mercoledì 6 giugno 2012

Gottfied Wilhel Leibniz


Nasce a Lipsia il 1° luglio del 1646 e morì ad Hannover il 14 Novembre 1716. Nel 1663 sostenne la Disputatio metaphysica de principio individui, cosa che gli valse il titolo di bacelliere. Nel 1666 pubblicò a Lipsia il trattato di logica “De arte combinatoria”. Gli studi fisici lo portarono a pubblicare la Hypothesis physica nova. Tra il 1684 e il 1700 compose e in parte pubblicò le sue prime grandi opere filosofiche: le Meditationes de cognizione, veritate atque ideis, il Discorso di metafisica, il Nuovo sistema della natura, i Nuovi saggi sull’intelletto umano. Alcune delle sue opere scientifiche si occupano del calcolo infinitesimale. In tal senso le più importanti sono: Nova methodus pro maximis et minimis, Considerationes circa analyseosprincipia, Calculi differentialis usus, Elementa alalyseos infinitorum, Speciem dynamicum pro admirandis naturae legibus. Negli ultimi anni compose Saggi di teodicea, i Principi di filosofia o monadologia, i Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione e gli Scriptores rerum brunsvicensium.
Nel pensiero di Leibniz assume grande importanza la costruzione di una nuova logica che sia uno strumento (organo) capace di dimostrazioni necessarie come le dimostrazioni matematiche; anzi, più propriamente, costruire una logica come calcolo o algebra generale: tale logica darebbe modo, egli scrive, di ragionare calcolando, per cui, invece di discutere, si potrebbe dire: calcoliamo. Per fare ciò bisogna però superare gli equivoci dati dall’uso di un linguaggio spesso oscuro e confusionario. Si deve, pertanto, costruire una logica concepita in maniera combinatoria; ossia realizzare una logica che sia “l’arte di servirsi dei segni (o caratteri) mediante un genere esatto di calcolo. Questi caratteri sono intesi da Leibniz come un vero e proprio tipo di scrittura (alfabeto dei pensieri umani) o di lingua universale che ognuno potrebbe rapidamente imparare, così come rapidamente si apprende il linguaggio naturale o i rudimenti della matematica. La logica di Leibniz si fonda su due principi: principio di non contraddizione (o di identità) e il principio di ragione sufficiente, cui corrispondono la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto. Le verità di ragione sono necessarie, le verità di fatto sono contingenti. Le prime sono quelle verità in cui il predicato è compreso nel soggetto, e sono rette quindi dal principio di identità. Esse sono costituite a priori e non hanno bisogno di alcuna verifica sperimentale. Ovviamente, il loro contrario è necessariamente falso. Nelle verità di fatto, invece, il predicato aggiunge qualcosa al soggetto che non gli appartiene necessariamente; per questo le verità di fatto non sono suscettibili di dimostrazione deduttiva ma di conoscenza induttiva, a posteriori. Poiché, il nesso soggetto-predicato non è necessario, le verità di fatto sono contingenti e il loro contrario non è necessariamente falso. Esse si fondono sul principio di ragion sufficiente, e cioè sul principio che nulla accade senza causa, nulla si verifica senza una ragione sufficiente. La distinzione tra i due modi di conoscenza, uno a priori e uno a posteriori, è tuttavia legata all’imperfezione propria della conoscenza umana; da un punto di vista più alto, dal punto di vista di Dio, le verità di fatto sono conosciute a priori come le verità di ragione. Così Leibniz nel Discorso di metafisica afferma, esemplificando, che Dio vedendo la nozione individuale di Alessandro Magno, ne conosce a priori tutti quelli che saranno i predicati che gli si possono attribuire, cioè la sua storia. Ciò comunque non annulla la libertà umana perché se le verità di ragione sono sempre necessarie, le verità di fatto hanno sempre, come logicamente possibile, il loro contrario. Fondamentale nella filosofia di Leibniz è il concetto di sostanza individuale. Tale concetto lo va elaborando criticando il concetto cartesiano di sostanza materiale come estensione e il concetto epicureo di atomo; per Leibniz infatti la materia è sempre divisibile all’infinito. Si tratta, per il nostro filosofo, di trovare un dato veramente primo e senza parti. Tale dato non può esserlo nessuna entità materiale (la materia si è detto è divisibile all’infinito). Lo è, invece, punto inesteso, il punto metafisico. Quest'ultimo, infatti, è un essere completo, indivisibile e indistruttibile. Tale sostanza prende il nome di monade: “la monade non è altro che sostanza semplice che entra nei composti; semplice cioè senza parti.” La monade in quanto indivisibile e individuale è imperitura, e solo Dio può distruggerla; in quanto spirituale, la monade è attività e forza; infine nella monade