiero filosofico-religioso in una interessante postilla dal titolo Postilla conclusiva non scientifica. Tappe principali di questo itinerario sono Aut-Aut (1843), dove vengono chiariti il momento estetico e il momento etico dell’esistenza; Timore e tremore (1843), dove viene discussa la peculiarità del momento religioso come sospensione di quello etico; Il concetto dell’angoscia (1844), sulla funzione decisiva dell’esperienza del peccato per la sfera dell’esistenza religiosa; le Briciole di filosofia (1844) sul problema socratico della comunicazione e insegnabilità della verità; gli Stadi sul cammino della vita (1845), in cui viene approfondito il carattere peculiare della sfera religiosa dell’esistenza. Seguono la Postilla conclusiva non scientifica (1846), opera volta a chiarire il senso della soggettività e incomunicabilità della verità; La malattia mortale (1849) sulla disperazione come aspetto più profondo e insuperabile del peccato e L’esercizio del cristianesimo (1850) denso di polemiche contro il pensiero religioso contemporaneo.
Importanti anche le due raccolte: Discorsi edificanti (1843) e il grande Diario, disamina del suo pensiero degli anni che vanno dal 1834 al 1855. Tutto il pensiero di Kirkegaard vive nella tensione tra due poli avvertiti tra loro come opposti e irriducibili; da un lato si ha il Cristianesimo autentico, inteso come intervento di Dio nella storia per la salvezza dell’uomo, e, più esattamente, di ogni singolo uomo; dall’altro lato si ha la filosofia sistematica e assoluta, di cui proprio il pensiero hegeliano è l’espressione più coerente e significativa. Centro della sua filosofia è l’esistenza, a cominciare da Aut-Aut. Esistenza che per Kierkegaard coincide con l’interiorità, che la filosofia ha soffocato con l’erudizione. Kierkegaard polemizza contro la filosofia del tempo che ha talmente dimenticato l’esistenza da creare tutti quei malintesi irrisolti tra la speculazione filosofica e il Cristianesimo. L’esistere non è un atto unitario o una disposizione generica, bensì si articola secondo una scala di possibilità e di stadi, ciascuno dei quali si oppone al precedente e lo nega. Tra i diversi stadi non vi è mai però un passaggio necessario, e in tal senso si può parlare di una dialettica qualitativa dell’esistenza, ossia di una dialettica che procede per salti, non per passaggi mediati come quell’hegeliana. La prima possibilità è quella di vivere in modo estetico, che a rigore non è una vera e propria possibilità di esistenza, in quanto in questo stadio l’uomo non riesce a dominare le contraddizioni e le passioni della propria esistenza. Nello stadio estetico l’uomo vive sempre nel momento, ed è perciò preda di una malinconia profonda e invincibile che si conclude nella disperazione, che l’esteta cerca di occultare sotto la maschera della gioia, della frivolezza e della perversità, simboleggiate dalla figura del Dongiovanni. Lo stadio successivo è quello etico simboleggiato dal matrimonio. Mentre nel Dongiovanni la donna è soltanto il momento, nel matrimonio la bellezza della donna cresce con gli anni, ossia è la concezione del tempo e della sua funzione a cambiare radicalmente. Lo stadio etico, infatti, si ha nella misura in cui il tempo è posto a servizio della storia, ossia di una continuità universale di azione, di intenti e di criteri. L’etica è quindi lo stadio dell’universalità, dove la contraddizione è accolta e riconosciuta per essere superata. L’individuo, infatti, sottoponendosi ad una regola e ad un fine trionfa sulla passione illusoria e incostante, e, quindi anche sulla disperazione. Alla fine si ha lo stadio religioso, dove la serenità raggiunta in quello etico viene bruscamente infranta. Lo stadio religioso è simboleggiato da Abramo e dalla sua esperienza tremenda che attesta il carattere paradossale della fede. Carattere paradossale che si sintetizza nella sospensione dell’etica, il singolo, infatti, si