martedì 4 settembre 2012

La scuola di Francoforte


La scuola di Francoforte si prospetta essenzialmente come sviluppo delle dottrine marxiste e del pensiero sociologico. Fondata a Francoforte nel 1923, assume rilevante importanza nel 1931 grazie alla presa di posizione di Max Horkheimer. Attorno all'istituto e alla sua Rivista per la ricerca sociale si raccolsero filosofi, psicologi e sociologi. Con l'avvento del nazismo la sua sede venne trasferita a Parigi e, in seguito, a New York.
La collaborazione dei vari studiosi si concretizzò nella elaborazione di alcuni studi come Le ricerche sul pregiudizio, del 1949 – 1950; I falsi profeti. Studio sulle tecniche agitatorie in America, del 1949 e La personalità autoritaria, del 1950.
Uno dei contributi teoretici più importanti della scuola è la dottrina della teoria critica di Horkheimer elaborata negli anni trenta. Essa tenta di portare un reale e concreto sviluppo storico al marxismo attraverso il confronto con le correnti filosofiche più importanti della filosofia europea del tempo, e cioè lo storicismo, la fenomenologia, il pragmatismo e l'esistenzialismo.
La teoria critica della società rifiuta e confuta ogni concezione che vede nella teoria, nella scienza e nella filosofia un procedimento autonomo. Bisogna, invece, tenere presente l'importanza fondamentale delle condizioni storiche e sociali. Una teoria, una scienza ed una filosofia che ignora le condizioni storiche e sociali si limita a riflettere in maniera inconsapevole una divisione del lavoro di cui non indaga, o ancora meglio, non studia né le condizioni né i risultati né la possibilità di superamento. In tal senso la teoria critica non intende fare altro che continuare il discorso critico dell'economia politica avviata da Marx ed Engels. Uno sviluppo che è sì dialettico, ma non nel senso di accettazione del materialismo dialettico come legge universale della realtà, bensì nel senso di volere respingere ogni concezione semplicistica della teoria come semplice rispecchiamento o analisi della realtà sociale e di contrapporsi ad essa per mostrarne le potenzialità e le condizioni che possano portare alla liberazione.
Una delle discipline più importanti per la teoria critica è la psicologia, o, ancora meglio, tutti i metodi più raffinati elaborati dalla psicologia, dalla psicologia sociale e dalla psicoanalisi. Ciò al fine di comprendere come si venga a costituire l'ideologia, ossia come vengano ad operare i meccanismi psichici e i comportamenti inconsci che determinano e dettano le grandi correnti di opinione, e, perfino, di consenso nelle masse e negli individui rispetto ad una situazione sociale oppressiva e repressiva o, comunque, determinata da interessi che non sono per niente i loro.
Walter Benjamin (1892 – 1940), filosofo a Berna, si laurea a Berna nel 1919 con una tesi dal titolo Il concetto di critica d'arte nel romanticismo tedesco. Nel 1925 si ha la sua tesi di libera docenza dal titolo Origine del dramma barocco tedesco. Non riesce, però, ad ottenere la docenza alla facoltà di filosofia dell'università di Francoforte. Con l'avvento del nazismo si rifugia prima in Parigi e dopo in Spagna. Non riuscendo, però, a fuggire, pur di non cadere nelle mani naziste, si toglie la vita.
Tra i suoi scritti principali abbiamo: Le affinità elettive di Goethe, del 1924; L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936; numerosi saggi, tra cui le Tesi di filosofia della storia, rimaste in parte inediti.
Egli perviene ad una concezione marxista nel 1930 tramite gli studi sulla filosofia della storia e le ricerche di estetica. Nel 1936 pubblica sulla Rivista per la ricerca sociale il celebre saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Tale saggio analizza il rapporto tra l'arte e le condizioni di produzione storico – sociali.
