sabato 9 giugno 2012

Empirismo inglese e John Locke


Empirismo inglese
Massimi esponenti dell’empirismo inglese sono Locke, Berkeley e Hume. Una linea generale interessa la filosofia di questi filosofi, che riprende la tradizione filosofica dell'empirismo inglese (Bacone, Hobbes e la fisica di Newton), per polemizzare contro la metafisica aristotelica, platonica e cartesiana. Il richiamo all’esperienza, infatti, diviene anche studio dei problemi propri del mondo umano, problemi di ordine fisico, morale, politico, religioso.
Inizia tutto uno studio sulle potenzialità dell’intelletto, sulle sue capacità e sui suoi limiti. Ciò non al fine di mostrare l’origine empirica di tutte le nostre conoscenze, bensì per avanzare delle teorie circa i limiti e i compiti della ragione. Viene dato inizio, pertanto, ad uno studio sugli strumenti della conoscenza, rifiutando quanto di aprioristico si presentava nella tradizione razionalistica; ed uno studio sui compiti della ragione in rapporto non a un’astratta costruzione di un sistema di conoscenze, bensì in rapporto al mondo umano in cui l’uomo si trova ad operare.
John Locke
Nasce a Wrington nel 1632 e muore a Essex nel 1704. Tra le sue opere abbiamo del 1667 lo scritto che prende il titolo di Saggio sulla tolleranza; del 1671 è il Saggio sull’intelletto umano; del 1690 è il grande Saggio. Dello stesso anno sono i Due trattati sul governo. Nel 1693 compaiono invece i Pensieri sull’educazione; La ragionevolezza del cristianesimo. Postuma viene pubblicata la Parafrasi e note sulle Epistole di San Paolo; come anche la Guida dell’intelletto.
L’indagine di Locke, strettamente connessa alla problematica religiosa e politica dell’Inghilterra dopo la restaurazione, si propone di “vagliare i limiti dell’intelletto umano, di esaminare la nostra stessa capacità, e vedere quali oggetti siano alla nostra portata, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione”. Preliminare e necessario sarà dunque l’esame critico degli strumenti della conoscenza e del loro uso. Ponendo l’accento sull’indagine di Locke attorno ai compiti e limiti della ragione; si è potuto parlare di razionalismo per definire la sua posizione, piuttosto che di empirismo. La riflessione sul problema della ragione viene affrontato in due manoscritti (Abbozzi I e II) e il Saggio sull’intelletto umano.
L’indagine sui limiti dell’attività dell’intelletto umano, e quindi dei suoi oggetti specifici, ha inizio con la critica della dottrina dei principi e delle idee innate. Una critica questa che smonta un pilastro del sistema filosofico cartesiano. Se i principi e le idee ( ad esempio il principio di identità, il principio di non – contraddizione, i principi morali di fedeltà e di giustizia, le verità matematiche )fossero congeniti o innati, essi, dice, Locke, dovrebbero manifestarsi universalmente alla coscienza, cioè dovrebbero essere effettivamente noti a tutti. L’esperienza quotidiana, però, prova che le suddette idee, che si vorrebbero innate, sono ignote ai fanciulli e agli uomini incolti (popolazioni intere, come le scoperte geografiche hanno mostrato, sono prive di idee morali e religiose). Contro l’innatismo Locke oppone come fonte delle nostre idee l’esperienza. Quest'ultima si lega alla sensazione in rapporto alle cose esterne, da cui si genera la riflessione, che percepisce le operazioni interne dell’anima. Tramite questa duplice attività (esterna di percezione ed interna di riflessione) noi abbiamo delle idee semplici, perfettamente chiare e distinte: “per esempio, quelle di bianco, nero, caldo, freddo, morbidezza, lunghezza o estensione, unità, tutti i colori, i particolari gusti e odori). Le idee semplici sono chiare e distinte perchè si impongono necessariamente al soggetto senziente (necessariamente perché la sensibilità opera in maniera passiva, e cioè non decide di percepire, ma l'oggetto le si pone necessariamente).