si ha tutto ciò che le deve accadere. Ora, poiché Dio crea non una sostanza, ma un universo di sostanze, ciascuna di esse “è come un mondo intero, è come uno specchio di Dio ovvero di tutto l’universo, che essa esprime al suo modo particolare, pressappoco come una stessa città è rappresentata diversamente a seconda della posizione di chi la guarda”. Ogni sostanza è dunque un mondo particolare, indipendente da tutto salvo che da Dio, che grazie al suo intervento fa corrispondere le sostanze tra loro. Ma le monadi non agiscono immediatamente l’una sull’altra. Non vi possono essere due monadi uguali, ognuna è diseguale dall’altra, e si differenziano anche per una maggiore o minore perfezione (equivalente alla maggiore o minore chiarezza con la quale ogni monade rappresenta l’universo). Ma se le sostanze individuali sono punti metafisici, indistruttibili, spirituali, come spiegare l’esistenza dei corpi, della materia? Dapprima Leibniz risolve il problema dicendo che l’aggregato di monadi in verità non ha un’esistenza propria perché non ha una propria unità, ma siamo noi che immaginativamente la vediamo così. Poi invece parla di un principio unificatore (indicato col termine entelechia) che dà al corpo, ovvero al complesso di monadi, un vincolo sostanziale. Poi, però, Leibniz parla di una monade dominante che organizza tutte le altre in un composto. Infine, parla del corpo come l’insieme di quelle monadi oscure, cioè quelle che non raggiungono una chiarezza di percezione. Per risolvere il problema del rapporto tra anima e corpo Leibniz afferma la teoria dell’armonia prestabilita: “Immaginate due orologi che si accordino perfettamente. Ciò può avvenire in tre maniere: la prima consiste nella mutua influenza di un orologio sull’altro; la seconda nella cura di un uomo che vi provvede; la terza nella loro propria esattezza. La prima maniera (o dell’influenza) è quella proposta da Cartesio. La seconda maniera di fare sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre provvedere da un abile operaio che ne accordi ad ogni istante: è questa è quella che io chiamo la maniera dell’esistenza: è la spiegazione di Malebranche, che richiede un intervento di Dio per produrre, in occasione del movimento del corpo, un movimento dell’anima e viceversa: a Leibniz questa appare quasi un miracolo continuo. La terza maniera sarà di fare da principio queste due pendole con tanta arte e giustezza da potersi assicurare il loro accordo per il futuro e questo è la via dell’accordo prestabilito”. Ciascuna monade è un centro di attività che si specifica come percezione e appetizione. La percezione rappresenta la molteplicità nell’unità. L’appetizione permette il passaggio e il mutamento da una percezione ad un’altra, cioè tende dal presente al futuro. Negli esseri è possibile distinguere vari livelli di piccole percezione che portano all’appercezione completa o coscienza. La memoria, una minore appercezione, permette di fare associazioni e distingue gli animali dagli esseri inferiori. Quindi, l’animale non raggiunge mai la coscienza che sarà invece dell’uomo che possiede la ragione e che può conoscere le verità necessarie ed eterne. La conoscenza per Leibniz non può derivare dall’esperienza sensibile, come dall’esperienza sensibile non possono derivare gli universali; la conoscenza infatti è già in qualche modo presente nell’intelletto. Ciò significa che noi vediamo le cose per mezzo di Dio, subendo l’azione di Dio. Non si sostiene, quindi, un innatismo di tipo platonico, ma si afferma che la mente ha una disposizione, un’attitudine alla conoscenza da cui le idee possono essere tratte. Dio costituisce nel sistema filosofico di Leibniz il punto di riferimento e di fondazione assoluta. La sua esistenza è dimostrata dal principio di causa o ragion sufficiente, per cui se tutte le cose sono contingenti bisogna ricercare la ragione dell’esistenza di queste cose in una sostanza che abbia in sé stessa la ragione della propria esistenza. Gli esseri sono tutti contenuti nella mente di Dio, che decide di realizzare quelle monadi che contengono il massimo di perfezione: il criterio della maggior perfezione costituisce infatti la ragion sufficiente della scelta che Dio fa nel creare il mondo. Causa intelligente e libera, Dio crea il migliore dei mondi possibili. Questo è il fondamento dell’ottimismo leibziano e tutto l’universo tende come fine alla perfezione. Il male viene spiegato con la presenza del male metafisico, e cioè Dio nel creare la sostanza l’ha fatta finita, non potendole dare tutte le perfezioni, altrimenti avrebbe fatto un altro Dio. Tale male metafisico ha come conseguenza il male morale.

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