A tal riguardo, Benjamin osserva che una delle caratteristiche salienti del nostro tempo è l'avvento, attraverso la fotografia e il cinema, di un tipo di arte fondato sulla sua riproducibilità tecnica. Si ha, quindi, un'arte che ha perduto la propria aura, ossia quel rapporto che nel passato la legava ad una tradizione, a un Hin e Hunc dove esercitava una funzione rituale. Basta pensare, ad esempio, ad un dipinto collocato su un altare o su una Chiesa.
L'arte contemporanea, quindi, si emancipa da un certo tipo di esistenza parassitaria nell'ambito di un rituale per fondarsi su un altro tipo di prassi, e cioè sulla politica. Il tutto con due possibili esisti opposti. Essi sono:
  1. quello del fascismo che persegue un'estetizzazione della vita politica finalizzata in ultima analisi alla guerra. Cosa questa mostrata chiaramente dal Martinetti;
  2. quello del comunismo che politicizza l'arte in funzione rivoluzionaria.
Il concetto di rivoluzione elaborato da Benjamin è fortemente collegato alle istanze messianiche ereditate dalla tradizione ebraica. Una concezione, quindi, che polemizza sia con l'illusione di collegarla alla tecnica e al lavoro come suo sviluppo naturale, sia contro ogni forma di storicismo che esalti la continuità del passato e consideri il suo significato compiuto e stabilito.
Al contrario, il concetto di rivoluzione indica una rottura radicale della continuità del tempo e una sua diversa ricomposizione che renda giustizia al passato sottraendolo ad una valutazione di chi vuole appropriarsene. In altre parole, il concetto rivoluzionario va legato all'attesa messianica della redenzione del passato a cui il presente è legato.
Max Horkheimer (1895 – 1973), sociologo e filosofo tedesco, con l'avvento del nazismo fuggì dalla Germania per recarsi prima in Francia e poi negli Usa. Tornò a Francoforte nel 1949 e riprese la docenza all'università interrotta con la sua fuga.
I suoi scritti principali sono: Gli inizi della filosofia borghese della storia, del 1930; Eclissi della ragione, del 1947; Teoria critica della società. Scritti 1932 – 41; del 1968.
Horkheimer polemizza contro la ragione strumentale, che ha portato ad una sempre minore fiducia nelle possibilità liberatrici dell'analisi della società e che accentua la preoccupazione per l'avvento di una nuova sciagura, ossia il dominio di una amministrazione globale.
Notevole è il saggio La dialettica dell'illuminismo, scritto insieme ad Adorno e pubblicato nel 1947. Questa opera intende chiarire i motivi per cui l'umanità invece di entrare in uno stato veramente umano sprofondi in un nuovo genere di barbarie. In altri termini, chiarisce le ragioni per cui l'illuminismo sancisce un processo di autodistruzione e dia inizio ad un progresso che si capovolge in regresso.
Ovviamente il termine illuminismo non viene inteso nella sua valenza storica, culturale e filosofica settecentesca, bensì nel destino intrinseco alla ragione stessa. Destino conseguente alla ricerca dei mezzi per raggiungere certi scopi. Destino già rintracciabile nel mondo omerico ed interpretato da Ulisse, che rappresenta la contrapposizione dell'illuminismo al mito, della ragione strumentale alla natura. Una ragione, quindi, che da Kant a Sade manifesta sempre di più il suo carattere formale, e, quindi, la sua indifferenza per la natura, la realtà e la storia, rivelandosi come formidabile strumento di dominio proprio per questo suo carattere puramente formale, ordinatore, ma al contempo si trasforma in uno strumento totalitario di assoggettamento dell'uomo, poiché ha perduto ogni carattere dialettico e, quindi, ogni capacità critica ed autocritica.
Queste argomentazione vengono rielaborate e riformulate in una serie di scritti dal titolo Eclissi della ragione, del 1967. In questi lavori Horkheimer si propone di chiarire e di individuare le ragioni di un progresso che minaccia di distruggere quello che dovrebbe essere il suo scopo, ossia l'idea di uomo. Tale critica ovviamente polemizza contro il concetto di razionalità vigente nel mondo contemporaneo.