La passività della sensazione non garantisce però una piena rispondenza delle idee alla realtà delle cose. Ed infatti, dobbiamo operare una distinzione tra idee di qualità primarie (estensione, solidità, figura, e mobilità) che sono totalmente rispondenti agli oggetti, ed idee di qualità secondarie (colore, sapore, odore) che sono semplicemente modificazioni dell’oggetto senziente, ma che non trovano reale rispondenza nelle cose del reale.
Mediante operazioni tra le idee semplici si generano le idee complesse, e da queste, mediante ulteriori separazioni, le idee astratte. Conseguentemente tutte le idee hanno un’origine empirica. Possiamo, pertanto, affermare che senza l’esperienza l’intelletto sarebbe una tabula rasa.
Le idee complesse si distinguono in idee di modi, di sostanze, di relazioni. Tra le idee di modi ( cioè quelle idee che non esistono di per sé ma in funzione di altre) vi è l’idea di spazio e di tempo. La prima deriva dalle idee semplici di tatto e di vista; la seconda dall’esperienza interiore di un flusso continuo di idee che si succedono l’una all’altra: questa esperienza di durata noi la proiettiamo anche sulla realtà. Particolare importanza riveste l’idea di sostanza, essa in Locke non è più oggetto della metafisica o fondamento ultimo della realtà, ma è un’idea formata mediante l’unificazione di idee semplici diverse che si presentano nell’esperienza sempre insieme, e che quindi ci faranno supporre, ma non conoscere, l’esistenza di un sostrato o sostegno che costituisce il fondamento di quelle qualità o attività che provocano le nostre idee semplici. Quindi, con materia noi intendiamo tutte quelle cose che hanno solidità ed estensione, con spirito il senso interno, come la capacità di percepire, scegliere, agire. Ma non potremmo comunque mai conoscere la materia, cioè la contemplazione di essa non ci fa capire se anche i corpi hanno la capacità di pensare o meno. Le idee di relazione, cioè di causa – effetto, nasce in noi perché siamo portati a considerare tale successione in termini di rapporto di causa ed effetto. Inoltre nell’idea di causa sta l’idea di potenza che si ricava solo dalla nostra esperienza interiore. L’esperienza però non ci dice nulla della necessità di tali rapporti, e si limita ad indicare i rapporti probabili. Infine vi sono anche le idee generali o astratte, che nascono mediante un processo di generalizzazione delle idee particolari, per cui noi togliamo ogni riferimento di tempo e spazio. Pertanto, per esempio, conoscendo molti uomini noi ci formiamo l’idea astratta di uomo.
L’universale è un concetto che non ha esistenza reale, perchésono invenzioni e creazioni dell’intelletto, fatte da esso e per il suo uso”. Alle idee generali o astratte corrispondono i nomi o le parole generali. Detto ciò, è chiaro che solo la sensazione ci prova l'esistenza della realtà. La realtà, però, viene conosciuta sempre nell'ambito delle idee. Gli unici oggetti della mente, infatti, sono le proprie idee. Pertanto, la nostra conoscenza non è altro che “la percezione del legame o concordanza, o della discordanza o contrasto tra le idee”. La nostra conoscenza rimane quindi tutta l’imitata all’ambito delle idee.
Nel IV libro del Saggio, Locke afferma che la nostra conoscenza è costruita sulla intuizione e sulla dimostrazione. L’intuizione riconosce in maniera chiara e immediata l’accordo o disaccordo di due idee; la dimostrazione invece, attraverso la mediazione di altre idee intermedia ottiene con certezza l’accordo o disaccordo tra due idee. Nel terzo libro III del Saggio, Locke passa alla trattazione della semiotica. La semiotica studia i segni con cui l’uomo si rappresenta la realtà (tali segni sono le idee) e i segni (le parole) con cui comunica le proprie idee. Il linguaggio è un sistema di segni. Il segno linguistico, però, non si riferisce direttamente alla cosa significata, bensì all’idea, la quale è a sua volta segno della cosa. La corrispondenza tra segno linguistico e idea non è necessaria, ma arbitraria, in quanto l’uomo in maniera arbitraria sceglie un suono particolare (parola) come segno di un’idea. Il linguaggio, per necessità di comunicazione, non potendo usare una parola per ogni singola cosa, usa termini o parole generali, frutto del processo astrattivo che fa sì che con una sola parola si indichi un gran numero di oggetti simili.