trova con questo stadio al di sopra dell’universalità della legge morale, perché si trova in un rapporto assoluto con Dio. La situazione di Abramo è infatti del tutto diversa a quella della tragedia greca, dove l’eroe opera sì in un contrasto di doveri, ma dove si trova ancora ad operare su un piano etico, in quanto subordina un precetto morale ad uno più alto. Ad Abramo viene, invece, chiesto il sacrificio del figlio Isacco in maniera assurda e assolutamente insostenibile. Tale episodio biblico dischiude il senso fondamentale del rapporto religioso come contraddizione assoluta rispetto a tutto ciò che è immanenza e razionalità. Nello stadio religioso notevole importanza riveste l’analisi del concetto di angoscia. Poiché la religione svincola dall’immanenza e razionalità etica, da tale orrenda liberazione si ha il peccato. L’angoscia non nasce dalla trasgressione momentanea o occasionale di questo o quel precetto, ma è il punto di partenza dell’esistenza religiosa. Quindi l’esistenza religiosa in quanto è condizionata dal peccato, ha come condizione fondamentale l’angoscia. L’angoscia non è il timore verso qualcosa di determinato, ma è il timore verso il nulla, ma a differenza della filosofia hegeliana che ha nel nulla un momento fondamentale della dialettica, in Kierkegaard l’angoscia di fronte al nulla è una sorta di vertigine insuperabile, connessa alla libertà. La libertà non deve essere intesa in maniera riduttiva come scelta tra un bene o un male, ma come un qualcosa di più profondo e cioè la possibilità infinita di potere (possibilità di potere che ci rende liberi di peccare o di darci alle tentazioni). Ora, l’uomo con questo potere si contrappone a Dio.
Kierkegaard rifiuta l’interpretazione del peccato originale come un qualcosa compiuto da Adamo e poi ereditato dal genere umano, infatti, se fosse veramente così il peccato sarebbe un qualcosa di esteriore e anteriore alla storia del genere umano e dell’uomo. Il peccato originale è invece un qualcosa di inseparabile dall’esistere del singolo davanti a Dio, dal suo essere non-verità rispetto a Dio che è verità. Pertanto, non vi è alcuna differenza tra il peccato di Adamo e il peccato di ogni altro uomo. Il rapporto con Dio è perciò un rapporto paradossale e impossibile, e i due termini non possono mai essere conciliati mediante passaggi logici, ma solo mediante la fede in senso cristiano. Il momento più paradossale è dato dal fatto che la nascita e morte di Cristo ha fondato una verità universale. Infatti nessun fatto storico può fondare delle verità universali, ma questo non vale nel caso della passione di Cristo che è un fatto assoluto. L’interpretazione esistenziale del cristianesimo e la concezione cristiana dell’esistenza comportano il rifiuto del sapere sistematico in campo filosofico-religioso e la rivendicazione del carattere soggettivo del pensiero autenticamente umano. Il pensiero oggettivo pretende infatti di risolvere il singolo nella specie, l’individuo nel genere e di attingere verità universali e necessarie identiche per tutti, ma perciò stesso non pertinenti ne significative per nessuno in particolare. Il pensiero soggettivo, invece, nasce e vive nello sforzo di comprendere non l’essenza universale dell’uomo, ma la sua esistenza individuale e per ciò nasce e vive dalla contraddizione e nella contraddizione. Di qui, in fondo, il contrasto tra il pensiero speculativo che intende la verità come oggettività e il pensiero cristiano che intende invece la verità come paradosso dell’esistenza in rapporto con Dio. Di qui ancora la ripresa da parte di Kierkegaard, del tema secondo cui la verità non è propriamente insegnabile né comunicabile, giacché la verità autentica non è questo o quel sistema di argomentazioni che si possano provare o dimostrare, ma è il manifestarsi di Dio all’uomo in un processo effettivo di salvezza. 

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