Il difetto fondamentale della ragione soggettiva del mondo contemporaneo e della civiltà industriale è quello di essere divenuta meramente strumentale, ossia semplice calcolo di un rapporto tra fini e mezzi. Tale fatto ha soppiantato il concetto di ragione oggettiva, capace di determinare la razionalità intrinseca dei fini da perseguire. Tutto ciò ha fatto sì che si sia sfociato in un dominio più irrazionale dell'uomo e in una natura intesa come semplice oggetto di sfruttamento da parte dell'uomo. Contro tale tendenza non si tratta di andare a recuperare questa o quella filosofia del passato, bensì si tratta di riportare la filosofia al suo terreno, che è quello di ricerca della verità, almeno nel senso negativo di smascheramento delle menzogne e delle illusioni, di non permettere alla paura di sminuire le nostre capacità di pensare.
Theodor Wiesengrund Adorno (1903 – 1969) fu filosofo, sociologo e musicologo tedesco. Divenne collaboratore della Rivista per la ricerca sociale di Francoforte dal 1930. Qui vi ritorna ad insegnare dal 1950, ossia dopo essere fuggito per le persecuzioni razziali prima in Francia e poi negli USA. Tra i suoi scritti principali abbiamo: Kierkegaard, del 1933; Filosofia della musica moderna, del 1949; Minima moralia, del 1951; Sulla critica della gnoseologia, del 1956; Dialettica negativa, del 1956 e, postumi, Teoria estetica, del 1970 e Terminologia filosofica, del 1973.
L'opera di Adorno è molto complessa. Ed infatti, egli, oltre a collaborare con Horkheimer nella stesura della Dialettica dell'illuminismo, sviluppa un pensiero di interesse vario e molteplice. I suoi studi spaziano dalla filosofia alla critica, dalla sociologia dalla musica a forme sottili e spesso amare di analisi del costume morale contemporaneo. Importanti sono le sue riflessioni sui rapporti tra la cultura e la società capitalistica e borghese; così come rilevanti sono le aspre e dure polemiche verso un tipo di marxismo che si è irrigidito in dogmatismi.
Gli argomenti trattati nella Dialettica dell'illuminismo sono centrali nello sviluppo del pensiero di Adorno perché rappresentano il suo massimo confronto con Hegel e Marx. In questo lavoro, inoltre, si polemizza contro lo scientismo e il logicismo della filosofia contemporanea, a cui appartiene anche la fenomenologia husserliana.
Per Adorno l'opera di Hegel non è per niente superata. Ciò perché la sua dialettica ha saputo perfettamente cogliere e sottolineare la tendenza della società moderna a ridurre tutto ad identità, anche se non viene mai sminuito la forza insopprimibile della contraddizione, che non è potuta emergere nelle sue caratteristiche storico – sociali con tutta la sua chiarezza nell'opera hegeliana, ma che è diventata palese nella società capitalistica e, in maniera più generale, nella società industriale avanzata.
La dialettica, quindi, rimane la chiave di volta della filosofia, e per tale ragione può configurarsi soltanto come dialettica negativa. L'aggettivo negativo, infatti, sottolinea il rifiuto della dialettica per ogni tipo di subordinazione che diventa conservatrice e mascheramento dello stato di alienazione crescente della società contemporanea, la quale sopprime tutto ciò che le resiste, e quindi che non è ad essa identico. Alla dialettica, quindi, Adorno attribuisce una funzione di antisistema, funzione questa che viene legata anche all'arte contemporanea.