Locke vede nella ragione una guida sicura per la risoluzione dei problemi religiosi e politici. Si tratta, infatti, di sottoporre al vaglio di una sensata ragione le norme etiche e religiose, e, quindi, di chiarire l’origine e il senso di una serie di idee complesse dettate dal legislatore e da costume. Inoltre, Locke cerca di potere costruire una religione razionale fondata sulla possibilità di giungere, a prescindere dalla Rivelazione e con il solo aiuto della ragione, alla dimostrazione di verità quali l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Accanto alla religione razionale Locke riconosce uno spazio privilegiato alla Rivelazione cristiana, che egli, contro ogni costruzione dogmatica, riassume in un solo postulato, cioè Gesù è il messia, l’inviato di Dio promesso nell’Antico Testamento. Questo è il nucleo centrale della fede salvifica, che si lega e si completa nel pentimento e nelle opere della fede di una vita dedicata al bene. Questo è il nucleo essenziale della religione cristiana, e costituisce quello che Locke chiama la ragionevolezza del cristianesimo. Non si ha, pertanto, conflitto o opposizione tra il Cristianesimo e la ragione. Non lo si ha se il Cristianesimo viene depurato da tutte le dottrine dogmatiche. Anzi, la ragione, la lampada di Dio nell’uomo, è un mezzo per cercare di intendere le Sacre Scritture. La Rivelazione rimane, quindi, sempre in accordo con la ragione e la aiuta nei suoi più ardui problemi. In Locke rimane sempre fondamentale il concetto di tolleranza, che si collega con il primato della ragione in tutto il mondo umano. Ciò significa che la fede, essendo oggetto di libera scelta, riguarda soltanto la sfera personale ed individuale. Conseguentemente, non può essere imposta a nessuno. La tolleranza è un dovere religioso imposto dallo stesso Vangelo. Lo stato, associazione di uomini, è costituito solo in vista del mantenimento e progresso dei loro interessi civili; la chiesa è una libera associazioni di uomini che si riunisce al fine di onorare il proprio Dio nella forma che pensano più congeniale. Stato e Chiesa hanno due funzioni totalmente diverse e non devono interferirsi, anzi, lo stato deve essere laico e deve intervenire solo nel caso in cui il credo porta malessere all’interno dello stato. La Chiesa, da parte sua, non può pretendere che un uomo che sia stato espulso per problemi religiosi possa essere perseguitato dallo stato. La ragione, guida principale nell’approccio ai problemi religiosi, è uno strumento valido per la dimostrazione dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, nonché della tolleranza religiosa e della separazione di Chiesa e Stato. Tutti questi aspetti sono gli elementi fondamentali del deismo di Locke.
La teoria politica di Locke viene spiegata nei suoi Due trattati sul governo, e soprattutto nel secondo. Alla base della sua dottrina politica si ha la distinzione tra diritto di natura e contratto sociale. Il diritto di natura obbliga tutti e si fonda sulla ragione, la quale insegna a tutti gli uomini che essi sono dotati degli stessi diritti, e che, quindi, nessuno deve danneggiare l’altro nella libertà, nella vita e nella proprietà. Per meglio garantire i diritti di ciascuno e promuovere il comune benessere si regolarizza un contratto sociale. Quindi, fine dello stato è la difesa dei diritti naturali degli uomini dagli inconvenienti dello stato di natura. Ogni cittadino ha diritto alla libertà e alla proprietà; e la comunità politica, che si esprime nel potere legislativo, deve tutelare tali diritti. Uno stato democratico che trova la sua fonte di potere nel popolo e nella maggioranza in cui si esprime. Il potere supremo è il legislativo, quindi si ha l’esecutivo e infine il federativo (il potere di fare guerre, pace, alleanze, e politica estera). Se il potere supremo è il legislativo, l’esecutivo ne dipende e anche il federativo. Ora se l’esecutivo (il sovrano) soverchia il legislativo il contratto sociale può essere sciolto.

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