Le caratteristiche dell'arte contemporanea vengono tracciate già in alcuni suoi scritti pubblicati nella Rivista per la ricerca sociale. Qui si polemizza contro tutte quelle interpretazioni sentimentalistiche dell'arte. Inoltre, vengono respinte tutte quelle tesi che connettono l'arte con il tempo a cui appartiene. In altre parole, si rifiuta il nesso arte – società e arte – storia. Nessi che porterebbero al concetto di rispecchiamento dell'uno nell'altro. Rispecchiamento che altro non fa che strumentalizzare l'arte stessa. Adorno rifiuta anche il concetto di tipico nell'arte, ossia l'interpretazione di essa come una sorta di conciliazione tra universale e singolare nel particolare. Questa concezione era stata avanzata da Lukacs, e da Adorno rifiutata perché porterebbe alla totale svalutazione dell'arte d'avanguardia contemporanea. Al contrario, bisognerebbe chiedersi quale sia il ruolo e la funzione dell'arte nel contemporaneo. Solo ponendosi questa domanda si può capire che essa oggi ha una funzione necessariamente critica. Ciò non perché se la propone (perché se così fosse sarebbe un'azione strumentalizzata e strumentale, e, quindi, rientrerebbe sempre nel sistema) ma proprio perché non proponendosela non risponde ad una logica strumentale o ad una logica dell'immaginazione asservita alla logica strumentale. In tal senso viene ripreso il concetto di bello di Kant. Ciò perché questi ha intuito molto bene che solo nell'arte l'immaginazione si sviluppa in modo non subordinato ad un rapporto di razionalità.
Herbert Marcuse (1898 – 1979), filosofo e sociologo francese, dopo l'avvento del nazismo si rifugia negli Usa, dove insegna a Harvard e alla Columbia University.
Tra i suoi scritti principali abbiamo: L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, del 1932; Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale, del 1941; Eros e civiltà, del 1955; Soviet Marxism, del 1958; L'uomo a una dimensione, del 1964 e La dimensione estetica, del 1977.
Marcuse viene considerato un esponente della scuola di Francoforte, anche se la sua formazione è diversa da essa. Ciò è reso chiaro dall'impostazione heideggeriana del suo libro su Hegel.
Il suo pensiero ha acquisito notevole rilevanza nei movimenti studenteschi del 1968. La sua critica alla società industriale, infatti, interpretata come sistema che riduce l'uomo ad una sola dimensione, veniva ad accentuare l'importanza del pensiero negativo, del grande rifiuto. Inoltre, sottolineava che le forze autenticamente rivoluzionarie erano costituite da tutti quegli elementi emarginati socialmente, razzialmente, culturalmente, ecc.
Pur condividendo molte delle istanze della critica marxiana dell'alienazione, Marcuse non ravvisa più la soluzione nella lotta di classe ad opera del proletariato. Ciò perché lo sviluppo tecnologico ha raggiunto un livello così elevato da integrare nel proprio sistema anche le forze che dovrebbero esserne l'antagonista. Integrazione di tali forze effettuata, non solo tramite una serie di mezzi materiali più o meno coercitive, ma anche e soprattutto attraverso una sorta di dominio psicologico e culturale.
Jurgen Habermas, nato nel 1929, è filosofo e sociologo tedesco, attualmente insegnante all'università di Francoforte. Tra i suoi scritti principali abbiamo: Teoria e prassi, del 1963; Storia e critica dell'opinione pubblica, del 1965; Logica delle scienze sociali, del 1967; Conoscenza ed interesse, del 1968; La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, del 1983; Il discorso filosofico della modernità, del 1985; Il pensiero post-metafisico, del 1988 e Dopo l'utopia del 1991.
il problema centrale della filosofia di Habermas è quello di operare un discorso scientifico rigoroso e legittimo, un discorso che si occupi del rapporto tra teoria e prassi, un discorso rigoroso su una società ormai ampiamente spoliticizzata. Un discorso che, al contempo, mostri l'esigenza di una effettiva emancipazione non riducibile a schemi estrinseci di modifica della realtà sociale e storica. In tal senso egli compie un confronto critico con le principali correnti metodologiche ed epistemologiche contemporanee, con particolare attenzione verso il marxismo, la sociologia, le tendenze analitico – neoposistivistiche, ermeneutiche, in maniera tale di potere attuare una fondazione della logica delle scienze sociali. Ciò col fine di risolvere adeguatamente i problemi epistemologici della comunicazione, in maniera tale da attuare una reale democrazia ed emancipazione. Tutto ciò con il preciso fine di smascherare le dinamiche che portano alla nascita delle ideologie di massa e al dominio delle menti del popolo. Il discorso si inserisce in un contesto che vuole promuovere un consenso fondato razionalmente. 

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